Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22183 del 03/08/2021

Cassazione civile sez. lav., 03/08/2021, (ud. 03/03/2021, dep. 03/08/2021), n.22183

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28435-2015 proposto da:

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore, in proprio e

quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A. – Società di

Cartolarizzazione dei Crediti I.N.P.S., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale

dell’Istituto, rappresentati e difesi dagli avvocati ANTONINO SGROI,

LELIO MARITATO, EMANUELE DE ROSE, CARLA D’ALOISIO;

– ricorrenti –

contro

ISTITUTO “LEONARDA VACCARI”, per LA RIEDUCAZIONE DEI FANCIULLI

MINORATI PSICO-FISICI, ENTE MORALE, in persona del legale

rappresentante pro tempore in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA F. DENZA 20, presso

lo studio dell’avvocato LAURA ROSA, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

nonché contro

EQUITALIA SUD S.P.A., concessionaria della riscossione per la

provincia di ROMA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1923/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 26/05/2015 R.G.N. 7253/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/03/2021 dal Consigliere Dott. LUIGI CAVALLARO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato ANTONINO SGROI;

udito l’Avvocato LUCIO GHIA, per delega verbale Avvocato ROSA LAURA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza depositata il 26.5.2015, la Corte d’appello di Roma, in riforma della pronuncia di primo grado, ha annullato la cartella esattoriale con cui l’INPS aveva richiesto all’Istituto “Leonarda Vaccari” somme per contributi omessi.

La Corte, in particolare, ha ritenuto che l’obbligazione contributiva si fosse estinta per intervenuta cessione all’INPS dei crediti che l’Istituto aveva nei confronti di talune aziende sanitarie locali, reputando che il termine di 90 giorni previsto dal D.L. n. 586 del 1987, art. 6, comma 26, (conv. con L. n. 48 del 1988), al fine di consentire alla pubblica amministrazione debitrice di comunicare se intendesse contestare il debito ceduto o riconoscerlo, valesse soltanto per consentire al debitore ceduto di contestarlo, restando il suo inutile decorso altrimenti irrilevante ai fini del perfezionarsi della cessione medesima.

Avverso tali statuizioni l’INPS ha proposto ricorso per cassazione, deducendo un motivo di censura. L’Istituto “Leonarda Vaccari” ha resistito con controricorso, evidenziando che, nelle more del giudizio di secondo grado, la Regione Lazio aveva provveduto al pagamento dei debiti per cui è causa, e in vista dell’udienza pubblica ha depositato memoria, con allegata documentazione, con cui ha sollevato questione di legittimità costituzionale, anche per violazione del diritto dell’Unione Europea, della normativa concernente la cessione dei crediti delle pubbliche amministrazioni, ove interpretata nel senso patrocinato dall’Istituto ricorrente.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con l’unico motivo di censura, l’Istituto ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.L. n. 688 del 1985, artt. 1, comma 9 (conv. con L. n. 11 del 1986), D.L. n. 536 del 1987, art. 6, comma 26, (conv. con L. n. 48 del 1988), L. n. 412 del 1991, art. 3, comma 1, e art. 4, comma 12, nonché, in connessione con essi, della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 9, lett. a), secondo periodo, artt. 2946 e 1230 c.c., per avere la Corte di merito ritenuto che il termine di novanta giorni, previsto D.L. n. 536 del 1987, ex art. 6, comma 26 cit., al fine di consentire all’amministrazione di comunicare se intenda contestare o riconoscere un debito vantato nei suoi confronti da un’impresa che ne abbia fatto oggetto di cessione ad un ente previdenziale, dovesse valere soltanto per il caso in cui l’amministrazione medesima intendesse contestare il debito medesimo, restando altrimenti irrilevante il suo decorso ai fini del perfezionamento della cessione.

Il motivo è fondato.

Questa Corte, in fattispecie analoghe, ha già avuto modo di chiarire che validità e l’efficacia della cessione, da parte dei datori di lavoro, dei crediti maturati nei confronti dello Stato, di altre pubbliche amministrazioni o di enti pubblici economici, al fine del pagamento dei contributi previdenziali, oltre all’osservanza di specifici requisiti formali (atto pubblico o scrittura privata autenticata, in base al R.D. n. 2440 del 1923, art. 69, sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato), presuppongono che il credito ceduto sia certo, liquido ed esigibile, che il cedente notifichi l’atto di cessione all’istituto previdenziale e all’amministrazione debitrice e che quest’ultima, entro 90 giorni dalla notifica, comunichi il riconoscimento della propria posizione debitoria, con la conseguenza che, ove risulti carente taluna delle indicate fasi o condizioni, non si verifica il perfezionamento della cessione e non può conseguirsi l’estinzione dell’obbligazione contributiva (così, tra le più recenti, Cass. nn. 2414 del 2012 e 17606 del 2020).

Ne’ può convenirsi con i giudici territoriali allorché, pur dando atto dell’anzidetto orientamento di legittimità, hanno ritenuto di discostarsene sul rilievo che la comunicazione di riconoscimento del debito non costituirebbe elemento di perfezionamento della fattispecie, “sia perché proveniente da un soggetto (il debitore ceduto) estraneo alle parti della cessione del credito (cedente e cessionario), sia perché la legge prevede pure la possibilità di contestazione da parte del debitore ceduto ed in tal caso (…) ciò non impedisce il perfezionamento della cessione, né il suo tipico effetto traslativo del credito, bensì impedisce solo l’effetto estintivo dell’obbligazione contributiva, restando il datore di lavoro coobbligato con il debitore pubblico” (così la sentenza impugnata, pag. 5): al contrario, dev’essere qui ribadito che facoltà dei datori di lavoro di provvedere al pagamento dei contributi previdenziali ed accessori mediante cessione di crediti maturati nei confronti dello Stato, di altre pubbliche amministrazioni o di enti pubblici economici, si esercita, alla stregua della richiamata normativa ed ai fini della piena efficacia della cessione, mediante una procedura che è disancorata – in ragione della particolarità della fattispecie ed in considerazione del rigore che assiste le operazioni contabili delle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici – dalle disposizioni del codice civile concernenti la cessione ordinaria dei crediti, com’e’ reso palese dalla necessità della comunicazione del debitore ceduto, affatto estranea alla disciplina di cui agli artt. 1260 c.c. e ss. (così Cass. n. 6711 del 1995).

Del resto, che sia inconferente il richiamo operato dai giudici territoriali alla disciplina generale della cessione del credito risulta evidente sol che si consideri che questa Corte ha già chiarito che la cessione in discorso realizza piuttosto una fattispecie di datio in solutum, avente struttura non contrattuale, in deroga allo schema generale previsto dall’art. 1198 c.c. (così Cass. nn. 9279 del 1995 e 8025 del 1996): trattandosi di un diritto potestativo accordato all’impresa che sia creditrice di una pubblica amministrazione, essa non solo non richiede l’accettazione del cessionario (in deroga alla necessaria contrattualità della cessione dei crediti), ma soprattutto ha effetto estintivo del debito dalla data della cessione medesima e non da quella della riscossione del credito da parte del cessionario (così Cass. n. 4102 del 1993).

Nemmeno può dirsi che il sopra ricostruito sistema sia sospettabile di illegittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 2,3,24,32,35 e 97 Cost., come paventato dall’odierna contro ricorrente nella memoria dep. ex art. 378 c.p.c.: prova ne sia che i profili di irragionevolezza evidenziati nella memoria ex art. 378 c.p.c., lungi dal riguardare la normativa in sé e per sé considerata, attengono piuttosto alla possibilità che le pubbliche amministrazioni debitrici se ne avvalgano per trarne vantaggi illeciti, ciò che però potrebbe se del caso rilevare sotto il profilo dell’abuso del diritto e non già dell’illegittimità costituzionale della norma che lo istituisce; mentre, con riguardo alla richiesta di rimessione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, parimenti prospettata in memoria, è sufficiente rilevare che la questione pregiudiziale d’interpretazione è formulata con riferimento all’art. 13 CEDU, che è norma manifestamente estranea ai Trattati Europei e sulla portata della quale nessuna competenza interpretativa può vantare la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (arg. ex art. 267 TFUE).

Il ricorso, pertanto, va accolto e, cassata la sentenza impugnata, la causa va rinviata alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 3 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2021

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