Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22222 del 14/10/2020

Cassazione civile sez. lav., 14/10/2020, (ud. 08/07/2020, dep. 14/10/2020), n.22222

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4561/2015 proposto da:

NATTA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VICOLO MARGANA 15, presso lo

studio dell’avvocato LUIGI RINALDI FERRI, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato PIERPAOLO FAVARON;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore, in proprio e

quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A. Società di Cartolarizzazione

dei Crediti I.N.P.S., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CESARE

BECCARIA N. 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto,

rappresentati e difesi dagli avvocati ANTONINO SGROI, LELIO

MARITATO, CARLA D’ALOISIO, ESTER ADA SCIPLINO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 761/2013 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 05/02/2014 R.G.N. 1153/2010.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

con sentenza n. 761/2013, la Corte d’appello di Venezia ha rigettato l’impugnazione proposta da Natta s.r.l. nei confronti dell’INPS, anche quale mandatario di S.C.C.I. s.p.a., avverso la sentenza del Tribunale di Rovigo che aveva rigettato l’opposizione della società avverso la cartella esattoriale, seguita a verbale di accertamento ispettivo, finalizzata al recupero di contributi derivanti dall’aver assoggettato a contribuzione retribuzioni inferiori a quelle dovute ai sensi del contratto collettivo nazionale di settore per i dipendenti di aziende ortofrutticole ed agrumarie, ai sensi della L. n. 389 del 1989, art. 1;

la questione controversa riguardava la legittimità del recupero di contribuzione eseguito dall’Inps posto che la società aveva contestato l’applicabilità di tale contratto collettivo e che fosse stato ritenuto l’orario di quaranta ore settimanali a fronte di un orario effettivo discontinuo e variabile, legato al tipo di produzione (prodotti freschi);

ad avviso della Corte, pur ammettendo che la L. n. 389 del 1989, art. 1, comma 1, non comporta il riferimento all’orario di lavoro previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro, premesso che i dipendenti nei cui confronti era stata rilevata l’irregolarità non potevano essere considerati lavoratori agricoli ai sensi della L. n. 92 del 1979, art. 6, come novellato dal D.Lgs. n. 173 del 1998, in quanto la datrice di lavoro non si occupava della raccolta dei prodotti trattati dai medesimi lavoratori, ha ritenuto che nella specie non sussistevano ipotesi di sospensioni consensuali dei rapporti di lavoro;

ha, quindi, rilevato il passaggio in giudicato dell’accertamento effettuato dal primo giudice in ordine al fatto che i contratti individuali di lavoro prevedevano un orario contrattuale di lavoro di quaranta ore settimanali, per cui l’accordo tra le parti era di tale entità oraria e le sospensioni indicate dalla società, per le loro caratteristiche, dovevano ritenersi in realtà frutto di scelte unilaterali di ciascuna delle parti ma non frutto di accordo rilevante ai fini di provocare la modifica del contenuto del contratto di lavoro;

neppure assumeva rilievo la circostanza che l’INPS, successivamente al periodo di interesse, aveva applicato la disciplina previdenziale del rapporto di lavoro intermittente D.Lgs. n. n. 276 del 2003, ex art. 33; inoltre, l’interpretazione degli artt. 49 e 64 del c.c.n.l. sopra indicato sollecitata dalla società doveva ritenersi scorretta giacchè gli stessi non avevano introdotto la possibilità per il datore di lavoro di sospendere unilateralmente il rapporto di lavoro o di incidere sull’orario di lavoro pattuito in contratto; è stato rigettato anche il motivo d’appello rivolto alla riforma della sentenza di primo grado laddove aveva ritenuto l’obbligo contributivo anche nei casi in cui erano stati i lavoratori a non dare la propria disponibilità al lavoro, posto che la parte si era offerta di provare la circostanza ma la richiesta era stata respinta per la genericità degli articolati proposti;

avverso tale sentenza, ricorre per cassazione Natta s.r.l., sulla base di sei motivi, successivamente illustrati da memoria: 1) omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio e violazione e falsa applicazione della L. n. 389 del 1989, art. 1, comma 1, in quanto la sentenza avrebbe omesso la valutazione della circostanza, in fatto, che al momento dell’assunzione era stata concordata la reciproca discontinuità dell’impegno contrattuale con ovvia conseguenza sull’obbligo contributivo di cui all’art. 1 citato; 2) violazione e falsa applicazione della L. n. 389 del 1989, art. 1, comma 1, in ragione del fatto che, una volta riconosciuto che tale articolo non imponeva di tenere conto dell’orario di lavoro contrattuale, non poteva non considerarsi insussistente l’obbligo contributivo in caso di insussistenza dell’obbligo retributivo; 3) violazione e falsa applicazione della L. n. 389 del 1989, art. 1, comma 1, anche in relazione agli artt. 100 e 112 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., in relazione alla circostanza che eventuali illegittimità degli accordi intercorsi con i lavoratori non avrebbe potuto essere fatta valere dall’Inps, che non ne aveva fatto richiesta nè possedeva la legittimazione attiva; 4) violazione e falsa applicazione dell’art. 49 del c.c.n.l. in materia di sospensione del lavoro dipendente dalla volontà del datore di lavoro; 5) in via subordinata, si denuncia la violazione e o falsa applicazione della L. n. 92 del 1979, art. 6, in ragione del fatto che la pretesa contributiva si sarebbe dovuta calcolare facendo applicazione delle aliquote e delle discipline previste per i lavoratori agricoli; 6) in ulteriore subordine, si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 244 e dell’art. 432 c.p.c., in relazione alla contribuzione pretesa per le ore o le giornate di lavoro rifiutate dai lavoratori, posto che la parte aveva debitamente e ritualmente richiesto l’ammissione della prova per testi sul punto;

resiste l’INPS con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

i primi quattro motivi ed il sesto, in quanto connessi, vanno trattati congiuntamente e sono infondati;

nella sostanza ci si duole del fatto che, nell’interpretare il disposto della L. n. 389 del 1989, art. 1, al fine di determinare l’importo della contribuzione dovuta, la sentenza impugnata abbia ritenuto irrilevante che l’orario di lavoro svolto e retribuito dai dipendenti della NATTA s.r.l. fosse stato inferiore alle quaranta ore settimanali, pur riconoscendo che la norma citata non impone il riferimento all’orario di lavoro previsto dal contratto collettivo;

da tale errore interpretativo, dunque, sarebbe originata l’omessa considerazione del fatto che l’accordo tra le parti del rapporto di lavoro aveva avuto ad oggetto la discontinuità dell’orario di lavoro, come provato dai testi P. e B., con la conseguenza che la sentenza aveva fatto applicazione dell’art. 1 citato applicando il parametro dell’orario previsto dal c.c.n.l., nella specie non applicato, e non necessariamente richiamato dalla disposizione di legge in esame; inoltre, si era dato corso ad una indagine sulla validità degli accordi intercorsi tra le parti del rapporto di lavoro del tutto estranea all’ambito di interesse e di legittimazione dell’INPS che è soggetto estraneo al rapporto di lavoro;

la tesi prospettata in ricorso non è coerente con la ricostruzione della nozione di minimale contributivo emergente dalla L. n. 389 del 1989, art. 1, nonchè dei suoi rapporti con le obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro, che questa Corte di cassazione ha elaborato;

in particolare, secondo la giurisprudenza di questa Corte (da ultimo Cass. N, 15129 del 2019) che si è consolidata dopo l’arresto delle Sezioni Unite n. 11199 del 29/07/2002, l’importo della retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi previdenziali non può essere inferiore all’importo di quella che ai lavoratori di un determinato settore sarebbe dovuta in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative su base nazionale (c.d. “minimale contributivo”), secondo il riferimento ad essi fatto – con esclusiva incidenza sul rapporto previdenziale – dal D.L. 9 ottobre 1989, n. 338, art. 1 (convertito in L. 7 dicembre 1989, n. 389), senza le limitazioni derivanti dall’applicazione dei criteri di cui all’art. 36 Cost. (c.d. “minimo retributivo costituzionale”), che sono rilevanti solo quando a detti contratti si ricorre – con incidenza sul distinto rapporto di lavoro – ai fini della determinazione della giusta retribuzione (v. ex aliis Cass. n. 801 del 20/01/2012);

si è affermato che la regola del minimale contributivo deriva dal principio di autonomia del rapporto contributivo rispetto alle vicende dell’obbligazione retributiva, ben potendo l’obbligo contributivo essere parametrato a importo superiore a quanto effettivamente corrisposto dal datore di lavoro;

tale principio opera, contrariamente a quanto sostenuto dalle parti ricorrente, sia con riferimento all’ammontare della retribuzione c.d. contributiva, sia con riferimento all’orario di lavoro da prendere a parametro, che dev’essere l’orario di lavoro normale stabilito dalla contrattazione collettiva o dal contratto individuale se superiore;

difatti, è evidente che se ai lavoratori vengono retribuite meno ore di quelle previste dal normale orario di lavoro e su tale retribuzione viene calcolata la contribuzione, non vi può essere il rispetto del minimo contributivo nei termini sopra rappresentati;

vale infatti anche con riferimento all’orario il principio stabilito dalla Corte Costituzionale nella sentenza 20 luglio 1992, n. 342, secondo il quale “una retribuzione (…) imponibile non inferiore a quella minima (è) necessaria per l’assolvimento degli oneri contributivi e per la realizzazione delle finalità assicurative e previdenziali, (in quanto), se si dovesse prendere in considerazione una retribuzione imponibile inferiore, i contributi determinati in base ad essa risulterebbero tali da non poter in alcun modo soddisfare le suddette esigenze”;

quanto poi alla questione della legittimità della inclusione nel parametro della contribuzione L. n. 898 del 1989, ex art. 1, del contenuto cd. normativo del contratto collettivo, va chiarito che è vero che questa Corte di cassazione (Cass. n. 6817 del 2003; n. 801 del 2012) ha più volte affermato che nel cosiddetto “minimale contributivo”, secondo il riferimento ad essi fatto – con esclusiva incidenza sul rapporto previdenziale – dal D.L. 9 ottobre 1989, n. 338, art. 1 (convertito in L. 7 dicembre 1989, n. 389), non entrano a far parte le maggiorazioni previste sul compenso orario per prestazioni di lavoro straordinario previste dal cosiddetto “contratto leader”, e cioè dal contratto collettivo, tra quelli intervenuti per la medesima categoria, stipulato dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative di quella categoria;

si è, dunque, affermato che la materia della disciplina contributiva dell’orario di lavoro straordinario non è disciplinata, attraverso il parametro contrattuale collettivo, dalla L. n. 898 del 1989, art. 1, ma dalla specifica legge di settore;

tale principio, tuttavia, non comporta la conseguenza invocata dalla ricorrente e cioè la possibilità di incidere sul minimale contributivo attraverso accordi individuali tra le parti del rapporto di lavoro;

va infatti ricordato che nel settore dell’edilizia, del D.L. n. 244 del 1995, art. 29, conv. in L. n. 341 del 1995, individua le ipotesi di esenzione dall’obbligo del minimale contributivo – inteso anche come obbligo di commisurare la contribuzione ad un numero di ore settimanali non inferiore all’orario di lavoro normale stabilito dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale e dai relativi contratti integrativi territoriali di attuazione – con disposizione, avente chiara finalità antielusiva, che è stata ritenuta da questa Corte di stretta interpretazione, analogamente alle fonti normative cui essa rinvia (Cass. n. 9805 del 04/05/2011, Cass. n. 10134 del 26/04/2018, e ancora, da ultimo, Cass. n. 4690 del 18/2/2019);

in proposito, è stato dunque escluso che una sospensione consensuale della prestazione che derivi da una libera scelta del datore di lavoro e costituisca il risultato di un accordo tra le parti possa determinare la sospensione dell’obbligazione contributiva (v. Cass. n. 21700 del 13/10/2009, Cass. n. 9805 del 04/05/2011 e successive conformi, che hanno superato la diversa soluzione adottata dal Cass. n. 1301 del 24/01/2006);

la necessità di tipizzare le suddette ipotesi eccettive è sorta nel settore edile proprio perchè ivi la possibilità di rendere la prestazione lavorativa è normalmente condizionata da eventi esterni che sfuggono al controllo delle parti;

il fatto che per gli altri settori merceologici non vi sia analoga previsione non significa che sussista una generale libertà delle parti di modulare l’orario di lavoro e la stessa presenza al lavoro così rimodulando anche l’obbligazione contributiva, considerato che questa seconda è svincolata dalla retribuzione effettivamente corrisposta e dev’essere connotata dai caratteri di predeterminabilità, oggettività e possibilità di controllo;

anche nei settori diversi da quello edile, la contribuzione è dunque dovuta nei casi di assenza del lavoratore o di sospensione concordata della prestazione stessa che costituiscano il risultato di un accordo tra le parti derivante da una libera scelta del datore di lavoro e non da ipotesi previste dalla legge e dal contratto collettivo (quali malattia, maternità, infortunio, aspettativa, permessi, cassa integrazione);

in tal senso, e considerata l’autonomia del rapporto contributivo rispetto a quello retributivo, è stato appunto rimodulato il principio affermato nel recente arresto n. 24109 del 03/10/2018;

ove, dunque, gli enti previdenziali e assistenziali pretendano da un’impresa differenze contributive sulla retribuzione virtuale determinata ai sensi del D.L. 9 ottobre 1989, n. 338, art. 1 comma 1, anche con riferimento all’orario di lavoro, incombe al datore di lavoro allegare e provare la ricorrenza di un’ipotesi eccettuativa dell’obbligo, nel senso sopra individuato;

la soluzione adottata nel caso dalla Corte territoriale è dunque conforme a diritto, considerato che l’esenzione dall’obbligo contributivo era nel caso sostenuta dal datore di lavoro sulla base della necessità di adeguare la contribuzione alla prestazione effettivamente resa, nella ritenuta legittimità delle sospensioni concordate;

alla luce delle considerazioni sopra svolte, inoltre, è evidente la sostanziale irrilevanza del disposto dell’art. 49 del c.c.n.l. invocato, che regola gli effetti sulla retribuzione dovuta al lavoratore nelle ipotesi di riduzione dell’orario giornaliero di lavoro ma non prevede specifiche ipotesi di legittima sospensione del rapporto; la ricorrente non ha, nel formulare il motivo, dedotto che le riduzioni di lavoro fossero derivate da specifiche circostanze eccettuative previste da espresse previsioni di legge o contratto collettivo, tempestivamente allegate e proposte nei gradi di merito;

è, quindi, evidente che la natura inderogabile, nel senso sopra indicato, e l’autonomia dell’obbligazione contributiva rendono del tutto irrilevante l’adesione del lavoratore all’iniziativa del datore di lavoro in caso di sospensione unilaterale o, addirittura, di rifiuto del medesimo lavoratore nel rendere pienamente la prestazione lavorativa;

da ultimo, anche il quinto motivo, proposto in via subordinata, va rigettato;

tale motivo, in particolare, non tiene conto che la sentenza impugnata ha, in fatto, accertato che l’attività svolta dalla Natta s.r.l. non è inquadrabile nel settore agricolo in quanto non si occupa anche della raccolta dei prodotti agricoli che sottopone a cernita, pulitura ed imballaggio; tale accertamento, neanche censurato in questa sede, rende evidente che l’attività svolta dalla società non rientra in quella considerata agricola ai sensi dell’art. 2135 c.c., trattandosi di attività meramente connessa a quella agricola in assenza di quest’ultima (vd. Cass. 22978/2016), per cui difetta il presupposto richiesto dal D.L. 3 febbraio 1970, n. 7, art. 1, n. 2 (convertito nella L. 1 marzo 1970, n. 83), sul collocamento e accertamento dei lavoratori agricoli, che considera tali i lavoratori da impiegare alle dipendenze della impresa anche non agricola, laddove gli stessi lavoratori siano da impiegare in attività di raccolta di prodotti agricoli;

in definitiva, il ricorso va rigettato;

le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 8000,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.Lgs. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2020

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