Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22202 del 12/09/2018

Cassazione civile sez. I, 12/09/2018, (ud. 07/02/2018, dep. 12/09/2018), n.22202

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TIRELLI Francesco – Presidente –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. CIRESE Marina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 24144/2013 R.G. proposto da:

T. COSTRUZIONI S.N.C. DI T.P. E R., in persona del

legale rappresentante p.t. T.P., rappresentata e difesa

dall’Avv. Lelio Gurrera, con domicilio in Roma, piazza Cavour,

presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI PALERMO, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e

difeso dall’Avv. S.R. dell’Avvocatura municipale, con

domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della

Corte di cassazione;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Palermo n. 1125/12

depositata il 20 luglio 2012;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 7 febbraio

2018 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza del 1 settembre 2006, il Tribunale di Palermo, in accoglimento dell’opposizione proposta dal Comune di Palermo, revocò il decreto ingiuntivo emesso il 22 ottobre 2004, con cui, su ricorso di T.D., in qualità di titolare dell’omonima impresa, aveva intimato all’opponente il pagamento della somma di Euro 61.937,64, a titolo di corrispettivo per la rimozione di materiali di risulta e l’eliminazione di discariche abusive, disposta in esecuzione di un contratto di appalto stipulato il 10 luglio 1998.

2. L’impugnazione proposta dalla T. Costruzioni S.n.c. di T.P. e R., in qualità di avente causa dell’impresa attrice, è stata rigettata dalla Corte d’Appello di Palermo con sentenza del 20 luglio 2012.

A fondamento della decisione, la Corte ha confermato che i lavori non erano riconducibili al contratto stipulato tra le parti, escludendo che lo stesso fosse configurabile come un appalto aperto. Premesso infatti che a tal fine è necessario che la determinazione del compenso spettante all’appaltatore possa aver luogo soltanto ex post, in relazione alla qualità ed alla quantità degli interventi richiesti ed effettivamente compiuti ed in applicazione di parametri economici la cui individuazione è rimessa al committente, che vi provvede nell’osservanza di criteri prestabiliti con atto amministrativo unilaterale di natura negoziale, ha rilevato che nella specie il contratto aveva invece un oggetto ben determinato, costituito dall’esecuzione di tutte le opere e le forniture necessarie per i lavori di allontanamento dei materiali di risulta e l’eliminazione delle discariche abusive, secondo il progetto elaborato nel mese di dicembre 1997 dal Servizio 4^ dell’Ufficio del Centro Storico; precisato che era a quest’ultimo che occorreva fare riferimento, indipendentemente dalle indicazioni e dai disegni richiamati, la cui predisposizione costituiva una mera facoltà dell’Amministrazione, ha concluso che l’impresa non aveva alcun obbligo di dar corso alle disposizioni illegittimamente impartite dal Direttore dei lavori. Ha ritenuto irrilevante, in proposito, la circostanza che l’Amministrazione si fosse riservata la facoltà di ordinare ulteriori lavori, nell’ambito della disponibilità conseguente all’offerta in ribasso formulata dall’impresa aggiudicataria, osservando che il relativo impegno risultava privo della copertura finanziaria prescritta dal D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 19 in quanto alla data di emissione degli ordini di servizio la stessa era stata parzialmente cancellata dal bilancio, con provvedimento del 5 giugno 2001. Ha confermato la legittimità di tale cancellazione, affermando che il relativo ammontare, pari al ribasso offerto dall’impresa sul corrispettivo dell’appalto, ben poteva essere destinato alla copertura di altri impegni finanziari del Comune, in quanto l’esercizio della facoltà di ordinare ulteriori lavori aveva carattere meramente eventuale. Ha aggiunto che, in quanto consapevole della mancanza di copertura finanziaria, l’impresa avrebbe potuto legittimamente rifiutare l’esecuzione dei lavori, senza incorrere in alcuna responsabilità, osservando comunque che essa avrebbe potuto far valere le proprie pretese nei confronti del Direttore dei lavori o del funzionario che aveva ordinato i lavori in questione, o esercitare l’azione d’ingiustificato arricchimento nei confronti del Comune.

3. Avverso la predetta sentenza la T. Costruzioni ha proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, illustrati anche con memoria. Il Comune ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente, va disattesa l’eccezione d’inammissibilità dell’impugnazione sollevata dalla difesa del Comune, secondo cui la T. Costruzioni, pur avendo allegato nel ricorso di essere succeduta all’impresa T. con atto del 20 dicembre 2012, non ha fornito elementi sufficienti a sostegno della propria legittimazione, essendosi limitata a produrre il documento attestante la predetta legittimazione, senza indicare il titolo in base al quale ha avuto luogo la successione.

La mera allegazione del titolo da cui deriva la successione nel diritto controverso deve ritenersi infatti sufficiente ai fini della legittimazione del successore ad impugnare la sentenza resa nei confronti del proprio dante causa, non occorrendo che nel ricorso sia specificamente indicata anche la vicenda che ha determinato la successione, ove, come nella specie, si tratti di un atto pubblico, il cui contenuto, agevolmente accertabile attraverso l’esame del documento prodotto, sia rimasto sostanzialmente incontestato o non idoneamente contestato dalla controparte (cfr. Cass., Sez. 3, 11/04/2017, n. 9250; Cass., Sez. 1, 17/07/2013, n. 17470).

2. Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, sostenendo che, nell’escludere la configurabilità del contratto come appalto aperto, la sentenza impugnata non ha tenuto conto del tenore letterale delle espressioni adoperate dalle parti, che demandavano agli ordini di servizio del direttore dei lavori l’individuazione degl’interventi da eseguire di volta in volta, secondo le necessità dell’Amministrazione. Evidenzia al riguardo a) l’indicazione dell’oggetto e b) dell’importo dell’appalto, recanti l’espressa precisazione che si trattava di contratto aperto, c) l’imposizione a carico dell’impresa dell’obbligo di avviare i lavori entro ventiquattro ore dalla ricezione degli ordini di servizio del direttore dei lavori, d) la mancata previsione di un termine per l’esecuzione, la cui determinazione era rimessa agli stessi ordini di servizio, e) l’imposizione a carico dell’impresa dell’obbligo di informare la direzione dei lavori dell’ultimazione delle opere. Aggiunge che la predetta qualificazione è logicamente incompatibile con la mancanza di un programma dei lavori, la cui predisposizione era prevista come mera eventualità, e con l’assenza di progetti e disegni, nonchè con l’attribuzione all’Amministrazione della facoltà d’individuare successivamente lavori aggiuntivi.

2.1. Il motivo è infondato.

Ai fini della ricostruzione della comune intenzione delle parti, la sentenza impugnata ha fatto riferimento proprio al tenore letterale delle espressioni usate dai contraenti, evidenziando il contrasto tra l’espressa qualificazione della fattispecie come contratto aperto, risultante dall’art. 3 dell’atto scritto stipulato tra il Comune e l’impresa, e la precisa determinazione dello oggetto dell’appalto emergente dall’art. 1 del capitolato speciale, il quale, nel prevedere l’affidamento all’impresa delle opere e delle forniture necessarie per i lavori di allontanamento dei materiali di risulta ed eliminazione delle discariche abusive dalle pubbliche vie e dagli spazi aperti, non si limitava a fissare astrattamente i criteri per l’individuazione delle prestazioni dovute dall’impresa, rimettendone la concreta determinazione ad atti successivi dell’Amministrazione o agli ordini di servizio del direttore dei lavori, ma richiamava specificamente il progetto elaborato dall’ufficio tecnico competente, lasciando in tal modo trasparire chiaramente la volontà dei contraenti di fissare fin dall’origine il contenuto e la misura degli obblighi posti a carico dell’appaltatrice.

L’esistenza di un progetto prestabilito deve d’altronde considerarsi di per sè sufficiente ad escludere la possibilità di qualificare la fattispecie come contratto aperto, la cui caratteristica essenziale risiede proprio nel fatto che la prestazione viene pattuita con riferimento ad un determinato arco di tempo, per interventi non predeterminati nel numero ma solo nel genere, ed individuati di volta in volta in base alle necessità della stazione appaltante, con l’indicazione di un limite massimo della spesa occorrente, ma senza la preventiva fissazione del corrispettivo spettante all’appaltatore, il cui importo è destinato ad essere determinato solo ex post, in base ai criteri stabiliti nel contratto ed alle prestazioni concretamente richieste con atti unilaterali dell’Amministrazione (cfr. Cass., Sez. Un., 14/02/1994, n. 1442; v. anche Cons. Stato, Sez. 5, 14/09/2012, n. 4891; Cons. Stato, Sez. 3, 12/01/1993, n. 1790). Tale figura, non prevista dalle norme vigenti all’epoca della stipulazione del contratto in esame, ma ritenuta non incompatibile con i principi ed i criteri direttivi stabiliti dalla L. 11 febbraio 1994, n. 109, art. 3 è stata in seguito disciplinata, proprio con i predetti caratteri, dal D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554, art. 154 che ne introdusse il regolamento di attuazione, e confermata dal D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207, art. 105 con cui fu approvato il regolamento di esecuzione del D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, per essere poi soppressa dal D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, che abrogò il D.P.R. n. 207 cit. senza riprodurre le predette disposizioni.

In quanto connotata dagli anzidetti caratteri, individuati dalla dottrina e dalla giurisprudenza ancora prima di trovare consacrazione nella disciplina dei contratti pubblici, essa risulta inconciliabile non solo con la circostanza che nella specie il contratto non prevedesse alcun termine per l’esecuzione dei lavori, in mancanza del quale il rapporto si sarebbe potuto protrarre praticamente sine die, ma anche e soprattutto con la precisa quantificazione ab origine dell’importo complessivo dell’appalto, contenuta nell’art. 3 del contratto stipulato tra le parti, a fronte della quale non può ritenersi decisivo il riconoscimento della possibilità di utilizzare la maggior somma resasi disponibile per effetto del ribasso d’asta: si tratta infatti di una facoltà, corrispondente a quella successivamente introdotta dal secondo periodo del D.P.R. n. 554 del 1999, art. 154, comma 2, il cui esercizio da parte dell’Amministrazione, in presenza di un contratto d’importo predeterminato, non escludeva la necessità di procedere alla stipulazione di un nuovo contratto, o quanto meno di un atto di sottomissione, per l’affidamento di ulteriori lavori. Nessun rilievo possono invece assumere la previsione di un termine per l’avvio dei lavori e dell’obbligo d’informare la direzione dei lavori dell’ultimazione delle opere, trattandosi di disposizioni normalmente inserite anche negli ordinari contratti di appalto aventi un oggetto determinato. Parimenti irrilevante, infine, deve considerarsi la mancata predisposizione del programma dei lavori, prevista in via meramente eventuale dalle parti e coerentemente ritenuta ininfluente dalla sentenza impugnata, in virtù dell’espresso richiamo del contratto al progetto predisposto dall’ufficio tecnico.

3. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1367 c.c., affermando che, anche a voler escludere l’univocità delle clausole contrattuali, la sentenza impugnata avrebbe dovuto tener conto del comportamento successivo delle parti, quale criterio interpretativo sussidiario.

3.1. Il motivo è infondato.

Benvero, in tema d’interpretazione del contratto, il più recente orientamento di questa Corte, pur confermando che i criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 c.c. e ss. sono governati da un principio di gerarchia interna in forza del quale i canoni strettamente interpretativi prevalgono su quelli interpretativi-integrativi, tanto da escluderne la concreta operatività quando l’applicazione dei primi risulti da sola sufficiente a rendere palese la comune intenzione delle parti stipulanti, ha precisato che la necessità di procedere alla ricostruzione di quest’ultima senza limitarsi al senso letterale delle parole, ma avendo riguardo al comportamento complessivo dei contraenti, consente di ritenere che il dato testuale del contratto, pur rivestendo un rilievo centrale, non sia necessariamente decisivo ai fini della ricostruzione dell’accordo, giacchè il significato delle dichiarazioni negoziali non costituisce un prius, ma l’esito di un processo interpretativo che non può arrestarsi al tenore letterale delle parole, ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore (cfr. Cass., Sez. 1, 28/06/ 2017, n. 16181; Cass., Sez. 3, 15/07/2016, n. 14432; 10/05/2016, n. 9380). Il riferimento ad elementi extratestuali, quali il comportamento complessivo delle parti anche successivo alla conclusione del contratto, incontra tuttavia un limite allorchè, come nella specie, l’operazione ermeneutica abbia ad oggetto un contratto per la cui stipulazione è richiesta la forma scritta a pena di nullità, dovendosi in tal caso privilegiare, conformemente al valore attribuito dal legislatore alla veste della dichiarazione negoziale, la volontà emergente dalla stessa, così come consacrata nel documento contrattuale, con la conseguente esclusione della possibilità di valorizzare elementi desumibili aliunde (e nella specie peraltro neppure indicati), idonei ad evidenziare la formazione di un consenso al di fuori del testo scritto (cfr. Cass., Sez. 2, 7/06/2011, n. 12297; 22/06/2006, n. 14444; 5/02/2004, n. 2216).

4. Con il terzo motivo, l’Amministrazione lamenta la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 191e degli artt. 1337 e 1418 c.c., nonchè la contraddittorietà della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando la sentenza impugnata per aver escluso la sussistenza della copertura finanziaria, senza considerare che, alla data della stipulazione del contratto, l’importo stanziato risultava superiore a quello dei lavori originariamente commissionati, proprio in previsione dell’effettuazione di ulteriori spese. Premesso che i requisiti di validità del contratto debbono sussistere al momento della stipulazione, mentre eventi successivi possono determinare esclusivamente l’estinzione del rapporto, in virtù di principi diversi, sostiene che, nell’affermare la necessità della copertura finanziaria al momento del pagamento, la sentenza impugnata ha violato i principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto e di affidamento del terzo, il quale, in caso di trasferimento dei fondi ad altro capitolo di bilancio, rimarrebbe esposto all’eccezione di nullità, nonostante l’adempimento della propria prestazione.

4.1. Il motivo è infondato.

L’accertata predeterminazione dell’oggetto del contratto, che ha indotto la Corte distrettuale a negare la configurabilità dell’appalto come contratto aperto, impedendo di ricondurre allo stesso gli ulteriori lavori asseritamente eseguiti dalla ricorrente, per il cui affidamento sarebbe risultata necessaria la stipulazione di un altro contratto o di un atto di sottomissione, consente di ritenere giustificata l’esclusione della responsabilità dell’Amministrazione per l’omessa utilizzazione del ribasso d’asta, trattandosi di una mera facoltà, il cui mancato esercizio non avrebbe potuto in nessun caso essere qualificato come inadempimento della committente, non essendosi quest’ultima contrattualmente impegnata ad affidare ulteriori lavori all’appaltatrice. La mancata assunzione di qualsiasi obbligo in proposito fa apparire inconferenti le considerazioni svolte dalla ricorrente in ordine al momento cui occorre fare riferimento ai fini della verifica della copertura finanziaria, così come alla violazione dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto: correttamente, infatti, la sentenza impugnata ha ritenuto che, in quanto destinato alla copertura dell’impegno di spesa correlato ad un nuovo contratto, la cui stipulazione era stata prevista in via meramente eventuale, l’importo corrispondente al ribasso d’asta potesse essere legittimamente utilizzato per altre finalità, senza che ciò incidesse sulla validità di quello già stipulato.

5. Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1,comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 7 febbraio 2018.

Depositato in Cancelleria il 12 settembre 2018

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