Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22235 del 26/10/2011

Cassazione civile sez. trib., 26/10/2011, (ud. 29/03/2011, dep. 26/10/2011), n.22235

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere –

Dott. PERSICO Mariaida – Consigliere –

Dott. DI BLASI Antonino – rel. Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE e MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in

persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore,

rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, nei cui

Uffici, in Roma, Via dei Portoghesi, 12 sono domiciliati;

– ricorrenti –

contro

COLATA CONTINUA ITALIANA S.P.A., con sede in (OMISSIS), in persona

del

legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta

delega a margine del controricorso, dagli Avv.ti Bidoggia Elenio,

Tabellini Paolo M. e Salvini Livia, elettivamente domiciliata nello

studio di quest’ultima in Roma, Viale Mazzini n. 11;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 98/44/2005 della Commissione Tributaria

Regionale di Milano – Sezione n. 44, in data 30/05/2305, depositata

il 07 giugno 2005;

Udita la relazione della causa svolta nella Pubblica Udienza del 29

marzo 2011 dal Relatore Dott. Antonino Di Blasi;

Sentito, per i ricorrenti, l’Avv. Alessandro De Stefano,

dell’Avvocatura Generale dello Stato;

Sentito, altresì, per la società contribuente, l’Avv. Branda

Giancarla, per delega del difensore;

Presente il P.M. Dott. Sepe Ennio Attilio, che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La società contribuente impugnava in sede giurisdizionale l’avviso di rettifica della dichiarazione IVA dell’anno 1996, connessa ad emissione di fatture non imponibili, omessa fatturazione ed omessa regolarizzazione di fatture passive. L’adita CTP di Milano accoglieva il ricorso, giusta decisione che veniva confermata dai Giudici di appello. In particolare, questi ultimi, relativamente alle forniture senza applicazione di IVA, ritenevano sussistenti i prescritti presupposti, rilevandone, oltretutto, la non imponibilità ai sensi e per gli effetti del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 8; quanto all’omessa fatturazione di operazioni imponibili, che l’addebito era smentito dalla documentazione in atti ed era, comunque, a ritenersi insussistente, non essendosi realizzata la cessione di beni, rilevante a fini impositivi; infine, in ordine all’omessa regolarizzazione di fatture passive, che le operazioni di magazzinaggio, correttamente, erano state ritenute non imponibili, sia perchè, come tali esposte in fattura, sia pure perchè classificabili come servizio internazionale, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 9, n. 5, sia, infine, perchè, in base al D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 8, per la contestata infrazione, non è più previsto, a carico del committente o del cessionario, il versamento dell’imposta evasa, ma solo il pagamento di una sanzione amministrativa.

Con ricorso notificato il 20.07.2006 l’Agenzia Entrate ed il Ministero dell’Economia e delle Finanze hanno chiesto l’annullamento dell’impugnata decisione.

Con controricorso del 13.10.2006, la società contribuente ha chiesto che l’impugnazione venga dichiarata inammissibile e, comunque, rigettata.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

In via preliminare, va dichiarata l’inammissibilità dell’impugnazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze, in quanto non è stato parte nel giudizio di appello ed il ricorso risulta notificato il 20 luglio 2006, quindi, dopo la data dell’1 gennaio 2001, a decorrere dalla quale l’Agenzia delle Entrate è subentrata all’Amministrazione delle Finanze nei rapporti giuridici, già facenti capo a quest’ultima.

Il ricorso dell’Agenzia è affidato a quattro mezzi, con i quali l’impugnata decisione viene censurata per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 8, comma 1, lett. c) e comma 2, altresì del D.L. n. 746 del 1983, artt. 1 e 2 convertito in L. n. 17 del 1984, nonchè per omessa o carente motivazione su punto decisivo; inoltre per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 8, comma 1, lett. a) e b), e art. 9, comma 1;

ancora, per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 15 e 21; infine, per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 9 e 41.

Il primo mezzo, attinente la sussistenza o meno dei presupposti, perchè ci si possa, legittimamente, avvalere della facoltà di fatturazione in sospensione d’imposta, deve ritenersi fondato.

La sentenza, infatti, non da contezza dell’iter decisionale seguito per giungere ad affermare, per un verso, che la ricorrente aveva fornito la “prova della esistenza delle dichiarazioni d’intento da parte dei clienti esportatori abituali”, e sotto altro profilo, l’irrilevanza giuridica della emissione di fatture senza IVA, per operazioni non coperte dalle lettere d’intento, malgrado le peculiarità del regime IVA. Non indica, in particolare, quante e quali siano dette dichiarazioni e, neppure, riferisce sul relativo contenuto, non consentendo, così, di coglierne la rilevanza e decisività, ai fini del riconoscimento della legittimità delle fatture emesse in sospensione d’imposta.

Ciò, nonostante la contestazione e le specifiche osservazioni dell’amministrazione finanziaria, secondo la quale, le dichiarazioni prodotte erano inidonee a legittimare l’emissione delle fatture, senza l’indicazione dell’IVA, a motivo che: a) alcune fatture risultavano emesse in date non rientranti nell’arco temporale di vigenza delle dichiarazioni stesse; b) altre erano state emesse malgrado l’intervenuta comunicazione di revoca della opzione di acquisto in sospensione d’imposta; c) altre, ancora, concernevano “prestazioni di servizi” mentre la dichiarazione d’intento riferiva a “cessioni di beni”, ovvero riguardavano “cessioni di beni” mentre la dichiarazione afferiva a “prestazioni di servizi”.

Il Collegio ritiene che le sintetiche espressioni utilizzate per rigettare l’appello dell’Agenzia, con l’apodittica affermazione anzi trascritta, non assolvano all’obbligo motivazionale, e che, quindi, la decisione, sul punto, sia affetta dal denunciato vizio di motivazione, che per l’appunto, è configurabile, “quando il giudice di merito omette di indicare nella sentenza gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indica tali elementi senza una approfondita disamina logico-giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento (Cass. n.890/2006, n. 1756/2006, n. 2067/1998).

In buona sostanza, l’argomentazione della C.T.R. non solo è inadeguata sotto il profilo della coerenza logico formale, rivelando un sintomo d’ingiustizia nella soluzione della questione di fatto, ma pure rivela decisive pretermissioni di elementi, attinenti al concreto contenuto delle dichiarazioni d’intendo, che ove esaminate e valutate, avrebbero, ragionevolmente, potuto indurre ad un diverso decisum.

Con il secondo motivo, si censura l’operato dei Giudici di merito, – i quali, hanno ritenuto applicabile il regime agevolativo di non imponibilità IVA, – sia ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 8, lett. a), perchè il trasporto, nel caso, era avvenuto “a cura della ricorrente e su incarico del cessionario ungherese”, sia pure, in quanto l’operazione risultava comunque “non imponibile” ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 8, lett. b), disposizione che subordina il riconoscimento dell’agevolazione solo alla condizione che “trasporto e spedizione fuori dalla UE avvengano entro novanta giorni dalla consegna”.

Anche tale mezzo risulta fondato, avuto riguardo, anzitutto, al condiviso principio, secondo cui “In tema di I.V.A., nelle cosiddette “operazioni triangolari” regolate dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 8, lett. a), e così chiamate per la presenza di un cedente e di un cessionario, entrambi residenti nel territorio dello Stato, nonchè di un terzo residente all’estero e destinatario della merce, l’esportazione dei beni deve avvenire a cura o a nome del cedente anche se su incarico del cessionario, senza possibilità ai inserimento, in tale fase, del cessionario. Inoltre, per espressa previsione, l’esportazione deve risultare da documento doganale ovvero da vidimazione apposta dall’Ufficio Doganale su un esemplare della fattura. Conseguentemente, qualora dal cedente siano state emesse le fatture relative alla merce destinata all’esportazione e su tali fatture, intestate al cessionario residente nel territorio dello Stato, risulti la vidimazione dell’Ufficio Doganale comprovante l’uscita della merce dal territorio doganale, devono ritenersi soddisfatte le condizioni richieste dalla legge per ritenere sussistente una operazione triangolare e, quindi, una cessione all’esportazione esente da imposta” (Cass. n.5065/1998).

Nel caso, è pacifico che l’esportazione non è avvenuta ad opera del cedente, bensì del cessionario e, d’altronde, non risultano osservate le altre precitate prescrizioni.

L’altro profilo di censura, ex D.P.R. n. 633 del 1972, art. 8, lett. b), risulta pure, fondato, in considerazione del fatto che la fattispecie disciplinata da tale disposizione riguarda “le cessione di beni con trasporto o spedizione fuori del territorio della comunità economica europea entro novanta giorni dalla consegna, a cura del cessionario non residente o per suo conto”, che, a differenza di quanto espressamente previsto per le cessioni di cui alla lettera a) del medesimo articolo, non possono essere sottoposti “ad opera del cedente stesso o di terzi, a lavorazione, trasformazione, montaggio, assiemaggio o adattamento ad altri beni”.

La CTR, diversamente opinando, ha dunque fatto malgoverno della citata disposizione di legge, sia per non avere tenuto conto che, nel caso, la stessa non tornava applicabile, desumendosi, pacificamente, dagli atti di causa che i beni ceduti erano stati, prima dell’esportazione, trasferiti presso lo stabilimento della Elzio Selva srl, per eseguirvi delle lavorazioni in base alle esigenze aziendali del cessionario non residente, sia pure per non essersi posta il problema della verifica degli altri presupposti, tra i quali, quello dell’osservanza del termine di novanta giorni.

Il terzo mezzo è inammissibile, e comunque, sarebbe infondato.

La CTR, infatti, sul punto ha argomentato che la contestata omessa fatturazione era a ritenersi insussistente, per un verso, in quanto “non risultava esservi stata alcuna dazione di somme a titolo di cauzione o simili”, in relazione agli imballaggi consegnati ai clienti con la clausola “a rendere”, e sotto altro profilo, in quanto la contribuente aveva consegnato detti imballaggi con l’espressa clausola “a rendere”, ragion per cui non era configurabile alcuna cessione di beni fatturabili. Ciò posto, la doglianza risulta formulata genericamente, in violazione del principio di autosufficienza e di quell’altro secondo cui l’impugnazione di una decisione di merito, che si fonda su distinte rationes decidendi, autonome l’una dall’altra e ciascuna sufficiente, da sola, a sorreggerla, è meritevole di ingresso solo se risulta articolata in uno spettro di censure che investano utilmente tutti gli ordini di ragioni esposte nella sentenza” Cass. n.3965/2002; n.4424/2001;

n.14740/2005).

La ricorrente Agenzia, in vero, con il mezzo, ha dedotto in ordine alla prima ratio, mentre alcuna specifica critica è rinvenibile alla argomentata affermazione della CTR, secondo cui l’omessa fatturazione era a ritenersi, altresì insussistente, in quanto difettava un presupposto indefettibile, cioè la cessione dei beni.

L’infondatezza, poi, è connessa al fatto che la CTR non fa alcuna affermazione di principio in contrasto con le disposizioni di legge applicabili, stante che, per un verso, è rimasto acclarato che gli imballaggi erano stati consegnati con la esplicita “clausola a rendere”, ragion per cui a buon diritto non erano stati fatturati, e d’altra parte che la fatturazione era stata successivamente effettuata, nel momento in cui gli imballaggi non erano stati restituiti, entro il 31 gennaio dell’anno 1997.

A diversa conclusione, del resto, non induce l’osservazione dell’Agenzia, per la quale la contribuente non avrebbe tenuto l’apposito registro, non risultando contestata la rilevanza fiscale della pretesa infrazione, stante la verificata possibilità di eseguire le verifiche necessarie, attraverso la documentazione fiscale emessa, contenente, con riferimento agli imballaggi, l’espressa clausola “a rendere”.

L’ultimo mezzo, va esaminato e deciso, tenuto conto del quadro normativo di riferimento, quale delineatosi in esito all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 471 del 1997 e D.Lgs. n. 472 del 1997.

In particolare, nel caso, trova applicazione la disciplina, introdotta dal D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 8, che non pone più a carico del committente o del cessionario il versamento dell’imposta evasa ma solo il pagamento di una sanzione amministrativa.

In proposito, questa Corte, ha già avuto modo di precisare che “In materia di sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie, il D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 3, applicabile “ai procedimenti in corso” alla data dell’I aprile 1998, a condizione (nella specie sussistente) che il provvedimento di irrogazione della sanzione non sia divenuto definitivo, ha sancito il principio del “favor rei”, sicchè la sanzione meno grave, più favorevole al trasgressore, ha portata retroattiva nei giudizi pendenti. Tale normativa di carattere generale è applicabile anche alle violazioni in materia di IVA, tenuto conto che il nuovo regime sanzionatorio introdotto dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 ed entrato in vigore l’1 aprile 1998, prevede una sistematica repressiva meno onerosa rispetto al precedente sistema. In particolare, l’art. 16 ha abrogato, fra l’altro, il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 41 e l’art. 6, comma 8, ha determinato i margini del “quantun” della pena pecuniaria dovuta in ipotesi di omessa autofatturazione da parte del cessionario o del committente, senza però riproporre, neppure nella riformulazione contenuta nel D.Lgs. 5 giugno 1998, n. 203, il pagamento dell’imposta (avente anch’esso, nel regime dell’abrogato art. 41, natura sanzionatola)” (Cass. n. 12678/2005, n. 15509/2C04, n.5268/2005).

La decisione impugnata, che in relazione alla contestata infrazione, ha ritenuto non più esigibile il pagamento dell’imposta, bensì “solo il pagamento di una sanzione amministrativa”, essendo in linea con il trascritto principio, non giustifica la formulata censura, basata sull’insussistente presupposto che la CTR abbia negato l’applicabilità, sia dell’imposta sia pure delle sanzioni.

In conclusione, va dichiarata inammissibile l’impugnazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze e le spese del giudizio, tra lo stesso e la contribuente, avuto riguardo all’epoca del consolidarsi dell’applicato principio, in tema di legittimazione ad causam del Ministero, vanno compensate, mentre vanno accolti il primo ed il secondo motivo del ricorso dell’Agenzia Entrate, dichiarato inammissibile il terzo e rigettato il quarto; in relazione ai motivi accolti, l’impugnata sentenza, – che per il resto va confermata, – va cassata, e la causa va rinviata ad altra sezione della CTR della Lombardia, la quale procederà al riesame e, quindi, attenendosi al quadro normativo di riferimento ed ai richiamati principi, deciderà nel merito ed anche sulle spese del giudizio di legittimità, motivando congruamente.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso del Ministero dell’Economia e delle Finanze e compensa le spese del giudizio.

Accoglie il ricorso dell’Agenzia Entrate, nei limiti indicati nella parte motiva, cassa, in relazione, l’impugnata decisione, che conferma nel resto, e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della CTR della Lombardia.

Rigetta, il terzo ed il quarto motivo del ricorso.

Così deciso in Roma, il 29 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 26 ottobre 2011

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