Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22148 del 14/10/2020

Cassazione civile sez. VI, 14/10/2020, (ud. 23/09/2020, dep. 14/10/2020), n.22148

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1494-2019 proposto da:

S.C.J., S.M., S.A., domiciliati

in ROMA presso la Cancelleria della Corte di Cassazione e

rappresentati e difesi dall’avvocato CIRO GAUDINO giusta procura in

calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

S.D., INTESA SAN PAOLO SPA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2451/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 28/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

23/09/2020 dal Consigliere Dott. CRISCUOLO MAURO.

 

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

Gli odierni ricorrenti convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Napoli- sezione distaccata di Portici – S.D., deducendo di essere proprietari per la quota di 1/6 pro capite di un terreno in (OMISSIS) con soprastante capannone, la cui residua proprietà apparteneva al convenuto.

Chiedevano quindi procedersi allo scioglimento della comunione anche mediante vendita all’incanto, ove il bene fosse stato considerato non comodamente divisibile.

Si costituiva il convenuto che non si opponeva alla divisione ed in via riconvenzionale chiedeva il rimborso delle spese sostenute per i beni indivisi.

Disposta l’integrazione del contraddittorio nei confronti delle banche che avevano iscritto ipoteca sugli immobili, all’esito dell’istruttoria, il giudice adito con la sentenza n. 163 del 20 luglio 2007 accoglieva la domanda attorea e procedeva allo scioglimento della comunione secondo il progetto A redatto dal CTU, con la previsione dei relativi conguagli e con la condanna al versamento delle somme compensative dei frutti goduti in esclusiva dal convenuto; infine rigettava la domanda riconvenzionale del convenuto.

Avverso tale sentenza proponeva appello S.D., cui resistevano gli attori, concludendo per il rigetto del gravame.

La Corte d’Appello di Napoli con la sentenza n. 2451 del 28/5/2018 accoglieva l’appello per quanto di ragione e per l’effetto, in totale riforma dell’impugnata sentenza, rigettava la domanda di divisione per indivisibilità del bene oggetto di comunione, stante la sua illegittimità urbanistico-amministrativa; condannava gli appellati al rimborso in favore della controparte delle spese del doppio grado, come liquidate in dispositivo.

Dopo avere disatteso la questione sollevata dall’appellante circa la necessità che al giudizio dovesse partecipare anche il coniuge, in quanto comproprietario dei beni, mancando la prova che effettivamente lo stesso avesse potuto fruire dell’acquisto per effetto del regime della comunione legale, disattendeva il primo motivo, evidenziando che, ancorchè il giudice di primo grado avesse erroneamente affermato che la comunione esistente tra le parti aveva natura ereditaria, trattandosi invece pacificamente di una comunione ordinaria, tuttavia tale errore non aveva avuto concrete ripercussioni sulla individuazione delle norme effettivamente applicabili alla fattispecie, atteso il rinvio che il codice prevede per la comunione ordinaria alle norme in tema di comunione ereditaria, ove ritenute compatibili.

Quindi passava ad esaminare il terzo motivo di appello che investiva la questione della commerciabilità dei beni sotto il profilo della loro legittimità urbanistica.

I giudici di appello osservavano che esistevano numerose e significative difformità tra il bene in concreto realizzato e quello invece assentito dal Comune di Ercolano, tutte analiticamente riportate alle pagg. 10 e 11 della sentenza d’appello, le quali erano state evidenziate anche dall’ausiliario d’ufficio e che rendevano il bene insuscettibile di divisione a norma del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 46.

L’incommerciabilità di parti rilevanti e significative dei beni comuni incidevano quindi sulla complessiva divisibilità della massa, dovendosi pervenire al rigetto della domanda di scioglimento della comunione.

Una volta riscontrata la non divisibilità dei beni, andava anche disattesa la domanda di rendiconto avanzata dagli attori nei confronti del convenuto, in quanto unico possessore del capannone edificato sul terreno in comunione, e ciò anche perchè non risultava che in primo grado fosse stata avanzata apposita domanda, dovendosi escludere che la richiesta di rendiconto, ancorchè correlata alla comunione dei beni, sia automaticamente conseguenza della richiesta di procedere alla divisione.

Infine, poneva le spese del doppio grado a carico degli appellati, alla luce del principio della soccombenza.

Avverso tale sentenza S.C.J., S.A. e S.M. propongono ricorso sulla base di quattro motivi.

Gli intimati non hanno svolto difese in questa fase.

Il primo motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 in relazione all’art. 132 c.p.c., n. 1.

Si deduce che la pronuncia gravata non contiene nell’intestazione l’indicazione del giudice che l’ha emessa, in quanto non reca l’indicazione nè dell’ufficio giudiziario nè della sezione alla quale apparteneva il Collegio che ha emesso la sentenza.

Il motivo è inammissibile ex art. 360 bis c.p.c., comma 1, n. 1.

Occorre, infatti, richiamare la giurisprudenza di questa Corte che ha reiteratamente affermato (Cass. n. 24538/2009) che l’art. 132 c.p.c., stabilendo che la sentenza deve contenere l’indicazione del giudice che l’ha pronunciata, non impone, al riguardo, che l’esatta collocazione territoriale del giudice nella struttura organizzativa dell’autorità giudiziaria ordinaria risulti già nell’intestazione della sentenza, essendo sufficiente che dal contesto dell’atto risulti comunque tale indicazione, in modo tale da non ingenerare incertezza alcuna in ordine alla provenienza della pronuncia. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza impugnata con cui si era ritenuto che la specificazione della circoscrizione del tribunale decidente, mancante nella intestazione della sentenza, era comunque chiaramente desumibile dalla indicazione della località di pubblicazione della decisione, sicchè la denunciata omissione non era tale da ingenerare un reale vizio cognitivo). In senso conforme si veda anche Cass. n. 3132/2002 nonchè Cass. n. 3629/1981 che ha ritenuto che l’individuazione del giudice, omessa nell’intestazione della sentenza, fosse possibile attraverso le conclusioni dell’appellato, trascritte nella sentenza e menzionanti espressamente la corte di appello di Perugia quale organo cui le conclusioni stesse erano dirette, l’espressa menzione della ‘cortè nel dispositivo e l’indicazione della città accanto alla data.

Tornando al caso in esame, è pur vero che l’intestazione non reca l’indicazione dell’ufficio giudiziario che ha emesso la sentenza nè la sezione di appartenenza, ma a pag. 16 nel PQM si rinviene la precisazione che la pronuncia è emessa dalla Corte d’Appello di Napoli sez. VI civile.

Nè infine può rilevare quanto dedotto in motivo dai ricorrenti circa il fatto che la causa sarebbe stata assegnata alla II sezione civile della detta Corte d’Appello, e non alla VI sezione civile che si è invece pronunciata, trattandosi di questione che afferisce al mero riparto interno degli affari e che ben potrebbe invece essere riconducibile ad un’eventuale successiva riorganizzazione dell’ufficio, rispetto alla data di incardinamento del giudizio di appello.

Il secondo motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. in quanto i giudici di appello in violazione del divieto di nova in appello avrebbero esaminato la questione della incommerciabilità dei beni in comunione, che non era stata mai posta dal convenuto nel corso del giudizio di primo grado.

Anche tale motivo deve essere dichiarato inammissibile in ai sensi del richiamato art. 360 bis c.p.c., n. 1.

La verifica circa la commerciabilità dei beni in relazione alle loro condizioni urbanistiche, incidendo sulla stessa validità dell’atto di divisione (nella specie trattasi di beni facenti parte di una comunione ordinaria, per la quale non si è dubitato dell’applicabilità dei limiti alla commerciabilità scaturenti dall’illegittimità urbanistica, conclusione ormai estesa anche alle comunioni ereditarie a seguito dell’intervento delle Sezioni Unite con la sentenza n. 25021/2019) rientra tra quelle dovute d’ufficio da parte del giudice, partecipando in tal modo della natura officiosa del rilievo della nullità.

La legittimità urbanistica dei beni costituisce a ben vedere un fatto costitutivo della pretesa del condividente ad ottenere lo scioglimento della comunione (in tal senso sempre Cass. S.U. n. 25021/2019), sicchè, in presenza di una controversia che in primo grado aveva visto le parti contrapposte in ordine alla possibilità di procedere alla divisone, la deduzione in appello della natura abusiva dei beni, con caratteristiche ostative alla valida fattibilità di una divisone in natura, non può ritenersi costituire un’eccezione in senso stretto, come tale preclusa dal dettato dell’art. 345 c.p.c., ma una semplice sollecitazione al giudice di riscontro degli elementi costitutivi della pretesa dedotta in giudizio.

Peraltro, la valutazione del giudice di appello in merito alla effettiva ricorrenza di una condizione di incommerciabilità dei beni, sulla quale la sentenza impugnata si è lungamente diffusa e senza che le conclusioni raggiunte siano contestate da parte dei ricorrenti, a differenza di quanto dedotto nel motivo, non appaiono fondate esclusivamente su documentazione nuova, ma trovano giustificazione negli stessi rilievi compiuti dal CTU nominato in primo grado.

In tal senso consta quanto riportato a pag. 11 della sentenza d’appello, nella parte in cui si richiamano i rilievi già svolti dal CTU, quanto alla non corrispondenza tra il capannone edificato e quanto previsto nella licenza edilizia, aggiungendosi poi a pag. 12 che lo stesso CTU, atteso “il vano esito delle ricerche tese a reperire gli estremi identificativi di eventuali ulteriori e successive pratiche relative al capannone che avessero giustificato la legittimità urbanistica, aveva concluso riferendo che il capannone non possedeva tutti i requisiti atti a garantirne la legittimità urbanistica e a consentirne la commerciabilità….”.

Il terzo motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e art. 324 c.p.c..

Si rileva che la sentenza del Tribunale era pervenuta al rigetto della domanda riconvenzionale spiegata dal convenuto, laddove invece la Corte d’Appello ha provveduto all’integrale riforma della stessa sentenza, travolgendo in tal modo anche il giudicato formatosi sul rigetto della domanda riconvenzionale, che non era stato attinto dai motivi di appello.

Il motivo è inammissibile in quanto non si confronta con l’effettivo contenuto della sentenza gravata.

Pur essendo corretto il rilievo di parte ricorrente secondo cui, in presenza di plurime statuizioni sulle varie domande avanzate nel corso di un giudizio, ove alcune di esse non siano interessate dalla proposizione dei mezzi di impugnazione sono destinate a divenire irrevocabili, favorendo in tal modo la progressiva formazione della cosa giudicata, e pur condividendosi quindi che effettivamente il rigetto della domanda riconvenzionale non era stato interessato dai motivi di appello, va tuttavia ritenuto che il tenore della sentenza gravata non risulta idoneo a porre nel nulla il detto giudicato.

In tal senso rileva la stessa formulazione del dispositivo della Corte distrettuale che al capo 1), dopo avere premesso che l’appello era accolto per quanto di ragione (e quindi nei limiti di quanto devoluto tramite i motivi di appello), ha altresì precisato che la riforma integrale della sentenza impugnata concerneva la sola decisione in punto di divisione del bene, avendo, infatti, fatto seguire all’affermazione circa la riforma, la nuova statuizione di merito, destinata a sostituire quella del giudice di prime cure, con la quale si addiveniva al rigetto della domanda di divisione, attesa l’incommerciabilità dei beni in comunione.

Il quarto motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., nella parte in cui sono state poste le spese di lite interamente a carico dei ricorrenti senza tenere in debita considerazione la parziale soccombenza del convenuto che aveva visto rigettata la domanda riconvenzionale avanzata in primo grado nonchè la richiesta di compensazione delle spese di CTU.

Anche tale motivo deve essere dichiarato inammissibile in quanto attinge una valutazione discrezionale riservata al giudice di merito.

Costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui (cfr. Cass. n. 30952/2017) la valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, che resta sottratto al sindacato di legittimità, non essendo egli tenuto a rispettare un’esatta proporzionalità fra la domanda accolta e la misura delle spese poste a carico del soccombente (conf. Cass. n. 2149/2014).

Pertanto (cfr. Cass. n. 24502/2017) il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi (conf. Cass. n. 8421/2017).

Nella fattispecie deve ritenersi che la decisione del giudice di appello, di porre le spese unicamente a carico delle originarie parti attrici, si fondi su di una, quanto meno implicita, valutazione di prevalenza della loro soccombenza, stante il rigetto della domanda principale di divisione e la valutazione di inammissibilità della domanda di rendiconto, a fronte del rigetto della domanda riconvenzionale, valutazione che è insuscettibile di sindacato da parte di questa Corte, essendo stato rispettato il limite costituito dall’impossibilità di porre le spese a carico della parte interamente vittoriosa.

Quanto, invece, alla deduzione secondo cui gli attori avrebbero interamente corrisposto le spese di CTU, il cui rimborso parziale sarebbe stato invece precisato in favore del convenuto, trattasi di questione che appare suscettibile di trovare risoluzione eventualmente in sede esecutiva, atteso che il diritto al rimborso di tali spese presuppone evidentemente la dimostrazione da parte del convenuto dell’effettivo esborso, ben potendo quindi i ricorrenti opporre, all’eventuale pretesa della controparte di esigere anche tale somma, di avere già loro integralmente provveduto al soddisfacimento delle pretese economiche dell’ausiliario d’ufficio.

Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile.

Nulla per le spese atteso che gli intimati non hanno svolto attività difensiva.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

Dichiara il ricorso inammissibile;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, art. 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 23 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2020

 

 

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