Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22174 del 22/09/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 22/09/2017, (ud. 07/06/2017, dep.22/09/2017),  n. 22174

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15650-2012 proposto da:

T.A.M., C.M., CA.MA., tutti

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CANTORE ANTONIO 17, presso lo

studio dell’avvocato MARINA ARMELISASSO, che li rappresenta e

difende, giusta delega in atti;

– ricorrenti –

contro

RETE FERROVIARIA ITALIANA S.P.A., P.I. (OMISSIS), in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA PO 25/B, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO PESSI, che

la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5092/2011 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 16/06/2011 R.G.N. 6201/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/06/2017 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PAGETTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato MARIO MICELI per delega verbale Avvocato ROBERTO

PESSI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di appello di Roma, pronunziando sull’impugnazione della società Rete Ferroviaria Italiana, in parziale riforma della decisione di primo grado, ha respinto la domanda proposta da T.A.M., C.M. e Ca.Ma., quali eredi di C.R., intesa al pagamento delle retribuzioni maturate in favore del dante causa dal 24 agosto 1998 al 16 febbraio 2000, e rideterminato in Euro 50.000,00 la somma attribuita in primo grado a titolo di danno biologico sofferto dal dante causa, deceduto per effetto di neoplasia polmonare da asbesto contratta nell’espletamento dell’attività di lavoro per esposizione ad amianto.

1.1. Il giudice di appello, per quel che ancora rileva, ha ritenuto che la documentazione in atti deponeva per la piena consapevolezza dell’azienda in merito alla nocività della lavorazione alla quale era addetto il C. ed affermato, sulla base del principio dell’equivalenza causale, la sussistenza del nesso tra la patologia che lo aveva condotto alla morte e le lavorazioni alle quali era stato adibito; in ordine al danno biologico, escluso che il relativo risarcimento potesse essere parametrato alla diaria giornaliera per l’inabilità temporanea totale, rilevata la inadeguatezza del parametro tabellare, ha ritenuto, in via equitativa, adeguato un ristoro pari a Euro 50.000,00; in ordine alle conseguenze della comunicazione datoriale di estinzione del rapporto di lavoro, esclusa la formazione del giudicato sul punto, qualificato l’atto come espressione della volontà di recesso datoriale, ha ritenuto che nulla era dovuto in assenza di impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore; ha evidenziato che ad analoghe conclusioni si sarebbe dovuti pervenire ove l’atto in questione fosse stato qualificato come mera comunicazione di estinzione di un rapporto in realtà valido ed efficace, frutto di errore della parte datoriale, non avendo il lavoratore formulato offerta alcuna della prestazione lavorativa.

2. Per la cassazione della decisione hanno proposto ricorso gli originari ricorrenti sulla base di quattro motivi:

3. La parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso, illustrato con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso, articolato in più profili, parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 329 c.p.c. nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Censura la decisione per avere ritenuto che, con l’atto di gravame, la società Rete Ferroviaria Italiana avesse investito anche la statuizione di prime cure con la quale era stata condannata al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del recesso datoriale, fino al decesso del lavoratore.

2. Con il secondo motivo, anch’esso articolato in più profili, deduce violazione e falsa applicazione del D.L. n. 10 settembre 1998, n. 324, art. 1 nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo. Censura la decisione per avere qualificato la comunicazione di Rete Ferroviaria Italiana s.p.a. quale licenziamento, con conseguente necessità di impugnazione dello stesso nel termine di sessanta giorni. Sostiene, infatti, che tale comunicazione andava qualificata come atto di collocamento a riposo d’ufficio del lavoratore per il pensionamento di vecchiaia di cui al D.L. 10 settembre 1998, n. 324, art. 1 collocamento a riposto intervenuto nonostante il lavoratore avesse manifestato la volontà di proseguire il rapporto di lavoro fino al compimento del settantesimo anno di età. In questa prospettiva deduce che la richiesta di proseguimento fino ai settanta anni configurava la messa a disposizione delle energie lavorative idonea a fondare il diritto alle retribuzioni.

3. Con il terzo motivo di ricorso deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2043,2056,1223 e 1226 c.c. nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo, censurando la decisione per avere determinato in Euro 50.000 la somma riconosciuta a titolo di risarcimento del danno biologico. In particolare, si duole della mancata considerazione della peculiarità del caso e della gravità e colpevolezza della condotta datoriale, evidenziando da un lato che la società aveva, come dedotto, omesso di sottoporre a visita il C. negli anni 1997 e 1998; deduce, inoltre, che il giudice d’appello aveva parzialmente disatteso il principio affermato da Cass. ss.uu. n. 26972/2008 la quale, nella liquidazione del danno non patrimoniale, aveva adottato il criterio equitativo puro, ossia svincolato da tabelle standardizzate e criteri automatici tenendo conto in particolare della estrema gravità ed afflittività della patologia diagnosticata.

4. Con il quarto motivo deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 111 Cost., comma 6 e dell’art. 132 c.p.c. nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo, censurando in sintesi, la decisione, per essersi discostata dal decisum di primo grado in ordine alla misura del risarcimento del danno e non avere dato rilievo a tutte le circostanze tenute presenti dal primo giudice nel pervenire alla relativa liquidazione.

5. Il primo motivo di ricorso è inammissibile. Il giudice di appello, richiamati il terzo ed il quarto motivo di gravame, con il quale Rete Ferroviaria Italiana s.p.a. aveva sostenuto l’applicabilità all’intimato licenziamento, della L. n. 449 del 1997, art. 59 e non della procedura prevista dalla L. n. 223 del 1991 e ribadito il difetto di impugnazione del recesso datoriale, ha ritenuto che tali specifiche censure escludevano la formazione del giudicato sulla statuizione di condanna alle retribuzione, restando irrilevante, alla luce della complessiva interpretazione dell’atto, la circostanza che nelle relative conclusioni, pur chiedendosi la riforma della decisione di primo grado si fosse fatto riferimento alla sola domanda di risarcimento del danno, ben potendo la volontà di sottoporre la cognizione dell’intera controversia alla cognizione del giudice dell’impugnazione risultare dall’esame complessivo dell’atto.

5.1. Questa Corte ha chiarito che nel caso in cui venga in contestazione l’interpretazione del contenuto o dell’ampiezza della domanda, tali attività integrano un tipico accertamento in fatto, insindacabile in cassazione salvo che sotto il profilo della correttezza della motivazione della decisione impugnata sul punto (v. tra le altre, Cass. n. 16596 del 2005, n. 12259 del 2002, n. 6066 del 2001, n. 3016 del 2001n. 9314 del 1997, n. 2113 del 1995) e che “L’interpretazione operata dal giudice di appello riguardo al contenuto e all’ampiezza della domanda giudiziale è assoggettabile al controllo di legittimità limitatamente alla valutazione della logicità e congruità della motivazione e, a tal riguardo, il sindacato della Corte di cassazione comporta l’identificazione della volontà della parte in relazione alle finalità dalla medesima perseguite, in un ambito in cui, in vista del predetto controllo, tale volontà si ricostruisce in base a criteri ermeneutici assimilabili a quelli propri del negozio, diversamente dall’interpretazione riferibile ad atti processuali provenienti dal giudice, ove la volontà dell’autore è irrilevante e l’unico criterio esegetico applicabile è quello della funzione obiettivamente assunta dall’atto giudiziale (Cass. n. 17947 del 2006). L’accertamento di fatto non è censurabile in sede di legittimità quando sia motivato in maniera congrua ed adeguata, avuto riguardo all’intero contesto dell’atto e senza che ne risulti alterato il senso letterale, tenuto conto, in tale operazione, della formulazione testuale dell’atto nonchè del contenuto sostanziale della pretesa in relazione alle finalità che la parte intende perseguire (v. tra le altre Cass. n. 5712 del 2009 e n. 22893 del 2008). Con l’ulteriore conseguenza che soggiace alla sanzione d’inammissibilità il ricorso che censuri l’operazione compiuta dal giudice di merito nell’interpretazione della domanda senza prospettare vizi motivazionali (Cass. n. 7533 del 2004, n. 5712 del 2009.)

5.2. Da quanto ora osservato deriva la inidoneità delle doglianze articolate dalla parte ricorrente alla valida censura della decisione in punto di esclusione del giudicato sulla statuizione di condanna alle retribuzioni, posto che il ricorso si limita a riproporre la propria interpretazione del contenuto dell’atto di gravame, senza evidenziare specifici profili di incongruità e logicità dell’interpretazione dello stesso da parte del giudice del merito, gli unici rispetto ai quali, come detto, è possibile il controllo di legittimità (Cass. n. 17947 del 2006).

6. Il secondo motivo è anch’esso inammissibile in quanto, oltre a non essere sorretto dall’autosufficiente richiamo alla vicenda processuale svoltasi nei gradi di merito in relazione al profilo relativo alla qualificazione della comunicazione datoriale, parte ricorrente, in violazione delle prescrizioni di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6 non ha riprodotto il contenuto dell’atto della cui interpretazione si duole, atto del quale non è nemmeno specificata la sede processuale di relativa produzione.

La modalità di articolazione del motivo non è, infatti, conforme all’insegnamento di questa Corte la quale ha ripetutamente affermato che il ricorrente per cassazione che intenda dolersi dell’omessa o erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, il duplice onere, imposto a pena di inammissibilità del ricorso, di indicare esattamente nell’atto introduttivo in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione, e di evidenziarne il contenuto, trascrivendolo o riassumendolo nei suoi esatti termini, al fine di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo, senza dover procedere all’esame dei fascicoli d’ufficio o di parte. (Cass. n. 26174 del 2014). Il primo onere va adempiuto indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento; il secondo deve essere adempiuto trascrivendo o riassumendo nel ricorso il suo esatto contenuto (Cass. n. 2427 del 2014n. 2966 del 2011). In altri termini, occorre non solo che la parte precisi dove e quando il documento asseritamente ignorato dai primi giudici o da essi erroneamente interpretato sia stato prodotto nella sequenza procedimentale che porta la vicenda al vaglio di legittimità,ma, al fine di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte, occorre altresì che detto documento ovvero quella parte di esso su cui si fonda il gravame sia puntualmente riportata nel ricorso nei suoi esatti termini. L’inosservanza anche di uno soltanto di questi oneri viola il precetto di specificità di cui al citato art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e rende il ricorso conseguentemente inammissibile (Cass. n. 26174 del 2014 cit.).

7. Il terzo motivo di ricorso è in parte infondato e in parte inammissibile. Si premette che il giudice di appello ha espressamente richiamato i principi affermati da Cass. n. 3766 del 2006, invocati dagli odierni ricorrenti a illustrazione delle censure, e evidenziato come la sofferenza fisica e psichica nel pur breve arco temporale (sei giorni) tra il ricovero e l’exitus non poteva non avere raggiunto il livello massimo; ha quindi escluso che potesse farsi riferimento sia alla diaria prevista per la inabilità temporanea totale ed ai criteri tabellari e quindi sulla base della considerazione di tali elementi fra i quali anche il breve arco di tempo tra il ricovero.

7.1. Le censure svolte, per una parte non sono pertinenti alla effettive ragioni del decisum perchè il giudice di appello ha fatto applicazione di un criterio cd. equitativo puro laddove ha dichiarato di prescindere, nella quantificazione del ristoro spettante al dante causa, sia dal parametro della indennità per inabilità temporanea totale sia da criteri tabellari; per altro verso, occorre rimarcare che esse affidano la richiesta di cassazione della statuizione risarcitoria a elementi estrinseci al pregiudizio subito; si sottolinea,infatti, la particolare gravità e colpevolezza della condotta dell’ente datore, elementi questi che possono assumere rilievo al fine dell’imputazione soggettiva dell’evento ma non concorrono alla determinazione della misura del risarcimento, ancorata al concreto danno psico fisico del lavoratore.

8. Il quarto motivo di ricorso è anch’esso inammissibile con riferimento a entrambi i profili articolati. Invero, la deduzione relativa alla violazione dell’art. 111 Cost., comma 6, e dell’art. 132 c.p.c. è affidata, esclusivamente, all’essersi la sentenza di appello discostata da quella di prime cure in ordine alla misura del risarcimento del danno; la censura è, quindi, priva del tutto di specificità e pertinenza rispetto alle concrete ragioni della decisione di secondo grado, sul punto, le quali sono frutto di argomentazioni articolate che tengono puntualmente conto della entità della sofferenza fisica e psichica del lavoratore, in relazione alla patologia che ne ha determinato il decesso. La deduzione di vizio di motivazione risulta anch’essa inammissibile per essere le circostanze delle quali si denunzia la omessa valutazione, evocate senza l’osservanza delle prescrizioni di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, dovendosi altresì evidenziare che, come chiarito da questa Corte, la valutazione equitativa del danno, in quanto inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimatività, è suscettibile di rilievi in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio della motivazione, solo se difetti totalmente la giustificazione che quella statuizione sorregge, o macroscopicamente si discosti dai dati di comune esperienza, o sia radicalmente contraddittoria (Cass. n. 12318 del 2010).

9. A tanto consegue il rigetto del ricorso.

10. Le spese di lite sono regolate secondo soccombenza.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio che liquida in Euro 4.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15%, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 7 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2017

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