Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22213 del 12/09/2018

Cassazione civile sez. I, 12/09/2018, (ud. 26/06/2018, dep. 12/09/2018), n.22213

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16037/2013 proposto da:

Finanziaria TI.FI.TESS S.r.l. in Liquidazione, in persona del

liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via

Marianna Dionigi n. 17, presso lo studio dell’avvocato Santucci

Roberto, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati Laghi

Aldo, Mattarollo Lucia, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

M.I., in proprio e quale erede di D.C.P., nonchè quale

procuratrice speciale di D.C.F., in proprio e quale erede

e legatario di D.C.P.; D.C.M., quale erede e legatario

di D.C.P.; tutti elettivamente domiciliati in Roma, Via dei

Tre Orologi n. 10/E, presso lo studio dell’avvocato Ranieri Massimo,

che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato Pavan Giuliano,

giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrenti –

nonchè

D.C.A.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 2692/2012 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 19/12/2012;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

26/06/2018 dal Cons. Dott. TRICOMI LAURA.

Fatto

RITENUTO

che:

La Corte di appello di Venezia, pronunciando sull’impugnazione proposta da M.I., D.C.F. e D.C.M., in proprio e in qualità di eredi di D.C.P., avverso il lodo reso da Collegio arbitrale in data 16/04/2007, nella controversia instaurata con domanda di arbitrato depositata il 10/05/2006 nei confronti di Finanziaria Ti.fi.Tess. SRL in liquidazione, nella contumacia di D.C.A., ha dichiarato la nullità del lodo ai sensi dell’art. 829 c.p.c., comma 1, n. 10.

Con la decisione impugnata gli arbitri – in controversia concernente il recesso esercitato da D.C.P., M.I. e D.C.F. a vario titolo dalla società in data 13/04/2005 e in data 04/05/2005, dopo aver preso atto che l’assemblea straordinaria della società del 21/02/2007 aveva deliberato lo scioglimento della società ponendola in liquidazione – avevano dichiarato la cessazione della materia del contendere ai sensi dell’art. 2473 c.c., u.c., sulla considerazione che la messa in liquidazione della società aveva determinato la perdita di efficacia del recesso e, conseguentemente, l’inammissibilità della domanda.

Il lodo veniva impugnato per nullità ex art. 829 c.p.c., comma 1, n. 10, per non avere gli arbitri deciso nel merito, pur dovendo il merito della controversia essere deciso dagli stessi.

La Corte di appello, nell’accogliere l’impugnazione,

preliminarmente ha affermato l’erroneità della pronuncia di “cessazione della materia del contendere”, vista la permanenza del contrasto tra le parti circa la portata della messa in liquidazione della società quale vicenda idonea a far venir meno l’interesse delle parti ad una pronuncia arbitrale.

Quindi ha ritenuto che il Collegio arbitrale avesse definito il processo con una pronuncia in rito senza che ricorresse un effettivo impedimento processuale: in proposito, sottolineando i contrasti interpretativi in merito all’applicazione degli artt. 2473,2437 bis e 2473 c.c., alla fattispecie in esame ed alla disciplina dei termini ivi prevista, ha affermato che il Collegio arbitrale non avrebbe dovuto limitarsi a definir il processo in rito, ma avrebbe dovuto esaminare il merito delle pretese, accertando le conseguenze della messa in liquidazione della società sulle domande concernenti la legittimità del recesso e l’accertamento del valore della quota sociale.

La società ricorre per cassazione con tre motivi, corredati da memoria.

M.I., D.C.F. e D.C.M. nella qualità hanno replicato con controricorso e memoria; è rimasto intimato D.C.A..

M.I., D.C.F. e D.C.M. con la memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 1, hanno eccepito l’inammissibilità/improcedibilità del ricorso, per un fatto nuovo formatosi successivamente all’avvio del giudizio di legittimità, consistito nella pronuncia di un nuovo lodo tra le stesse parti per le stesse identiche domande, in data 27/01/2015, divenuto definitivo in data 27/01/2016 ai sensi dell’art. 828 c.p.c., invocando il giudicato ex artt. 824 bis e 828 c.p.c..

Il ricorso è stato, quindi, fissato per l’adunanza in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c. e art. 380 bis c.p.c., comma 1.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1.1. Preliminarmente va affermato che la produzione del recente lodo, a cui hanno provveduto i controricorrenti con la memoria, è priva di ricadute, atteso che non vi è alcuna attestazione di definitività dello stesso.

2.1. Con il primo motivo si denuncia la violazione dell’art. 829 c.p.c., comma 1, n. 10 e la violazione dell’art. 829 c.p.c., comma 3.

La ricorrente sostiene che il collegio arbitrale aveva pronunciato la cessazione della materia del contendere quale effetto dell’applicazione dell’art. 2473 c.c., u.c., cui era conseguita l’inefficacia del recesso esercitato dai soci come effetto tipizzato e che, quindi, l’eventuale error in iudicando, commesso dagli arbitri, così dovendosi intendere la pronuncia di merito e non di rito, non avrebbe potuto essere sindacato dalla Corte di appello. All’uopo sollecita la lettura del dispositivo alla luce della motivazione resa dagli arbitri.

2.2. Con il secondo motivo si denuncia un error in procedendo.

Si sottolinea che gli errori commessi dagli arbitri – ove ravvisabili – integrerebbero un errore di diritto in iudicando circa l’applicazione dell’art. 2473 c.c., come tale non sindacabile dal giudice dell’impugnazione, salvo che nelle ipotesi previste dall’art. 829 c.p.c., comma 3 (nuovo testo) nel caso di specie non ricorrenti, perchè la impugnabilità non era stata prevista dalla clausola compromissoria, e non era prevista per legge. Ne deduce che la Corte di appello avrebbe dovuto dichiarare la censura inammissibile.

2.3. Con il terzo motivo si denuncia la violazione delle regole ermeneutiche sull’interpretazione delle pronunce giudiziarie, la violazione degli artt. 823 e 132 c.p.c..

Secondo la ricorrente, ove la Corte territoriale avesse fondato la sua pronuncia esclusivamente sul dispositivo del lodo, avrebbe violato le disposizioni ermeneutiche richiamate mancando di valutare la motivazione che aveva fatto conseguire la cessazione della materia del contendere alla riconduzione della fattispecie concreta all’art. 2473 c.p.c., u.c..

Afferma, quindi, la non configurabilità del vizio di cui all’art. 829 c.p.c., comma 1, n. 10 e la applicabilità della causa di nullità ex art. 829 c.p.c., comma 3.

3.1. E’ opportuno ricordare che l’art. 829 c.p.c., comma 1, n. 10, applicato nel caso, prevede “L’impugnazione per nullità è ammessa, nonostante qualunque preventiva rinuncia, nei casi seguenti:…. 10) se il lodo conclude il procedimento senza decidere il merito della controversia e il merito della controversia doveva essere deciso dagli arbitri”.

Va altresì rimarcato che i controricorrenti insistono nel sostenere di non avere proposto alcuna domanda di nullità ex art. 829 c.p.c., comma 3.

4.1. Passando all’esame dei motivi, va considerato che possono essere trattati congiuntamente e vanno respinti poichè tutti presuppongono, erroneamente, che la pronuncia arbitrale sia da intendersi come pronuncia di merito, con conseguente inapplicabilità della causa di nullità ex art. 829 c.p.c., comma 1, n. 10, contrariamente a quanto avvedutamente ritenuto dalla Corte di appello.

4.2. In disparte dai profili di carenza di autosufficienza del ricorso, atteso che il lodo è trascritto parzialmente e solo per le parti intese a valorizzare l’assunto della ricorrente, si deve osservare che la pronuncia arbitrale, pur utilizzando in modo erroneo la pronuncia di cessata materia del contendere di carattere pretorio – così come sostiene la ricorrente e come affermato dalla stessa Corte di appello – poichè non presuppone nè illustra il venir meno di una situazione di contrasto tra le parti, è tuttavia una pronuncia in rito.

4.3. Come riferito dalla ricorrente (fol. 3 del ricorso) la clausola compromissoria prevedeva all’art. 25 dello Statuto sociale “Ai sensi del D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, artt. 34 e segg., sono devolute alla decisione di un Collegio Arbitrale tutte le controversie aventi ad oggetto diritti disponibili relativi al contratto sociale ed, in particolare, quelle insorgenti tra i soci, tra i soci e la società, nonchè quelle promosse da e nei confronti di amministratori, liquidatori e sindaci, comunque relative al rapporto sociale…”

Sempre come riferito dalla ricorrente, i soci receduti avevano attivato la clausola arbitrale al fine di vedere accertata la legittimità del recesso dagli stessi esercitato ed ottenere la liquidazione delle quote di rispettiva spettanza, con conseguente condanna della società.

Come si evince dalla decisione della Corte territoriale, nel corso dell’arbitrato era stata disposta una consulenza per determinare il valore delle quote, ma nelle more era sopravvenuta la delibera dell’assemblea straordinaria della società in data 21/02/2007 che aveva sciolto la società ponendola in liquidazione (fol. 4 della sent. imp.): proprio a seguito di ciò il Collegio arbitrale, prendendone atto, aveva dichiarato cessata la materia del contendere.

4.4. Poste queste indiscusse circostanze, la ricorrente sostiene che la pronuncia arbitrale non era in rito, in quanto doveva essere intesa come riconoscimento nel merito dell’inefficacia del recesso per essersi integrati i presupposti di applicazione dell’art. 2473 c.c., u.c., che comportavano per volontà del legislatore l’inefficacia del recesso (fol. 15/17): tale conclusione tuttavia non è condivisibile.

4.5. La Corte di appello correttamente ha ritenuto la pronuncia arbitrale come statuizione di “impossibilità per il collegio di pronunciare sul merito della domanda” (fol. 7) per la perdita di efficacia del recesso.

La pronuncia – sia pure inesattamente formulata – di cessazione della materia del contendere appare, in effetti, proprio come una pronuncia in rito, in particolare come una declinatoria di difetto di potestas decidendi o iudicandi in conseguenza di un fatto sopravvenuto (la messa in liquidazione della società) al quale la stessa disposizione codicistica ricollega lo specifico effetto (l’inefficacia del recesso dei soci), che avrebbe fatto venir meno per gli arbitri il presupposto di fatto (il recesso) della controversia arbitrale.

Tale conclusione è avvalorata dal fatto che gli arbitri, pur non avendo trascurato l’esistenza di profili interpretativi controversi dell’art. 2473 c.c., u.c., di cui hanno dato conto, non sono entrati nel merito e si sono limitati a registrare l’effetto della delibera sulla questione sottoposta al loro giudizio, salvo a valutare il merito solo al fine della quantificazione delle spese.

Questo modus operandi viene stigmatitizzato dalla Corte di appello laddove afferma che gli arbitri avrebbero, invece, dovuto entrare nel merito dell’applicazione dell’art. 2473, u.c. (fol. 8 della sent.), essendo questo l’accertamento incidenter tantum, che si presenta come preliminare ad una pronuncia di declaratoria di difetto di potestas decidendi perchè, per il mutamento della situazione di fatto sottostante alle domande formulate agli arbitri, la questione di pone al di là dei limiti fissati dal patto compromissorio.

Invero non si può escludere che, qualora il recesso (fatto presupposto) fosse stato ritenuto ancora efficace, tutte le domande proposte avrebbero dovuto essere esaminate (legittimità recesso, quantificazione quota e condanna).

In effetti altro è discutere dell’efficacia del recesso, altro della legittimità o meno di un recesso (che sia stato comunque ritenuto efficace, pur in presenza di una delibera di scioglimento e messa in liquidazione della società), di guisa che gli arbitri avrebbero dovuto valutare innanzi tutto se ricorreva in concreto l’inefficacia del recesso e, solo ove la avessero ravvisata, avrebbero potuto dichiarare il difetto di potestas iudicandi.

4.6. Non può peraltro condividersi l’assunto della ricorrente, secondo il quale l’art. 2473 c.c., u.c., integrerebbe una ipotesi legislativamente tipizzata di cessazione della materia del contendere, posto che l’applicazione di tale disposizione non fa affatto venir meno le eventuali ragioni di contrato tra soci e società, ma le assoggetta ad un regime giuridico diverso, inserendo la liquidazione delle quote nella più articolata procedura di liquidazione societaria.

4.7. Ne consegue che correttamente la Corte di appello ha applicato l’art. 829 c.p.c., comma 1, n. 10 e dichiarato la nullità del lodo e, pertanto, tutti i motivi di ricorso vanno respinti.

5. In conclusione il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo a favore delle parti controricorrenti costituite.

Si dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

– Rigetta il ricorso;

– Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che liquida nel compenso di Euro 6.000,00, oltre esborsi per Euro 200,00, spese generali liquidate forfettariamente nella misura del 15% ed accessori, a favore delle controparti costituite;

– Dà atto, ai sensi D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 26 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 12 settembre 2018

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