Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22222 del 03/11/2016


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Cassazione civile sez. trib., 03/11/2016, (ud. 12/10/2016, dep. 03/11/2016), n.22222

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCININNI Carlo – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 23592/2012 proposto da:

VEMEC SRL, in persona del Presidente del C.d.A. e legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA

G.B. VICO 1, presso lo studio dell’avvocato LORENZO PROSPERI

MANGILI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANGELO

MAINETTI giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

MINISTERO ECONOMIA e FINANZE;

– intimato –

avverso la sentenza n. 87/2011 della COMM. TRIB. REG. di MILANO,

depositata l’11/10/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/10/2016 dal Consigliere Dott. RAFFAELE SABATO;

udito per il ricorrente l’Avvocato PROSPERI MANGILI che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato CASELLI che ha chiesto il

rigetto;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

DEL CORE Sergio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTO E DIRITTO

1. – Preliminarmente si dà atto che è stata autorizzata la redazione della sentenza in forma semplificata ai sensi del decreto del primo presidente del 14 settembre 2016.

2. – La guardia di finanza ha proceduto a verifica presso C.G. quale rappresentante della Crosby and Chambers Italia s.r.l., conclusasi con processo verbale di constatazione da cui è emerso che la stessa avrebbe emesso per gli anni di imposta 2003 e 2004 fatture per operazioni inesistenti nei confronti della Vemec s.r.l.. A ciò ha fatto seguito da parte dell’Agenzia delle entrate avviso di accertamento di maggiori IRPEG, IRAP e IVA nei confronti della società per l’anno di imposta 2003. La commissione tributaria provinciale di Bergamo ha accolto il ricorso della contribuente, ritenendo che le presunzioni sulla cui base era stata ritenuta la natura fittizia delle operazioni fossero state superate dalle indagini penali che avevano accertato l’esistenza della forniture provenienti dall'(OMISSIS), poi fatturate secondo le indicazioni di C.G.. La sentenza, appellata dall’ufficio, è stata riformata dalla commissione tributaria regionale della Lombardia in Milano, che ha ritenuto: – che il mancato rispetto del termine di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, non determinasse l’illegittimità dell’atto; – che non ostava alle ragioni dedotte dall’ufficio l’accertamento penale su cui si erano affidati i primi giudici; – nonchè che i molteplici elementi tra cui la mancanza di struttura organizzativa e le modalità di gestione dei pagamenti, mediante girate di assegni in restituzione, dimostravano la falsità soggettiva delle fatture, emesse da mero intermediario soggetto diverso dal fornitore, con la consapevolezza della frode da parte della Vemec s.r.l. Avverso questa decisione la contribuente propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, rispetto al quale l’agenzia resiste con controricorso.

3. – Il ricorso è anzitutto inammissibile, come rilevato dal P.G. all’udienza di discussione, in quanto proposto nei confronti del Ministero dell’Economia e della Finanze, non parte dei precedenti gradi di giudizio e estraneo alle questioni dedotte in causa. Esso va dunque esaminato in quanto proposto nei confronti dell’Agenzia delle entrate.

4. – La parte contribuente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, in combinazione con altre norme anche processuali, nonchè omessa, contraddittoria e illogica motivazione (primo motivo). Sostiene, quanto alla violazione di legge, che erroneamente la sentenza di merito ha ritenuto che la mancanza di rispetto del termine dilatorio di 60 gg. previsto da detta norma non produca nullità dell’atto impositivo, nonchè, quanto al vizio di motivazione, che comunque neanche in sede giudiziaria sarebbe stata fornita spiegazione circa l’urgenza in deroga del termine. Il motivo è inammissibile. Invero esso non è autosufficiente, meramente indicando la ricorrente di aver impugnato l’atto impositivo per violazione del termine dilatorio predetto rispetto alla data del processo verbale, ma senza fornire in dettaglio le modalità con cui la questione era stata sollevata in primo grado (cfr. ad es. sez. un. n. 18210 del 2010), ciò che appare assai rilevante nel caso di specie. Invero, benchè – nelle more del procedimento effettivamente le sez. un. di questa corte siano pervenute (con sentenza n. 18184 del 2013) all’affermazione, di segno dissonante rispetto alla decisione impugnata, secondo cui la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, deve essere interpretato nel senso che l’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento – termine decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni determina di per sè, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, la illegittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus, e che il vizio invalidante non consiste nella mera omessa enunciazione nell’atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l’emissione anticipata, bensì nell’effettiva assenza di detto requisito, la ricorrente ha omesso di riportare nel ricorso le necessarie indicazioni relative alla data di consegna (indicata in controricorso nel 28 luglio 2008) del processo verbale e quella di notifica dell’avviso (indicata in controricorso nel 22 ottobre 2008), così impedendo alla corte di verificare il substrato fattuale cui riferire la questione giuridica, anche alla luce dell’eccezione sollevata dalla controricorrente secondo cui il termine sarebbe stato rispettato (e sarebbe ritenuto non rispettato dalla ricorrente in quanto la stessa ritiene di dover ad esso sommare la sospensione feriale di cui alla L. n. 742 del 1969, riferibile, secondo l’ufficio, ai soli termini processuali). Quanto, poi, alla censura di vizio motivazionale, di essa – in quanto vizio riferito alla sentenza – non vi è cenno argomentativo alcuno nel motivo, ciò cui pure consegue inammissibilità (essendo in esso trattazione dei presunti vizi motivazionali dell’accertamento).

5. – Si denuncia poi violazione e falsa applicazione di legge, e in particolare degli artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 2697 e 2729 c.c. e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, sostenendo erroneo governo da parte della sentenza impugnata dei criteri in tema di valutazione della prova, essendosi valorizzati i soli elementi a favore dell’ufficio (secondo motivo). Anche tale motivo è inammissibile, da un duplice punto di vista. Anzitutto, il motivo è permeato da una rivisitazione del materiale probatorio, che il giudice del merito risulta aver effettuato, anche richiamando pronuncia di questa corte in merito alla non vincolatività delle risultanze processuali penali a fini tributari nel caso di specie. Si richiede, dunque, un riesame di merito inesigibile in cassazione, sotto le spoglie di presunti vizi di erroneo governo dei criteri in materia di valutazione della prova. Dall’altro angolo visuale, atteso che la parte contribuente solleva doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., va data continuità alla giurisprudenza (cfr. ad es. sez. 3, n. 15107 del 2013 e 19064 del 2004) per cui tale violazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (come qui invocata) è configurabile soltanto nell’ipotesi in il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma (ciò che non è nel caso di specie secondo il testo della sentenza impugnata), mentre integra motivo di ricorso per cassazione ai sensi del n. 5 del medesimo art. 360 (censura non qui proposta) la valutazione della prova (attività regolata, invece, dagli artt. 115 e 116 c.p.c.).

6. – Si denuncia ulteriormente violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in rapporto all’art. 654 c.p.p., sostenendosi che erroneamente la commissione regionale si sarebbe distaccata dal giudicato penale assolutorio, che aveva accertato anche l’esistenza delle operazioni (terzo motivo). Il motivo, oltre che inammissibile per ragioni simili a quelle anzidette, trattandosi di denuncia più propriamente ricadente nell’ambito del parametro del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., comma 1, si presenta anche inammissibile per mancanza di pertinenza con la decisione impugnata che, lungi dal violare l’art. 654 c.p.p., ha richiamato precedente di questa sezione, cui anche in questa sede va data continuità, ove si è chiarita l’indipendenza del procedimento probatorio tributario (ove valgono presunzioni legali e limitazioni delta prova che non si applicano nel processo penale), sì che i fatti ritenuti in quella sede ben possono essere posti dai giudice tributario a base della sua decisione, ma previa autonoma valutazione di esistenza e di rilevanza alla stregua dei diversi principi che presiedono all’accertamento tributario, ed essendo ben possibile che all’assoluzione in sede penale si accompagni la responsabilità in sede tributaria. Il difetto di pertinenza del motivo rispetto alla sentenza impugnata concerne anche il profilo dell’accertamento dell’oggettiva esistenza delle operazioni, posto che nel caso di specie la sentenza afferma la loro soggettiva inesistenza per non avere avuto come controparte la Crosby & Chambers Italia s.r.l..

7. – Sì denuncia infine omessa, contraddittoria e illogica motivazione della sentenza impugnata, in quanto partendo dalla premessa del principio dell’impossibilità di valorizzare le prove acquisite nel processo penale la sentenza impugnata avrebbe ritenuto non offerte prove a sostegno delle ragioni del contribuente (quarto motivo). Il motivo è inammissibile, per difetto di pertinenza rispetto alla decisione impugnata. In essa, infatti, lungi dall’affermarsi la non utilizzabilità di quanto acquisito nel processo penale, se ne afferma la mera non vincolatività, fornendosi elementi che evidenziano un ragionamento probatorio privo dei vizi denunciati. Resta assorbita ogni altra considerazione nel medesimo senso dell’inammissibilità del motivo (come, ad es., in ordine alla circostanza – p. 14 del ricorso – che come fatto su cui la motivazione sarebbe viziata viene individuato un “capo” della stessa “decisione” che “ha preso in considerazione… solo alcuni argomenti a scapito di altri”, ciò che – giusta la giurisprudenza di questa corte – non integra il requisito del “fatto controverso e decisivo” di cui alla nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo ratione temporis applicabile al procedimento, da intendersi come un preciso accadimento in senso storico e non come questioni o argomentazioni – v. ad es. sez. 5 n. 21152 del 2014).

8. – Dichiarandosi inammissibile il ricorso per inammissibilità dei motivi, le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.

PQM

La corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la parte ricorrente alla rifusione a favore della controricorrente delle spese processuali del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.650 per compensi, oltre eventuali spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Quinta Civile, il 12 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 3 novembre 2016

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