Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22224 del 20/10/2014


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Civile Sent. Sez. 3 Num. 22224 Anno 2014
Presidente: RUSSO LIBERTINO ALBERTO
Relatore: CARLUCCIO GIUSEPPA

SENTENZA
sul ricorso 29635-2008 proposto da:
PUCCI ARCHIMEDE PCCRHM58C14C773V,

TOMBOLELLI ANNA

MARIA TMBNMR65S47C773C, elettivamente domiciliati in
ROMA, V.COSTANTINO 41, presso lo studio dell’avvocato
CLAUDIO EARGIACCHI, rappresentati e difesi
dall’avvocato SANDRO LUNGARINI giusta procura a
2014

margine del ricorso;
– ricorrenti –

1549

contro

CALABRIA CARMELINA CLBCNL50S48G298E;
– intimata –

Data pubblicazione: 20/10/2014

avverso la sentenza n.

1378/2008 della CORTE

D’APPELLO di ROMA, depositata il 01/04/2008 R.G.N.
8001/2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 17/06/2014 dal Consigliere Dott. GIUSEPPA

udito l’Avvocato SANDRO LUNGARINI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. ROSARIO GIOVANNI RUSSO che ha concluso
per la rinnovazione ai sensi dell’art. 291 c.p.c.
della notifica nulla;

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CARLUCCIO;

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.Archimede Pucci e Anna Maria Tombolelli convennero in giudizio
Carmelina Calabria, ufficiale giudiziario del Tribunale di Civitavecchia, e
chiesero il risarcimento del danno (pari a 150 milioni di lire, oltre
accessori), per avere la stessa omesso la notifica del (titolo esecutivo e
del) precetto alla società TPM, con il quale era stato intimato alla detta
società, sulla base di sentenza esecutiva, di pagare agli attori la somma

giudiziario, una volta accertato il trasferimento di fatto della sede
societaria in luogo sconosciuto, si era rifiutata di eseguire la notifica ai
sensi dell’art. 140 cod. proc. civ., non essendo indicata nell’atto l’identità
del legale rappresentante. Dedussero che, per effetto di tale
comportamento, non avevano potuto mettere in esecuzione la sentenza e
procedere a pignoramento mobiliare dei beni della società.
Il Tribunale di Civitavecchia rigettò la domanda e condannò gli attori al
pagamento delle spese processuali.
La Corte di appello di Roma rigettò l’impugnazione proposta dai
soccombenti, nella contumacia della appellata (sentenza del 1° aprile
2008).
2. Avverso la suddetta sentenza, Pucci e Tombolelli propongono ricorso
per cassazione affidato a due motivi.
La Calabria, ritualmente intimata, non svolge difese.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.11 Tribunale, secondo quanto riferisce la Corte di appello, aveva ritenuto
illegittimo il comportamento dell’ufficiale giudiziario e aveva rigettato la
domanda per mancanza della prova attorea sull’esistenza del danno e
sulla riconducibilità causale dello stesso al comportamento dell’ufficiale
giudiziario. In particolare, aveva rilevato l’illegittimità del comportamento
sulla base della giurisprudenza di legittimità che consente la notificazione
ai sensi dell’art. 140 c.p.c. in mancanza di indicazione dell’identità del
legale rappresentante; aveva ritenuto la mancanza di prova dell’esistenza
del danno e del nesso di causalità tra la condotta illecita e l’evento
dannoso, per essersi gli attori limitati ad affermare di non aver potuto
mettere in esecuzione il titolo e procedere al pignoramento immobiliare di
beni della società.
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di oltre 110 milioni di lire e accessori. Sostennero che l’ufficiale

La Corte di merito ha rigettato l’impugnazione ritenendo decisivo che gli
attori avrebbe dovuto provare, oltre all’illecito, le circostanze che sul
piano della causalità giuridica rendono il danno determinato, esistente e
certo; e, quindi, che la notifica alla società ex art. 140 c.p.c., anche in
mancanza di indicazione del legale rappresentante, avrebbe consentito
con ragionevole probabilità l’esecuzione del pignoramento su individuati
beni del debitore e l’instaurazione del procedimento esecutivo destinato a

creditorie.
Inoltre, recuperando un eccezione sollevata dalla convenuta in primo
grado (poi contumace in appello), ha rilevato che – risultando dagli atti
nota al momento della notifica l’identità del rappresentante legale della
società, con la conseguenza che i creditori avrebbero potuto procedere
alla notifica ex art. 145, osservando le disposizioni degli artt. 138, 139 e
141 c.p.c., ottenendo lo stesso risultato cui miravano con la notifica ai
sensi dell’art. 140 c.p.c. – pur potendo le parti scegliere tra i due tipi di
notifica, tanto rileverebbe come violazione dei principi generali di
correttezza e buona fede da parte del danneggiato ai sensi degli artt.
1175 e 1227 cod. civ., al fine di limitare le conseguenza dannose.
Infine, la Corte di merito ha rigettato l’impugnazione concernente la
condanna delle spese processuali di primo grado, essendo la stessa stata
emessa in applicazione del principio della soccombenza.
2. Con il primo motivo si deduce, violazione e falsa applicazione di norme
di diritto, nullità della sentenza e del procedimento, omessa, insufficiente
e contraddittoria motivazione. In riferimento al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., si
deduce: la violazione degli artt. 2697, 1126, 1227, secondo comma,
1175, 2043, 2056, 2058, art. 28 Cost., artt. 60, 138, 139, 140, 145, 513
e ss c.p.c.; in riferimento al n. 4 dell’art. 360 c.p.c., si deduce: la
violazione degli artt. 112, 113, 115, 116 c.p.c.; in riferimento al n. 5
dell’art. 360 c.p.c., si deduce la violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c.
2.1. Il motivo è inammissibile.
Risulta violato l’art. 366 bis cod. proc. civ., applicabile ratione temporís.
2.2. Secondo la giurisprudenza consolidata di legittimità, il quesito di
diritto deve essere formulato in modo tale da esplicitare una sintesi logico
giuridica della questione, così da consentire al giudice di legittimità di
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concludersi con la soddisfazione, in tutto o in parte, delle ragioni

enunciare una regula iuris suscettibile di applicazione anche in casi
ulteriori, rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata. Esso deve
comprendere: a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto
sottoposti al giudice di merito (siccome da questi ritenuti per veri,
mancando, altrimenti, la critica di pertinenza alla ratio decidendi della
sentenza impugnata) b) la sintetica indicazione della regola di diritto
applicata da quel giudice; c) la diversa regola di diritto applicabile che –

quesito, quindi, non deve risolversi in una enunciazione di carattere
generico e astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della
controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da
non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto
dal ricorrente; né si può desumere il quesito dal contenuto del motivo o
integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione della
norma.
2.2.1. Inoltre, il ricorrente che denunci un vizio di motivazione della
sentenza impugnata è tenuto – nel confezionamento del relativo motivo a formulare in riferimento alla anzidetta censura, un c.d. quesito di fatto,
e cioè indicare chiaramente, in modo sintetico, evidente e autonomo, il
fatto controverso rispetto al quale la motivazione si assume omessa o
contraddittoria, così come le ragioni per le quali la dedotta insufficienza
della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione. A tale fine
è necessaria la enucleazione conclusiva e riassuntiva di uno specifico
passaggio espositivo del ricorso nel quale tutto ciò risalti in modo non
equivoco. Tale requisito, infine, non può ritenersi rispettato allorquando
solo la completa lettura della illustrazione del motivo – all’esito di una
interpretazione svolta dal lettore, anziché su indicazione della parte
ricorrente – consenta di comprendere il contenuto e il significato delle
censure, atteso che la Corte, in ragione del carattere vincolato della
critica che può essere rivolta alla sentenza impugnata, deve essere posta
in condizione di comprendere, dalla lettura del solo quesito di fatto, quale
sia l’errore commesso dal giudice del merito.
2.3. Nella specie, manca il c.d. quesito di fatto in riferimento al dedotto
vizio motivazionale.

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ad avviso del ricorrente – si sarebbe dovuta applicare al caso di specie. Il

Il quesito di diritto che conclude il motivo è il seguente:«A fronte di un
accertato illecito e reiterato rifiuto di notifica di un atto ad una società
nella sede legale da parte dell’Ufficiale Giudiziario, anche laddove fossero
possibili altre forme di notifica presso l’Amministratore residente fuori
sede, compete al richiedente il risarcimento dei danni, che comprenda
quantomeno le inutili spese di mancata notifica, dei bollati, delle
competenze, onorari e spese di quel precetto; compete altresì il

non possibile nel caso concreto, equitativamente, danni conseguenti
quantomeno pure alla mancata possibilità di eseguire un pignoramento
vuoi anche mobiliare, in loco sui beni presenti all’interno degli Uffici».
2.3.1. Ai fini dell’inammissibilità, rileva in primo luogo la mancanza del
quesito sulla

quaestio facti.

Infatti, nella parte esplicativa sono

richiamate, riproducendole parzialmente, testimonianze da cui si
vorrebbe far risultare la prova dell’esistenza del danno (presenza di beni
nella sede societaria); ma, la mancanza del quesito di fatto impedisce
ogni esame, unitamente alla contestuale violazione dell’art. 366, n. 6
c.p.c., che impone la precisa indicazione, rispetto al fascicolo
processuale, di quanto richiamato a sostegno della censura.
Tanto inficia anche il quesito in diritto, che prescinde totalmente dal
profilo della mancata prova in ordine alla esistenza del danno; e tanto
rileva anche rispetto alle digressioni del giudice relative alle conseguenze
del comportamento del creditore in ordine alla limitazione delle
conseguenze dannose (logicamente subordinato). Inoltre, il quesito, nella
parte finale, si articola in termini di mancanza di prova sulla
quantificazione, cui soccorrerebbe la liquidazione equitativa, mentre la
questione centrale del rigetto della domanda nella sentenza impugnata è
data dalla mancanza della prova in ordine alla esistenza del danno. Il
tutto, nel contesto di una formulazione apodittica del quesito, sulla base
di un coacervo di norme, comprese quelle sulla notifica.
Né è autonomamente valutabile il quesito nella parte in cui si riferisce al
mancato riconoscimento delle “spese vive”. Infatti, oltre alla novità della
questione, non risultando dal ricorso la specifica richiesta delle stesse nel
giudizio di merito, rileva – sempre ai fini della inammissibilità del motivo

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risarcimento dei danni ulteriori da liquidarsi, in mancanza di prova precisa

- la mancata indicazione degli atti richiamati, in violazione dell’art. 366 n.
6 c.p.c.
3. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce tutti i vizi motivazionali e
la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. in riferimento alla disposta
a

condanna ‘alle spese di primo grado e si duole della mancata
compensazione delle stesse.
3.1. Il motivo è inammissibile.

soccombenza (art. 91 cod. proc. civ.) e il ricorrente si duole,
sostanzialmente, del mancato esercizio del potere di compensazione delle
spese ex art. 92 cod. proc. civ.
Ma, mentre l’esercizio del potere di disporre la compensazione è stato nel
tempo sottoposto ad un controllo sempre più stringente – (dalla
formulazione originaria dell’art. 92 cod. proc. civ., alla riforma contenuta
nella legge 28 dicembre 2005, n. 263 (<

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