Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22174 del 12/09/2018

Cassazione civile sez. lav., 12/09/2018, (ud. 06/02/2018, dep. 12/09/2018), n.22174

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17792-2013 proposto da:

INDESIT COMPANY S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

PIAZZA DEL POPOLO 18, presso lo studio degli avvocati NUNZIO RIZZO,

PIERLUIGI RIZZO, che la rappresentano e difendono, giusta delega in

atti;

– ricorrente –

contro

M.M., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato RAFFAELE FERRARA, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 36/2013 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 25/01/2013 R.G.N. 10621/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/02/2018 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il giudice del lavoro di Santa Maria Capua Vetere, adito da M.M. con ricorso del 1909-2007 per la declaratoria di nullità del termine finale apposto ai vari contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, stipulati con la INDESIT Company S.p.a. – il primo dei quali con decorrenza dal 20 marzo sino al 18 agosto 2000 ed in seguito prorogato fino al 22 dicembre dello stesso anno – con sentenza in data 10-04-2009 accoglieva la domanda, accertando la costituzione tra le parti di un contratto a tempo indeterminato, dal 20 marzo 2000, condannando quindi la società convenuta al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni dovute dal sette dicembre 2007, oltre accessori di legge, nonchè al rimborso delle spese di lite.

La Corte d’Appello di Napoli, in seguito al gravame proposto dalla INDESIT COMPANY, con sentenza n. 36 in data 8 – 25 gennaio 2013, riformava soltanto in parte l’impugnata pronuncia di primo grado, limitatamente al capo b) del suo dispositivo, condannando la convenuta appellante al pagamento, in favore del M., dell’indennizzo L. n. 183 del 2010, ex art. 32 in ragione di nove mensilità e mezzo della retribuzione globale di fatto percepita al momento della cessazione del rapporto, a titolo di risarcimento del danno (spettante fino alla suddetta pronuncia, emessa il sette aprile 2009), oltre accessori dalla maturazione del credito al saldo, confermando nel resto la gravata decisione e condannando, inoltre, la società al pagamento delle ulteriori spese di lite, come ivi liquidate, con attribuzione al procuratore anticipatario costituitosi per l’appellato. Infatti, secondo la Corte di merito, risultava applicabile unicamente lo jus superveniens di cui al citato art. 32, essendo infondate le altre censure (preteso giudicato ostativo ex sentenza n. 318/2007, resa dal Tribunale di Napoli, ma concernente un accordo transattivo intervenuto tra la madre del M. e la INDESIT Company, rispetto al quale l’appellato risultava unicamente come eventuale beneficiario; insussistenza del preteso indebito frazionamento del credito, nonchè della decadenza per difetto di presupposto, non ravvisandosi nella specie gli estremi di alcun licenziamento nella missiva di parte datoriale in data primo agosto 2002; analogamente, inesistenza di scioglimento del rapporto contrattuale per mutuo consenso; ritenuta genericità della causale di cui al primo contratto a termine in data 20-03-2000, disciplinato dalla allora vigente L. n. 230 del 1962, laddove era stato unicamente menzionato il comma 10 dell’accordo interconfederale, peraltro mancando L. n. 56 del 1987, ex art. 23 uno specifico riferimento all’ulteriore esigenza enucleata dalla contrattazione collettiva, con l’indicazione, precisa e circostanziata, del contratto collettivo che la prevedeva; inoltre, nella specie l’attore, nell’allegare le mansioni svolte quale addetto al normale ciclo produttivo in essere presso la convenuta, aveva contestato la legittimità dei termini de quibus, sicchè spettava alla società resistente provare le ipotesi ammesse ex L. n. 230 del 1962, ciò che però non era accaduto, laddove con la memoria difensiva di prime cure era stata unicamente dedotta l’operatività della L. n. 56 del 1987, art. 23 e quindi dell’accordo interconfederale del 1988, ma senza indicare circostanze di fatto dalle quali fosse desumibile la ricorrenza di una delle ipotesi contemplate dalla L. n. 230, art. 1 cit.). Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione INDESIT COMPANY S.p.a. come da atto notificato il 22 luglio 2013, affidato a sette motivi, cui ha resistito M.M. mediante controricorso in data 27 luglio – sei agosto 2013.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

I motivi di ricorso possono sintetizzarsi nei seguenti termini:

1 – violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., per avere erroneamente i giudici di appello disatteso l’eccezione di giudicato esterno, costituito dalla sentenza del Tribunale di Napoli n. 318 del 2007 – art. 360 c.p.c., n. 3;

2 – violazione e falsa applicazione della L. n. 304 del 1966, artt. 2 e 6 nonchè degli artt. 1324,1362 e 1373 c.c., con riferimento alla decadenza, esclusa dai giudici di merito per difetto di indispensabile presupposto, costituito da un effettivo recesso, ossia un licenziamento attuato mediante idonea manifestazione di volontà in proposito – art. 360 c.p.c., n. 3;

3 – ancora ex cit. art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1372,1375 e 2697 c.c., avendo i giudici di appello disatteso l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso;

4 – violazione e falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, della L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 nonchè della L. n. 230 del 1962, art. 1 stante l’erronea valutazione circa la necessaria sussistenza del requisito formale, ma non richiesto dall’anzidetta legislazione, circa la specifica indicazione nel contratto individuale a tempo determinato della causale legittimante l’apposizione del termine, avendo i giudici di appello confuso la disciplina di cui al D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 con quella previgente, di cui ai succitati artt. 1 e 23, però nella specie ratione temporis applicabile, richiamandosi a sostegno dell’impugnazione taluni procedenti giurisprudenziali sull’argomento;

5 – violazione e falsa applicazione della L. n. 56 del 1987, art. 23;

6 – violazione e falsa applicazione del punto 11 dell’accordo interconfederale 18 dicembre 1988;

7 – omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti. Tanto premesso, il ricorso appare fondato unicamente per quanto di ragione in relazione al quarto motivo, dovendosi disattendere le restanti censure, segnatamente con rifermento alle prime tre doglianze, mentre il quinto, il senso ed il settimo motivo devono considerarsi assorbiti. Ed invero, quanto al primo non è ravvisabile la pretesa violazione del giudicato alla stregua delle corrette ed esaurienti argomentazioni svolte in proposito dalla Corte distrettuale, visto che la sentenza n. 318/2007 definiva il giudizio instaurato da F.C. (madre del M.) nonchè da quest’ultimo, ma relativamente alla dedotta nullità dell’accorso transattivo concluso dalla sola F. con la INDESIT, avente ad oggetto la rinuncia all’incentivo all’esodo da parte della stessa F. in cambio dell’assunzione a tempo indeterminato del figlio, sicchè l’attrice aveva chiesto in via principale la sua reintegrazione nel posto di lavoro ovvero l’assunzione a tempo indeterminato del figlio, oppure, in via gradata, il risarcimento del danno lamentato dalla stessa. Dunque, l’anzidetto precedente giudizio riguardava causa petendi e petitum diversi da quelli dedotti con il ricorso introduttivo del 19-09-2007, ad opera del solo M., concernente azione di nullità parziale dei contratti a termine da costui stipulati con la società, finalizzata alla loro conversione in rapporto a tempo indeterminato, mentre la causa di cui all’anzidetta pronuncia n. 318/07 ineriva al preteso inadempimento di quanto concordato in via transattiva dalla lavoratrice, che aveva rinunciato all’incentivo all’esodo per cessazione anticipata del suo rapporto di lavoro in cambio di quanto promessole da parte datoriale, sicchè il riferimento ai rapporti di lavoro a termine tra la società ed il M. era avvenuto unicamente a sostegno dell’inadempimento dedotto in relazione all’accordo F./INDESIT Company. Nè appare meritevole di pregio il secondo motivo di ricorso, laddove è stata lamentata la violazione dell’asserita decadenza, in cui sarebbe incorso il M., operando invece la decadenza, secondo la normativa di legge ratione temporis applicabile (prima quindi nelle novità in proposito introdotte dalla L. n. 183 del 2010) soltanto in caso di licenziamento, ossia unicamente nell’ipotesi di un vero e proprio recesso intimato da parte datoriale, però inconfigurabile nell’ipotesi di mera comunicazione della scadenza del termine finale indicato nel caso di contratti stipulati a tempo determinato (v. Cass. lav. n. 6100 del 17/03/2014: non è configurabile la decadenza di cui alla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 6 per mancata impugnativa del licenziamento, se il rapporto ha avuto conclusione non in base ad un atto unilaterale risolutivo del datore di lavoro, ma solo per la scadenza del termine illegittimamente apposto. Nella specie la è stato, quindi, ritenuto insussistente l’onere di impugnativa con riferimento a contratto a tempo determinato, concluso nella vigenza della L. 18 aprile 1962, n. 230, in controversia iniziata prima dell’entrata in vigore della L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 3. In senso conforme Cass. lav. n. 11741 del 21/05/2007, secondo cui in caso di nullità del termine apposto al contratto di lavoro non sussiste per il lavoratore cessato dal servizio l’onere di impugnazione nel termine – di sessanta giorni – previsto a pena di decadenza dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 6 – che presuppone un licenziamento -, atteso che il rapporto cessa per l’apparente operatività del termine stesso in ragione dell’esecuzione che le parti danno alla clausola nulla; pertanto, applicandosi la disciplina della nullità in qualsiasi tempo il lavoratore può far valere l’illegittimità del termine e chiedere conseguentemente l’accertamento della perdurante sussistenza del rapporto nonchè la condanna del datore di lavoro a riattivarlo riammettendolo al lavoro, salvo che il protrarsi della mancata reazione del lavoratore all’estromissione dall’azienda ed il suo prolungato disinteresse alla prosecuzione del rapporto esprimano, come comportamento tacito concludente, la volontà di risoluzione consensuale del rapporto stesso e sempre che il rapporto – apparentemente – a termine non si sia risolto per effetto di uno specifico atto di recesso del datore di lavoro, che si sia sovrapposto alla mera operatività del termine con la conseguente applicazione, in tale ultimo caso, sia del termine di decadenza di cui all’art. 6 cit., sia della disciplina della giusta causa e del giustificato motivo del licenziamento.

Analogamente, tra le altre, Cass. lav. n. 23756 del 10/11/2009: nel caso di scadenza di un contratto di lavoro a termine illegittimamente stipulato, la disdetta con la quale il datore di lavoro, allo scopo di evitare la rinnovazione tacita del contratto, comunica al dipendente la scadenza del termine illegittimamente apposto, configura un atto meramente ricognitivo, non una fattispecie di recesso, e la prestazione lavorativa cessa in ragione dell’esecuzione che le parti danno alla clausola nulla. Ne consegue l’inapplicabilità della L. n. 604 del 1966, art. 6 e della L. n. 300 del 1970, art. 18 benchè la conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato dia al dipendente il diritto al ripristino del rapporto di lavoro e, ove negato, il diritto alla tutela risarcitoria). Orbene, nel caso qui in esame la Corte partenopea ha fatto corretta applicazione degli anzidetti principi di diritto – avendo inoltre escluso, con accertamento in punto di fatto, sufficientemente argomentato, insindacabile di conseguenza in questa sede di legittimità per effetto di quanto rigorosamente previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1 – nella comunicazione del primo agosto 2002 gli estremi di un recesso in senso stretto, laddove si evinceva soltanto che la società aveva inteso semplicemente far valere la scadenza del termine indicato nell’ultimo contratto stipulato, in data sette gennaio 2002, e non già manifestare una volontà risolutiva per diversi ed ulteriori motivi, allo scopo riportando anche il dato letterale della missiva.

Parimenti va osservato in relazione alla terza doglianza, laddove la Corte di merito con motivazione logica, esauriente ed immune da errori diritto ha escluso la risoluzione consensuale del rapporto contrattuale, ipotizzata dalla convenuta, “nonostante la ricorrenza degli elementi indicati da parte appellante….”. Invero, la Corte territoriale, richiamata la giurisprudenza in tema di mutuo consenso, e tenuto conto delle concrete circostanze del caso esaminato, non ha ritenuto rilevante il mero decorso del tempo tra l’ultima scadenza contrattuale fissata e il momento dell’attivazione al riguardo del lavoratore, risultando per altro verso vanificata anche l’imprescrittibilità dell’azione di nullità, sebbene parziale, nella specie esperita, ad ogni modo non ravvisando elementi di univoca e conclamata inerzia, da cui poter desumere il definitivo comune interesse alla cessazione del rapporto (peraltro, nella specie, come sì detto in ordine al secondo motivo, non operava la decadenza, successivamente introdotta in materia dalla L. n. 183 del 2010).

L’anzidetto accertamento, pertanto, siccome congruamente motivato dalla Corte di merito, è insindacabile in questa sede di legittimità (cfr. in part. Cass. lav. n. 29781 del 12/12/2017 – cui si rimanda per ogni altro opportuno approfondimento, unitamente alla giurisprudenza ivi richiamata – secondo la quale, in tema di contratti a tempo determinato, l’accertamento della sussistenza di una concorde volontà delle parti diretta allo scioglimento del vincolo contrattuale costituisce apprezzamento di merito che, se immune da vizi logici, giuridici e adeguatamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità, secondo le rigorose regole sui motivi che possono essere fatti valere al fine di incrinare la ricostruzione di ogni vicenda storica antecedente al contenzioso giudiziale, previste dall’art. 360 c.p.c., n. 5, tempo per tempo vigente).

Per contro, le varie doglianze avanzate da parte ricorrente non possono trovare accoglimento, in quanto, per consolidato orientamento di questa Corte, la motivazione omessa o insufficiente è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già quando, invece, vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato dal primo attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi, altrimenti, il motivo di ricorso in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (in termini, tra le tante, Cass. sez. un. civ. n. 24148 del 2013). Infatti, il motivo di ricorso ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo quello di controllare, sul piano della coerenza logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento, controllarne l’attendibilità e la concludenza nonchè scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti in discussione, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. sez. un. civ. n. 5802 del 1998, nonchè Cass. n. 1892 del 2002, n. 15355 del 2004, n. 1014 del 2006, n. 18119 del 2008).

Nella specie, parte ricorrente, lungi dal denunciare una totale obliterazione di un “fatto controverso e decisivo” che, ove valutato, avrebbe condotto, con criterio di certezza e non di mera probabilità, ad una diversa decisione, si è limitata, attraverso un vago riesame delle risultanze istruttorie, a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito al diverso convincimento soggettivo patrocinato dalla parte stessa, proponendo un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti; tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento, rilevanti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sicchè la censura in esame, anche laddove deduce solo formalmente violazioni di legge, si traduce in sostanza nell’invocata revisione delle valutazioni e dei convincimenti espressi dal giudice di merito, tesa a conseguire una nuova pronuncia sul fatto, non ammessa perchè estranea alla natura ed alla finalità del giudizio di legittimità.

Appare, invece, fondato, nei seguenti termini, il quarto motivo di ricorso, laddove si lamenta l’errata applicazione della normativa ivi indicata, avendo la Corte distrettuale ritenuto inconferente e generica la causale del contratto stipulato il 20 marzo 2000, perciò soggetto alla disciplina previgente al D.Lgs. n. 368 del 2001, laddove si era fatto riferimento al “comma 10 dell’Accordo Interconfederale”, senza alcuna ulteriore precisazione sul punto, comma peraltro neppure esistente nell’accordo interconfederale del 18-12-1988, prodotto in primo grado dalla società resistente, e relativo inoltre ai contratti di formazione e lavoro. Inoltre, secondo la Corte distrettuale, la L. n. 56 del 1987, art. 23 era applicabile nelle sole ipotesi in cui nel contratto vi fosse uno specifico riferimento all’ulteriore esigenza enucleata dalla contrattazione collettiva, con indicazione precisa e circostanziata del corrispondente contratto collettivo, mentre nel caso di specie l’estrema genericità dell’indicazione contenuta nel contratto del 20 marzo 2000 non consentiva di ritenere applicabile l’anzidetto art. 23, non essendo stata richiamata alcuna specifica ipotesi di legittima applicazione del termine prevista dalla contrattazione collettiva. Nel caso in esame, secondo la Corte partenopea, con il ricorso introduttivo del giudizio l’attore aveva allegato di aver svolto mansioni di operaio addetto al normale ciclo produttivo, contestando la legittimità del termine apposto ai contratti in forza dei quali era stato assunto a tempo determinato. Ne derivava l’onere di parte datoriale di allegare e di provare la ricorrenza delle ipotesi contemplate dalla L. n. 230 del 1962, laddove la società convenuta si era limitata a dedurre che il contratto in data 20 marzo 2000 era regolato dalla L. n. 57 cit., art. 23 e quindi dall’accordo interconfederale del 1988, senza indicare circostanze di fatto dalle quali potesse desumersi la ricorrenza di una delle ipotesi di cui alla L. n. 230 del 1962, art. 1 donde le conseguenti nullità del termine e la conversione del contratto de quo in rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Orbene, le anzidette argomentazioni risultano, quantomeno in parte, errate in punto di diritto, soprattutto laddove si pretende una formalistica indicazione delle ragioni del ricorso al contratto a tempo determinato (ad ogni modo nella specie non ricadente sotto la disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 368 del 2001, entrato in vigore in epoca successiva), per giunta con riferimento alla c.d. delega in bianco ex cit. art. 23 (eventualmente applicabile per effetto del riferimento alla contrattazione collettiva, comunque contenuto nel contratto in questione, ancorchè in modo vago e/o impreciso).

Infatti, questa Corte (Sezione lavoro) ha già avuto modo di affermare con sentenza n. 23702 del 17 settembre – 18/10/2013, che in tema di contratto a tempo determinato, costituisce regola generale l’obbligo di apporre nel contratto individuale di lavoro la ragione giustificativa del termine, la cui enunciazione deve essere specifica nel regime previsto dal D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, mentre nella vigenza della L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 – con il quale era stata affidata alla contrattazione collettiva la possibilità di autorizzare contratti a termine per causali, di carattere oggettivo o anche meramente soggettivo, ulteriori rispetto a quelle previste dalla L. 18 aprile 1962, n. 230 – era sufficiente il richiamo, nel contratto stesso, alla previsione del contratto collettivo, così da consentire, anche in tale evenienza, il controllo giudiziario sull’operato delle parti ed evitare l’arbitrio che il silenzio avrebbe consentito (v. altresì Cass. lav. n. 10607 del 19/07/2002, secondo cui a norma della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1, comma 3, sulla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, la forma scritta “ad substantiam” è richiesta solo per l’apposizione del termine di durata del rapporto di lavoro, e non anche per le particolari situazioni di fatto che, a norma degli artt. 1 e 2 stessa legge, giustificano il ricorso al contratto a termine e la relativa proroga, senza che perciò il lavoratore sia privato della possibilità di addurre la illegittimità del contratto a termine per l’assenza della sua ragione legittimante, essendo allo stesso consentito richiedere in via giudiziaria la nullità del contratto e la trasformazione del rapporto lavorativo a tempo indeterminato ed incombendo in questo caso al datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza dei motivi che ai sensi della citata L. n. 230 del 1962 legittimano il ricorso al lavoro a termine.

V. pure, in senso analogo, Cass. lav. n. 8294 del 10/04/2006, secondo cui a norma della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1, comma 3, sulla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, la forma scritta “ad substantiam” è richiesta solo per l’apposizione del termine di durata del rapporto di lavoro, e non anche per le particolari situazioni di fatto che, a norma degli artt. 1 e 2 stessa legge, giustificano il ricorso al contratto a termine e la relativa proroga; tuttavia, se il datore di lavoro ha specificato nel contratto scritto di assunzione la fattispecie legittimante l’apposizione del termine, lo stesso, in applicazione dei principi di correttezza e buona fede in tema di contratti, è vincolato a tale fattispecie e pertanto, a fronte di una contestazione della legittimità del termine, ha l’onere di provare la sussistenza della fattispecie legittimante indicata nel contratto di assunzione, essendogli preclusa la possibilità di invocare e di provare la sussistenza di altre fattispecie legittimanti non indicate.

Cfr. ancora Cass. lav. n. 15455 del 14/09/2012, secondo cui in tema di assunzione a termine di dipendenti RAI allorquando la stessa risulti correlata alla realizzazione di un unico programma – cioè di un singolo spettacolo, sia pure suddiviso in puntate – non è necessario il requisito della specificità, risultando la prestazione dedotta in contratto chiaramente determinata mediante la necessaria indicazione, nello stesso contratto, del titolo del programma, avendo peraltro la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 esteso l’ambito dei contratti a termine “autorizzati”, consentendo anche alla contrattazione collettiva di individuare nuove ipotesi di legittima apposizione di un termine al contratto di lavoro).

D’altro canto, va pure ricordata la pronuncia di Cass. lav. n. 4025 del 3 – 25/02/2005, secondo cui l’identificazione delle nuove fattispecie, in cui è consentita, L. n. 56 del 1987, ex art. 23 l’assunzione dei lavoratori subordinati con contratto di lavoro a termine può essere effettuata non soltanto dal contratto collettivo applicabile al rapporto, ma anche da un accordo interconfederale (nel caso di specie ivi esaminato, l’Accordo interconfederale 18 dicembre 1988), qualora, sotto il profilo soggettivo, le parti stipulanti possano ritenersi validamente rappresentative, al pari dei “sindacati locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale”, previsti dall’art. 23, e, sotto il profilo oggettivo, qualora sia assicurata la considerazione delle particolari esigenze di un settore determinato con condizioni di lavoro prevalentemente omogenee, seppur non in riferimento ad una determinata tipologia produttiva ma ad un determinato ambito territoriale (in senso conforme Cass. lav. n. 4199 del 23/03/2002, secondo cui, ai sensi della L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 disposizione che opera sul medesimo piano della disciplina generale dettata in materia dalla L. 18 aprile 1962, n. 230 e si inserisce nel sistema da questa delineato -, la contrattazione collettiva è libera di individuare nuove ipotesi di legittima apposizione del termine al rapporto di lavoro. Di conseguenza, veniva confermata la sentenza impugnata che aveva ritenuto legittima l’assunzione a termine di un lavoratore con contratto di inserimento lavorativo ex art. 10 dell’accordo interconfederale del 18 dicembre 1988, la cui validità è stata prorogata dal successivo accordo 20 gennaio 1993, in quanto si trattava di un lavoratore infraventinovenne, assunto per mansioni per le quali non era consentita la stipula di contratti di formazione e lavoro, e nei limiti della clausola di contingentamento previsto dal medesimo art. 10. V. anche Cass. lav. n. 13896 del 23/07/2004: la L. n. 56 del 1987, ex art. 23 nello stabilire che la contrattazione collettiva è libera di individuare ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro diverse da quelle previste dalla L. n. 230 del 1962, non prevede limiti all’autonomia collettiva circa la tipologia delle nuove forme di contratto a termine da introdurre e pertanto non esclude la legittimità di ipotesi collegate a condizioni soggettive dei lavoratori, principio affermato in fattispecie relativa a contratti stipulati ai sensi del punto c) n. 9 dell’accordo interconfederale sulle politiche di formazione professionale, sottoscritto il 5 gennaio 1990 tra l’Intersind e le organizzazioni sindacali).

La giurisprudenza di legittimità (Cass. lav. n. 14011 del 26/07/2004), condivisa dal collegio, che perciò intende confermarla, ha inoltre affermato che l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti – con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato – e prescinde, di conseguenza, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori, ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato (conformi Cass. n. 17674 del 2002 e n. 2866 del 2004. V. pure analogamente Cass. lav. n. 4862 del 07/03/2005, 6 civ. – L n. 21355 del 15/10/2011 – secondo cui, inoltre, i contratti collettivi non sono vincolati all’individuazione di ipotesi omologhe a quelle già previste dalla legge e operano sul medesimo piano della disciplina generale, fermo restando che qualora un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine. Conformi Cass. n. 21063 del 2008 e n. 23455 del 2009.

V., ma per altro verso, Cass. 6 – L n. 1351 del 26/01/2015, secondo cui nel regime di cui alla L. 28 febbraio 1987, n. 56, l’onere della prova dell’osservanza della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto ai dipendenti a tempo indeterminato è a carico del datore di lavoro, atteso che, ai sensi della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 3 spetta a quest’ultimo dimostrare l’obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano l’apposizione del termine. Conformi Cass. lav. n. 4764 del 10/03/2015 e n. 14284 del 2011).

Nei sensi anzidetti, pertanto, l’impugnata sentenza va cassata, non risultando conforme ai principi di diritto sopra enunciati e richiamati, di guisa che occorre un puntuale e concreto nuovo accertamento di merito in proposito, alla stregua di quanto menzionato nel suddetto contratto a termine del 20-03-2000, per appurare se effettivamente l’assunzione a tempo determinato ivi concordata potesse risultare conforme, o meno, alla deroga consentita dal più volte citato art. 23 in relazione all’accordo interconfederale del 1988, del resto facilmente individuabile alla stregua di quanto emergente dalla medesima sentenza qui impugnata (che pure richiamava il corrispondente documento prodotto da parte resistente in prime cure), salvo poi ogni altro conseguente onere probatorio (e sempre che la questione sia stata ritualmente dedotta nel corso del giudizio di primo grado e poi coltivata in sede di gravame, con riferimento alla clausola di contingentamento), ovvero alla normativa ordinaria allora vigente (tenuto conto delle questioni inoltre di ordine probatorio al riguardo eventualmente sollevate), e salva ancora ogni altra decisione di merito circa gli altri contratti a tempo determinato, risultanti stipulati il 22 gennaio 2001, con proroga sino al 14 dicembre successivo, ed il sette gennaio/due agosto 2002, dei quali vi è altresì menzione in atti, ma non esaminati nel merito, avendoli la Corte distrettuale, evidentemente, giudicati assorbiti per quanto deciso in relazione al primo contratto del 20 marzo 2000.

Pertanto, l’impugnata decisione va cassata con rinvio ex artt. 384 e 385 c.p.c., pure ai fini del regolamento delle spese di questo giudizio di legittimità. La parziale fondatezza dell’impugnazione de qua esclude, infine, la sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater in ordine al raddoppio del contributo unificato, ricorrenti nei soli casi di esito interamente negativo dell’impugnazione stessa.

PQM

la Corte accoglie per quanto di ragione il quarto motivo di ricorso. Rigetta i primi tre, dichiarando assorbiti gli altri rimanenti. Cassa l’impugnata sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia, per l’effetto, alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione, anche per le spese.

Così deciso in Roma, il 6 febbraio 2018.

Depositato in Cancelleria il 12 settembre 2018

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