Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22188 del 03/11/2016


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Cassazione civile sez. trib., 03/11/2016, (ud. 23/06/2016, dep. 03/11/2016), n.22188

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13451-2011 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

G.G., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso la

cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’Avvocato MAURIZIO VILLANI con studio in LECCE VIALE CAVOUR 56

(avviso postale ex art. 135) giusta delega a margine;

– controricorrente –

e contro

T.F.;

– intimata –

avverso la decisione n. 384/2010 della COMM. TRIBUTARIA CENTRALE SEZ.

di BARI, depositata il 22/03/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/06/2016 dal Consigliere Dott. MARIA ENZA LA TORRE;

udito per il ricorrente l’Avvocato PALATIELLO che si riporta al

ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SORRENTINO FEDERICO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

L’Agenzia delle entrate notificava ai coniugi G.G. e T.F. avviso di accertamento per l’anno 1984 ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, determinando un maggior reddito d’impresa. Il ricorso dei contribuenti veniva accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Lecce con decisione che veniva confermata dalla Commissione tributaria di secondo grado di Lecce e poi dalla Commissione tributaria Centrale (sezione di Bari) con la sentenza n. 384/3/2010, dep. 22 marzo 2010, impugnata per cassazione dall’Agenzia delle entrate. In particolare la CTC ha ritenuto che l’Ufficio, nelle varie fasi del contenzioso, non abbia dimostrato la correttezza del procedimento di calcolo del maggior reddito accertato, mentre dalla perizia contabile depositata dai contribuenti risultava provato che “l’ammontare degli interessi passivi direttamente riferibili agli immobili in corso di costruzione siano stati ripartiti in aumento delle rimanenze finali in relazione ai vari immobili evidenziati nella perizia stessa”, concludendo con la conferma delle decisioni dei precedenti gradi di giudizio.

Resistono con controricorso gli intimati eccependo l’inammissibilità del ricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Col primo motivo del ricorso l’Agenzia delle entrate deduce violazione di legge (D.P.R. n. 636 del 1972, art. 26), per avere la CTC deciso mediante valutazione estimativa (sulla base di una perizia contabile di parte prodotta in primo grado dai contribuenti), con ciò agendo oltre i limiti della propria cognizione. Rileva che le doglianze proposte alla CTC dall’Agenzia delle entrate riguardavano il diverso profilo della carenza di motivazione su un punto decisivo della controversia, consistente nell’evidente sproporzione fra costi e ricavi d’esercizio, confermati da una contabilità inattendibile (come evincibile dal pvc della GGFF).

Il motivo è infondato, poichè in tema di contenzioso tributario, nella disciplina anteriore al D.Lgs. n. 546 del 1992, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, le questioni di fatto relative a valutazioni estimative che il D.P.R. n. 636 del 1972, art. 26 (a tenore del quale “il ricorso alla commissione tributaria centrale è proponibile soltanto per violazione di legge e per questioni di fatto, escluse quelle relative a valutazione estimativa e alla misura delle pene pecuniarie”), nel rispetto dei principi fissati con la Legge Delega n. 825 del 1971, art. 10, sottrae alla cognizione della Commissione Tributaria Centrale, sono esclusivamente quelle attinenti alla quantificazione del cespite, del reddito, della base imponibile, o alla individuazione dei presupposti materiali ed oggettivi del tributo, e non anche quelle che, come nella specie, investono le condizioni giuridiche per il riscontro di un reddito tassabile, o, in genere, l’ambito di applicazione di una determinata norma (v. Cass. n. 22506 del 04/11/2015; n. 8212 del 31/03/2008; Cass. n. 2688 del 1996 e n. 7801 del 1990).

2. Col secondo motivo si denunzia violazione dell’art. 112 c.p.c. e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 18, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, avendo l’Ufficio lamentato che la decisione di secondo grado risultava inficiata da lacune argomentative per non avere esaminato elementi decisivi al fine di giungere ad una conclusione diversa da quella assunta: elementi consistenti nella sproporzione fra costi e ricavi di esercizio; e per essere la CTC incorsa nel vizio di extrapetizione, pronunciandosi d’ufficio su eccezioni in senso tecnico non sollevate dalla parte (esiti della perizia contabile di parte), a fronte del diverso vizio dedotto (difetto di congruità della motivazione).

3. Anche questo motivo è infondato.

4. La Commissione centrale, mantenendosi nell’ambito di petitum e causa petendi, ha confermato le decisioni dei precedenti gradi di giudizio, basate “sulle risultanze della perizia contabile che è stata favorevolmente presa in considerazione dai giudici ai fini dell’accoglimento dei ricorsi”, osservando che l’Ufficio non aveva “mai dato dimostrazione del procedimento di calcolo che ha portato ad accertare un maggior reddito” e che i contribuenti avevano per contro dimostrato la sua inesistenza.

Non sussiste pertanto il vizio denunciato risultando peraltro la censura in esame inammissibile sotto il profilo del difetto di autosufficienza, in relazione ai riferimenti in essa contenuti a circostanze emergenti dagli atti di causa, senza la riproposizione degli atti dai quali dette risultanze risulterebbero, essendo del tutto insufficiente la sola riproduzione di uno dei motivi d’impugnazione alla sentenza di secondo grado (riportata nel ricorso). Per dedurre che la CTC ha omesso di esaminare e decidere su un motivo dedotto contro la sentenza della commissione di secondo grado, secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 11892 del 2016; cfr. S.U. n. 8053 del 07/04/2014), tale motivo, oltre ad essere identificato, doveva essere necessariamente relazionato alla motivazione della sentenza impugnata, concretandosi in una critica ad essa. In mancanza di ciò si rileva una assoluta genericità, che esclude che la doglianza sia stata indicata nel ricorso come oggetto su cui il giudice d’appello doveva pronunciare. Per acclararlo occorrerebbe la conoscenza, anche se riassuntiva, del contenuto della sentenza nella parte oggetto di critica. Tale mancata conoscenza risulta, poi, esiziale se si considera che l’onere di pronuncia della CTC si correlava a sua volta necessariamente al modo in cui i motivi di appello si rapportavano alla sentenza di primo grado (cfr. Cass. 11892/2016 cit.).

5. Col terzo motivo si deduce nullità della sentenza per mancanza di motivazione, ex D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2 e art. 132 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, contenendo una motivazione soltanto apparente.

6. Anche questo motivo va disatteso, poichè il vizio di motivazione che giustifica la cassazione della sentenza sussiste solo qualora il tessuto argomentativo di essa presenti lacune, incoerenze e incongruenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione impugnata: il che, nel caso di specie, è insussistente, restando invece escluso che la parte possa far valere il contrasto della ricostruzione con quella operata dal giudice di merito e l’attribuzione agli elementi valutati di un valore e di un significato difformi rispetto alle aspettative e deduzioni delle parti (cfr. Cass. n. 1754 del 26/01/2007; n. 10295 del 07/05/2007).

7. Conclusivamente il ricorso va rigettato.

8. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna l’Agenzia delle entrate al pagamento delle spese liquidate in Euro 8.500,00 oltre spese forfetarie nella misura del 15% e accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 3 novembre 2016

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