Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22200 del 14/10/2020

Cassazione civile sez. I, 14/10/2020, (ud. 09/09/2020, dep. 14/10/2020), n.22200

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – rel. Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12697/2019 proposto da:

T.A., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la

Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso

dall’avvocato Novellini Paolo, giusta procura speciale allegata al

ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’interno;

– intimato –

avverso la sentenza n. 450/2019 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 13/03/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

09/09/2020 dal Consigliere Dott. Paola Vella.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di appello di Brescia ha respinto l’appello proposto dal cittadino (OMISSIS) T.A. avverso l’ordinanza con cui il Tribunale di Brescia aveva rigettato la sua domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, ovvero della protezione sussidiaria e, in subordine, di quella umanitaria.

1.1. Il ricorrente aveva narrato di essere nato in (OMISSIS), di aver sempre vissuto a (OMISSIS), di essere orfano di padre dal (OMISSIS), di aver scoperto la propria omosessualità a 12 anni, di essere stato perciò cacciato di casa a 16 anni, di essersi trasferito a (OMISSIS) (dove viveva la madre con il nuovo marito) quando nel (OMISSIS) era scoppiata la guerra tra le forze governative e i gruppi islamici, di essere tornato a (OMISSIS), dove era stato picchiato nel (OMISSIS) (mentre si trovava al mercato) da una banda di ragazzi islamici armati di bastoni e coltelli “che avevano preso di mira gli omosessuali con l’intento di eliminarli in quanto infedeli”, dai quali si era a stento liberato per rifuguiarsi in una moschea, dove era stato soccorso da una donna che lo aveva curato; si era quindi recato in Niger e poi in Libia, dove “veniva messo in prigione per due mesi” e, una volta liberato, aveva svolto per circa un anno il mestiere di sarto; si era infine imbarcato per l’Italia, dove era approdato il (OMISSIS).

1.2. La Corte territoriale ha ritenuto il racconto vago, contraddittorio e poco credibile ed ha negato sia lo status di rifugiato sia la protezione sussidiaria, anche sulla base dell’attuale situazione socio-politico-militare del Mali, ove il conflitto in atto riguarderebbe solo la zona settentrionale, in particolare la zona di Liptako-Gourma, alla frontiera con il Niger e il Burkina Faso, Paesi con i quali peraltro il Mali ha firmato un accordo a gennaio 2017 per la creazione di una forza multinazionale di lotta al terrorismo, senza che il rischio di attentati terroristici assuma livelli di frequenza e virulenza tali da giustificare la protezione invocata. Ha altresì negato la protezione umanitaria in quanto “gli elementi emersi nel corso del giudizio non offrono alcuna evidenza in ordine ad una peculiare situazione di vulnerabilità”, poichè “le criticità presenti nel Mali con riferimento al rispetto dei diritti fondamentali della persona non sembrano tali da dar luogo ad una vera e propria emergenza umanitaria generalizzata”.

2. Il ricorrente ha impugnato la sentenza con ricorso per cassazione affidato a tre motivi. Il Ministero intimato si è costituito solo ai fini dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione ex art. 370 c.p.c., comma 1, senza svolgere difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

3. Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 5 e 7, nonchè D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 27, comma 1-bis, lamentando che, a fronte delle aggressioni e minacce di morte dettagliatamente riferite dal ricorrente, costituenti indubbiamente danno grave ai sensi del. 7, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7, la Corte d’appello avrebbe dovuto acquisire officiosamente tutte le informazioni per accertare se le autorità del Mali fossero effettivamente in grado di offrirgli adeguata tutela, essendo egli esposto, in caso di rientro in Patria, “alle numane regole della Sharia, così come ampiamente e dettagliatamente illustrato in tutti gli atti del presente procedimento, fin dall’audizione innanzi alla Commissione Territoriale”.

3.1. Il secondo mezzo prospetta, testualmente, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 5, 6 e 7, nonchè del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 14, lett. c), sostenendo che la sentenza impugnata sarebbe viziata anche ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), “posto che nessun rilievo veniva attribuito alla reale situazione di violenza ed instabilità del paese d’Origine”, che secondo alcune pronunce di merito del 2018 esisterebbe anche a (OMISSIS), alla luce del rapporto di Amnesty International del 22 febbraio 2018 (che segnala la violazione di diritti umani soprattutto nella parte centrale e settentrionale del Mali) e del report COI dell’Easo del 12 marzo 2018 (che conferma in quelle zone la recrudescenza di scontri tra gruppi armati e la presenza di cellule islamiste radicali), tanto che la missione stabilizzatrice delle Nazioni Unite “che doveva concludersi il 30 giugno 2017 è stata protratta fino al 31 ottobre 2018 in tutto il Mali”.

3.2. Il terzo motivo prospetta la “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1990, art. 5, comma 6, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5”, poichè, ai fini della domanda di protezione umanitaria, la Corte d’appello avrebbe dovuto valutare la denuncia di persecuzione del ricorrente “in ragione della proclamata omosessualità”, tenendo conto che il D.P.R. n. 394 del 1999, art. 11, lett. c) e art. 28, lett. d), pongono a fondamento del permesso umanitario l’esistenza di fattori impeditivi al rimpatrio, nel caso di specie rinvenibili nella “sistematica e grave violazione dei diritti fondamentali e nell’assenza di qualsivoglia forma di efficace protezione da parte degli organi statuali”, cui andrebbe “aggiunto il clima di terrore dovuto ai continui attacchi terroristici ed alla guerra civile che imperversa da anni”. Viene poi allegata la precarietà dello stato di salute del ricorrente, positivo al virus dell’epatite B e quindi “destinato a morte certa in caso di rimpatrio”, poichè in Mali non esistono cure adeguate nè è garantita l’assistenza sanitaria gratuita per chi, come il ricorrente, sia “privo di qualsivoglia mezzo di sussistenza”.

4. Il ricorso merita accoglimento nei termini che si vanno a precisare.

5. Come è noto, la valutazione di affidabilità del dichiarante è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione, che deve essere svolta alla luce dei criteri specifici indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, oltre che dei criteri generali di ordine presuntivo idonei a consentire la valutazione giudiziale della veridicità delle dichiarazioni rese (Cass. 20580/2019). La norma suddetta impone infatti al giudice di sottoporre le dichiarazioni del richiedente, se non suffragate da prove, non solo a un controllo di coerenza – sia intrinseca (con riguardo al racconto) che estrinseca (con riguardo alle informazioni generali e specifiche di cui si dispone) – ma anche a una verifica di plausibilità della vicenda narrata a fondamento della domanda, con riguardo alla logicità e razionalità delle dichiarazioni (Cass. 21142/2019), al fine di stabilire se “dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile” (v. lett. e) dell’art. 3, comma 5, cit.), nonchè ad escludere, in ultima analisi, la strumentalità delle dichiarazioni.

5.1. Nel caso in esame, la Corte territoriale ha motivato il rigetto del motivo d’appello sulla specificità e precisione dei fatti riferiti senza rispettare i superiori canoni, definendo vaga e poco credibile la narrazione poichè “in Mali non è previsto il reato di omosessualità, ma solo il reato di pubblica indecenza”, con la conseguenza che sarebbe perciò anche contraddittorio “che il ricorrente abbia vissuto apertamente, in pubblico, la propria omosessualità (“amoreggiavamo per strada, ci baciavamò) se è vero, come dallo stesso dichiarato, che l’omosessualità è comunque malvista in Mali e che il pericolo maggiore è rappresentato dalla riprovazione sociale dell’omosessualità: “la gente ti picchia e potrebbe ucciderti””; non assume rilevanza decisiva nemmeno l’osservazione che l’appellante, “pur dichiarandosi musulmano, non sappia nulla del fatto che la sua religione vieti l’omosessualità”.

6. Inoltre, il giudice a quo non ha assolto compiutamente l’onere di cooperazione istruttoria officiosa.

6.1. Sul tema dei rapporti tra valutazione di credibilità soggettiva del richiedente asilo e dovere di cooperazione istruttoria del giudice, questa Corte ha più volte affermato che, laddove non sia in questione la cd. “personalizzazione del rischio” – come invece (in varia misura) per il rifugio politico e la protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b) – l’acquisizione di informazioni sulla effettiva situazione, concreta e attuale, del Paese di provenienza (cd. Country of Origin Information – C.O.I.) deve essere effettuata a prescindere dalla credibilità della narrazione del richiedente, e dunque anche nell’ipotesi di cui all’art. 14, lett. c), D.Lgs. cit., che a certe condizioni accorda la protezione sussidiaria per il solo fatto della provenienza da un territorio in cui sussiste una situazione di violenza indiscriminata, sempre che il ricorrente abbia assolto il proprio dovere di allegazione e il giudizio di non credibilità non investa il fatto stesso della provenienza dell’istante dall’area geografica interessata (ex multis, Cass. 14283/2019, 7985/2020, 8020/2020, 10286/2020).

6.1. E’ pur vero che esiste anche un corposo indirizzo, più restrittivo, per cui l’inattendibilità delle dichiarazioni del richiedente preclude sempre, anche nell’ipotesi di cui al citato art. 14, lett. c), gli approfondimenti istruttori officiosi ai fini della protezione internazionale, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (Cass. 16925/2018, 33096/2018, 28862/2018, 33858/2019, 4892/2019, 15794/2019, 17174/2019, 33858/2019, 8367/2020, 11924/2020);

ma al tempo stesso si registra, agli antipodi, un indirizzo minoritario per cui, salvo specifici casi eccezionali (notorio, palese falsità, mancata allegazione, rinuncia espressa), l’obbligo di cooperazione istruttoria dovrebbe essere sempre assolto in via preliminare dal giudice, poichè altrimenti la valutazione di credibilità – che attiene alla prova – diverrebbe condizione di ammissibilità o presupposto del riconoscimento del diritto o giudizio sulla lealtà processuale della parte (Cass. 8819/2020).

6.2. Nel caso di specie il Tribunale, oltre a non aver citato alcuna fonte qualificata sulla situazione socio-politico-militare del Mali sinteticamente descritta a pag. 8 della sentenza, non ha acquisito C.O.I. sul tema specifico dell’omosessualità, riducendo ad affermazioni alquanto generiche l’esame del fatto allegato, che avrebbe invece meritato un doveroso approfondimento, se non altro ai fini della valutazione della domanda residuale di protezione umanitaria.

6.3. La giurisprudenza di questa Corte è infatti pressochè unanime nel ritenere che, ai fini del riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari – astrattamente riconoscibile ratione temporis (Cass. Sez. U, 29459/2019) – il giudizio di non credibilità della narrazione sulla specifica situazione dedotta a sostegno della domanda di protezione internazionale non preclude la valutazione, da parte del giudice, delle diverse circostanze che rilevino ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria (ex multis, Cass. 10922/2019, 2960/2020, 2956/2020, 7985/2020, 8020/2020), in vista del riscontro dei dedotti “seri motivi” (non tipizzati) diretti a tutelare situazioni di vulnerabilità individuale (Cass. 23778/2019, 1040/2020). A ciò si aggiunga l’eventuale rilievo della patologia lamentata in questa sede e delle difficoltà di cura nel paese d’origine.

7. La sentenza impugnata merita perciò di essere cassata, con rinvio ad una diversa sezione della Corte d’appello di Brescia, ai fini di una valutazione della credibilità conforme ai canoni indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, nonchè per l’acquisizione di C.O.I. aggiornate sulle attuali condizioni del Mali, anche con riguardo al profilo specifico delle condizioni di vita dei soggetti omosessuali, che nel caso di specie possono assumere rilevanza non tanto ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, quanto in relazione alla protezione sussidiaria o, quantomeno, a quella umanitaria, unitamente alle condizioni di salute allegate in questa sede.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Brescia, in diversa composizione, anche per la statuizione sulle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2020

 

 

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