Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22140 del 29/10/2015


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Civile Sent. Sez. L Num. 22140 Anno 2015
Presidente: ROSELLI FEDERICO
Relatore: DE MARINIS NICOLA

SENTENZA

sul ricorso 10292-2010 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona
del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA PO 25-B, presso lo studio
dell’avvocato ROBERTO PESSI, che la rappresenta e
difende giusta delega in atti;
– ricorrente –

2015
contro

3205

LONGO SONIA C.F. LNGSNO67T44G843N, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo
studio

dell’avvocato

SERGIO

VACIRCA,

che

la

Data pubblicazione: 29/10/2015

ir iminiii~1

:

rappresenta e difende unitamente all’avvocato CLAUDIO
E

LALLI giusta delega in atti;
– controricorrente

..

avverso la sentenza n.

1318/2009 della CORTE

D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 14/10/2009 R.G.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 09/07/2015 dal Consigliere Dott. NICOLA
DE MARINTS;
udito l’Avvocato ANNA BUTTAFOCO per delega verbale
ROBERTO PESSI;
udito l’Avvocato SERGIO VACIRCA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. FRANCESCA CERONI, che ha concluso per
l’accoglimento del 3 0 motivo del ricorso.

t

N. 1056/2007;

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 14 ottobre 2009, la Corte d’Appello di Firenze, in parziale riforma della
decisione del Tribunale di Pisa, accoglieva la domanda proposta da Sonia Longo nei
confronti di Poste Italiane S.p.A. avente ad oggetto la declaratoria della nullità
dell’apposizione del termine ai tre contratti stipulati tra le parti rispettivamente in data
30.11.1997, 9.10.1998 e 16.2.1999, tutti in relazione a “esigenze eccezionali conseguenti

ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi di sperimentazione di
nuovi servizi ed in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio
delle risorse umane” ai sensi della previsione di cui all’art. 8 del CCNL 26.11.1994, come
integrato dall’accordo aziendale del 25.9.1997, tuttavia con esclusione del primo contratto
condannando, pertanto, la Società a riammettere in servizio la Longo a decorrere dal
9.10.1998 e a corrispondergli le retribuzioni omesse dalla data di costituzione in mora,
ritenuta coincidente con quella di svolgimento del tentativo obbligatorio di conciliazione.
La decisione della Corte territoriale discende dall’aver questa ritenuto infondata
l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso ed illecita la causale invocata
nel secondo contratto per l’insussistenza, successivamente al termine del 30 aprile 1998, di
accordi collettivi autorizzatori, ex art. 23, 1. n. 56/1987, di nuove ipotesi di legittima
apposizione di termini di durata ai rapporti di lavoro instaurati dalla Società.
Per la cassazione di tale decisione ricorre Poste Italiane S.p.A., affidando l’impugnazione a
quattro motivi cui resiste, con controricorso, la Longo.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso, nel denunciare la violazione e falsa applicazione degli artt.
1362 e 1363 c.c. in relazione alle disposizioni di cui all’art. 8 del CCNL 26.11.1994 e ai
successivi accordi sindacali di questo integrativi e/o modificativi, nonché di omessa,
insufficiente e/o contraddittoria motivazione in ordine ad un fatto controverso decisivo per
il giudizio,censura l’impugnata sentenza per essere la Corte territoriale addivenuta alla
declaratoria di nullità del termine apposto al contratto de quo sulla base di un vizio, l’essere
venuta meno l’efficacia temporale dell’accordo del 25.9.1997 recante la specifica causale
giustificativa indicata nel predetto contratto, in effetti insussistente dovendosi ritenere
erronea, perché solo apparentemente fondata sulla lettera degli accordi attuativi dell’intesa
del 25.9.1997 ma in realtà irrispettosa degli ulteriori canoni ermeneutici di cui all’art. 1362

c.c. ed, in particolare, di quello riferito al comportamento anche successivo tenuto dalle
parti nell’esecuzione del contratto, l’interpretazione data dalla Corte territoriale secondo cui

alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso ed in

i accordi sarebbero valsi, piuttosto che ad esprimere una presa d’atto delle parti sindacali
circa la permanenza in ambito delle esigenze originariamente individuate, ai sensi dell’art.
23 1. n. 5611987, come legittimanti le assunzioni a termine, a fissare termini di scadenza
limitativi di quella facoltà.
Il suesposto motivo non merita accoglimento
Osserva il Collegio che la Corte di merito ha attribuito rilievo decisivo alla considerazione
che il contratto in esame è stato stipulato, per esigenze eccezionali …

ai sensi dell’art. 8

del ceni del 1994, come integrato dall’accordo aziendale 25 settembre 1997 – in data
successiva al 30 aprile 1998.
Tale considerazione – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa
Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al ceni del 2001 ed al digs. n. 368
del 2001) – è sufficiente a sostenere l’impugnata decisione, in relazione alla nullità del
termine apposto al contratto de qua.
Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato che “l’attribuzione
alla contrattazione collettiva, ex art. 23 della legge n. 56 del 1987, del potere di definire
nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla legge n. 230 del 1962,
discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali
sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace
salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale
di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e
prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra
contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive
dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al
datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n.
21063, v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n.
14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei contratti collettivi e
dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di
ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul
medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa
delineato.” (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).
In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto
dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo) la sua
inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre
Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).

z

In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e come va anche qui
t

ribadito, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale
del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il
successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto
di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione
giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli
assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue

che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998,
per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della
trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge
18 aprile 1962 n. 230” (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608; Cass. 28-11-2008 n.
28450; Cass. 4-8-2008 n- 21062; Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).
Con il secondo motivo la Società ricorrente, denunciando il vizio di violazione e falsa
applicazione degli artt. 1372, comma 1 e 2, c.c., nonché il vizio di omessa„ insufficiente
e/o contraddittoria motivazione su un fatto controverso decisivo per il giudizio in relazione
al comportamento tenuto dall’intimata successivamente alla cessazione del rapporto di
lavoro, lamenta l’erroneità della statuizione con cui la Corte territoriale escludeva essersi
determinata nella specie la risoluzione del rapporto inter partes per mutuo consenso,
avendo questa ritenuto che, pur potendo il decorso del tempo riflettere l’inerzia del
lavoratore significativa di una volontà dismissiva del rapporto, è tuttavia necessario a tal
fine che tale inerzia sia consapevole e libera ovvero non condizionata, evenienza non
riscontrabile nella specie attesa la riconducibilità dell’inerzia del lavoratore alla fiduciosa
aspettativa di una futura assunzione definitiva o ancora a termine che assumeva altrimenti
fi-ustrata anche in relazione alla volontà esplicitata dalla Società in una propria circolare, di
non dar corso ad ulteriori rapporti con quanti avessero avviato un contenzioso nei confronti
della stessa.
Il motivo è infondato.
Come questa Corte ha più volte affermato “nel giudizio instaurato ai fini del
riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul
presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto,
affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario

che sia accertata — sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo
contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze
significative — una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre

3

definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 289-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, nonché da ultimo Cass. 18-11-2010 n. 23319,
Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8-2011 n. 16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la
scadenza del contratto a termine, quindi, “è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una
risoluzione del rapporto per mutuo consenso” (v. da ultimo Cass. 15-11-2010 n. 23057,
Cass. 11-3-2011 n. 5887), mentre “grava sul datore di lavoro”, che eccepisca tale
risoluzione, “l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e
certa delle parti di volere porre defmitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 212-2002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass. 1-2-2010 n. 2279, Cass. 15-11-2010 n.
23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887).
Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli art. 1372 e 1321 c.c., va ribadito
anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo prevalente ormai consolidato, basato
in sostanza sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto,
idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla
risoluzione del rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo
e neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto. Al riguardo,
infatti, non può condividersi il diverso indirizzo che, valorizzando esclusivamente il “piano
oggettivo” nel quadro di una presupposta valutazione sociale “tipica” (v. Cass. 6-7-2007 n.
15264 e da ultimo Cass. 5-6-2013 n. 14209), prescinde del tutto dal presupposto che la
risoluzione per mutuo consenso tacito costituisce pur sempre una manifestazione negoziale,
anche se tacita.
Orbene nella fattispecie la Corte di merito, dopo aver ritenuto irrilevante di per sé il tempo
trascorso, ha congruamente motivato in relazione all’inconfigurabilità nella specie di
un’inerzia espressiva di una volontà dismissiva del rapporto derivandone l’inconsistenza
della tesi della risoluzione per mutuo consenso tacito.
Inammissibile deve viceversa ritenersi il terzo motivo, inteso a denunciare la violazione e
falsa applicazione degli artt. 210 e 421 c.p.c. nonché la nullità del procedimento, giacché le
formulate censure prescindono del tutto, addebitando addirittura un vizio di omessa
motivazione, in realtà non riscontrabile, dalla confutazione delle ragioni in base alle quali
la Corte territoriale ha ritenuto la genericità dell’eccezione relativa all’aliunde perceptum,
ragioni che correttamente attengono alla mancata acquisizione al giudizio di elementi utili a
sostenere l’eccezione medesima ed a rendere ammissibile l’accertamento istruttorio anche
valendosi dei propri poteri d’ufficio.

Non sussistendo un valido motivo di impugnazione in punto di liquidazione del
risarcimento non ricorrono le condizioni per l’ingresso nel presente giudizio di legittimità
dello ius superveniens invocato da Poste Italiane nella memoria ex art. 378 c.p.c. e
rappresentato dall’art. 32, commi 5, 6 e 7 della legge 4 novembre 2010, n. 183.
Infatti, come questa Corte ha avuto occasione di rilevare in analoghe controversie, per poter
applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto con efficacia
quest’ultima sia pertinente alle questioni oggetto di censura e che il motivo investa, sia pur
indirettamente, il tema coinvolto nella disciplina sopravvenuta, ma il motivo medesimo sia
altresì ammissibile secondo la normativa sua propria (v. fra le tante Cass. 17 marzo 2014,
n. 6101, Cass. 10 ottobre 2012, n. 16642, Cass. 28 giugno 2012, n. 10899)
Il ricorso va dunque rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente
giudizio di legittimità che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 3.500,00 per compensi
oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 9 luglio 2015
Il Consigliere est.

Il Presidente

retroattiva una nuova disciplina del rapporto controverso è necessario non solo che

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