Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22153 del 29/10/2015


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Civile Sent. Sez. L Num. 22153 Anno 2015
Presidente: ROSELLI FEDERICO
Relatore: LORITO MATILDE

SENTENZA

sul ricorso 12409-2010 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona
del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo
studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e
difesa dall’avvocato GRANOZZI GAETANO, giusta delega
2015

in atti;
– ricorrente –

3606
contro

D’AUBERT ROSALIA C.F. DBRRSL50C48G273S, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA MONTE ZEBIO 37, presso lo

Data pubblicazione: 29/10/2015

v

.r

studio dell’avvocato MARCELLO FURITANO, rappresentata
e difesa dall’avvocato GUIDO LOMEO, giusta delega in

,

atti;
– controricorrente –

avverso la sentenza n. 529/2009 della CORTE D’APPELLO

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 23/09/2015 dal Consigliere Dott. MATILDE
LORITO;
udito l’Avvocato BUTTAFOCO ANNA per delega verbale
GRANOZZI GAETANO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIOVANNI GIACALONE 7 che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

z

di PALERMO, depositata il 04/05/2009 R.G.N. 134/2008;

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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
v La Corte d’Appello di Palermo con sentenza in data 4/5/09, in
riforma della pronuncia del giudice di primo grado, accoglieva
la domanda proposta da D’Aubert Rosalia nei confronti della
s.p.a. Poste Italiane, diretta ad ottenere la declaratoria di
nullità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso
tra le parti dal 6 giugno al 30 settembre 2000 per “esigenze
eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione degli
assetti occupazionali in corso e in ragione della graduale
introduzione di nuovi processi produttivi ed in attesa
dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul
territorio delle risorse umane”. Ordinava altresì la
riammissione in servizio della lavoratrice e condannava la
società al risarcimento del danno con decorrenza dall’epoca di
messa in mora (26/3/03) sino alla riassunzione.
Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto
ricorso affidato a sette motivi illustrati da memoria ex
art.378 c.p.c. e resistiti con controricorso dalla D’Aubert.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo e il secondo motivo, la ricorrente censura
l’impugnata sentenza (per violazione e falsa applicazione di
plurime disposizioni di legge), nella parte in cui ha respinto
l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso
tacito, nonostante la mancanza di una qualsiasi manifestazione
di interesse della lavoratrice alla funzionalità di fatto del
rapporto per un apprezzabile lasso di tempo anteriore alla
proposizione della domanda, e la conseguente presunzione di
estinzione del rapporto stesso con onere, in capo alla
lavoratrice medesima, di provare le circostanze atte a
contrastare tale presunzione.
Le censure, che possono essere esaminate congiuntamente per
presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, non
meritano accoglimento.
Come questa Corte ha più volte affermato “nel giudizio
instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un
unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto
dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale
ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del
rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione
dell’ultimo contratto a termine, nonché del comportamento
tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre
definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v. Cass. 289-2007 n. 20390, Cass. 10-11-2008 n. 26935, cui adde Cass. 18-

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11-2010 n. 23319, Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8-2011 n.
16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del
contratto a termine, quindi, “è di per sé insufficiente a
ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo
consenso” (cfr. Cass. 15-11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n.
5887), mentre “grava sul datore di lavoro”, che eccepisca tale
risoluzione, “l’onere di provare le circostanze dalle quali
possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere
porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v.
Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre, Cass. 1-2-2010 n.
2279, Cass. 15-11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887).
Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli art.
1372 e 1321 c.c., va ribadito anche in questa sede, così
confermandosi l’indirizzo prevalente ormai consolidato, basato
in sostanza sulla necessaria valutazione dei comportamenti e
delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara
manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla
risoluzione del rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il
semplice trascorrere del tempo e neppure la mera mancanza,
seppure prolungata, di operatività del rapporto. Al riguardo,
infatti, non può condividersi il diverso indirizzo che,
valorizzando esclusivamente il “piano oggettivo” nel quadro di
una presupposta valutazione sociale “tipica” (v. Cass. 6-7-2007
n. 15264 e, più di recente, Cass. 5-6-2013 n. 14209), prescinde
del tutto dal presupposto che la risoluzione per mutuo consenso
tacito costituisce pur sempre una manifestazione negoziale,
anche se tacita (cfr. Cass. 28-1-2014 n.1780).
Orbene nella fattispecie la Corte di merito, attenendosi a tali
principi, ha affermato che nella specie non appare
configurabile una risoluzione per mutuo consenso tacito, in
quanto la società, che avrebbe dovuto dedurre e provare un
comportamento della lavoratrice che costituisse chiara ed
univoca manifestazione di una siffatta volontà di risolvere
ogni rapporto, alcunché di specifico ha allegato al riguardo,
essendosi in sostanza limitata a dedurre il mero trascorrere
prolungato del tempo. Ha inoltre argomentato in ordine alla
carenza di peculiare connotazione della durata
dell’interruzione del rapporto, desumibile da “modalità della
risoluzione o dal comportamento successivo della lavoratrice,”
che potessero “indurre a considerarla come manifestazione di
acquiescenza alla intervenuta cessazione dell’esecuzione del
rapporto”.
Tale accertamento di fatto, fondato sulla inidoneità della mera
inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a
termine, a configurare una risoluzione del rapporto per mutuo

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consenso, si presenta in linea con i dicta giurisprudenziali
sopra richiamati, risulta congruamente motivato e resiste
pertanto alle formulate censure.
In tale prospettiva si palesano, quindi, prive di rilievo le
osservazioni formulate con il secondo motivo di doglianza, in
relazione alla inesistenza agli atti di causa, della circolare
della società secondo cui era inibita la stipula di contratti
di lavoro a tempo determinato con soggetti che avessero un
contenzioso in corso, la ratio della pronuncia essendo fondata
principalmente sulla irrilevanza del mero fattore “tempo” in
ordine alla configurabilità di una risoluzione del rapporto per
mutuo consenso.
Con il terzo, quarto e quinto motivo, la società censura (per
violazione di legge e vizio di motivazione) la sentenza
impugnata nella parte in cui ha ritenuto la nullità del termine
apposto al contratto de quo in quanto stipulato oltre la
scadenza ultima fissata dagli accordi collettivi attuativi
dell’acc. az. 25-9-1997 ed all’uopo sostiene la insussistenza
di tale scadenza e la natura meramente ricognitiva dei detti
accordi.
I motivi sono infondati in base all’indirizzo ormai consolidato
in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema
vigente anteriormente al c.c.n.l. del 2001 ed al d.lgs. n. 368
del 2001).
Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato
precisato che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva,
ex art. 23 della legge n. 56 del 1987, del potere di definire
nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti
dalla legge n.230 del 1962, discende dall’intento del
legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti
sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia
per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti
(con l’unico limite della predeterminazione della percentuale
di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati
a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità
di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti
ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di
lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare
contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al
datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo
determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v. anche Cass. 20-42006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n.
14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a
favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono
destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione

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di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma
dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale
in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato.”
(v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n.
18378).
In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite
temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con
accordi integrativi del contratto collettivo) la sua
inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione
del termine (v. fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass.
14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).
In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente
affermato e come va anche qui ribadito, “in materia di
assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo
sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del
c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo
attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno
convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione
straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente
ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione
degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla
data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la
legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30
aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio,
con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi
contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art. l della
legge 18 aprile 1962 n. 230” (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007
n. 20608; Cass. 28-11-2008 n. 28450; Cass. 4-8-2008 n- 21062;
Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).
Con il sesto e settimo mezzo di impugnazione, la società
ricorrente, in ordine alle richieste economiche, deduce che
nella fattispecie la lavoratrice non avrebbe fornito la prova
dell’effettivo danno subito, non essendovi stata una effettiva
offerta della prestazione con conseguente mora accipiendi del
datore di lavoro che dovrebbe decorrere quindi, solo dalla
ripresa del servizio, e che comunque il risarcimento del
preteso danno derivante dalla perdita della retribuzione
andrebbe ridotto in ragione dell’aliunde perceptum. Sul rilievo
che non si versa in fattispecie di eccezione riservata alla
parte, ma di circostanza oggetto di accertamento anche
d’ufficio, se ritualmente acquisita in giudizio ad iniziativa
di una qualsiasi delle parti, la ricorrente lamenta il mancato
esercizio del potere di assunzione di informazioni ex art.213
c.p.c. da parte della Corte territoriale, pur investita della
relativa istanza.

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Tali motivi risultano del tutto generici e astratti (così come,
peraltro, i relativi quesiti conclusivi formulati ex art. 366
bis applicabile ratione temporis, cfr fra le altre Cass.
12954/2012,
15461/2012,
1211/2013,
2615/2012,
n.2499/12,
3819/2013, 18735/2013), oltre che inammissibili.
Posto, infatti, che la impugnata sentenza ha condannato la
società al pagamento delle retribuzioni omesse dalla data di
messa in mora (tentativo obbligatorio di conciliazione), la
ricorrente censura tale decisione in modo assolutamente
generico, senza riportare il testo dell’atto che, secondo il
suo assunto, non avrebbe integrato la offerta della
prestazione e la messa in mora.
perceptum,
all’aliunde
censura
attinente
alla
Quanto
parimenti, va espresso un giudizio di genericità e di carenza
di autosufficienza, non essendo riportati i termini con i
quali la società abbia allegato davanti ai giudici di merito
detta circostanza ed avanzato la richiesta di esibizione di
documentazione reddituale inerente ad epoca successiva alla
scadenza del contratto di lavoro inter partes.
Così risultati inammissibili gli ultimi due motivi riguardanti
le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure
potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius
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superveniens, rappresentato dall’art.32, commi 5 , 6 ° e 7 °
della legge 4 novembre 2010 n. 183.
Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato,
in via di principio, costituisce condizione necessaria per
poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens
che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova
disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima
sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto
di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo
di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici
motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 272-2004 n. 4070).
In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso
che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla
disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia
altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra
le altre Cass. 4-1-2011 n. 80).
Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.
Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente, in ragione
della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese
inerenti al presente giudizio in favore della D’Aubert,
liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

la ricorrente al
La Corte rigetta il ricorso. Condanna
pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro
3.500,00 per compensi professionali ed euro 100,00 per esborsi,
oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma il 23 settembre 2015.

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