Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22116 del 04/09/2019

Cassazione civile sez. VI, 04/09/2019, (ud. 07/05/2019, dep. 04/09/2019), n.22116

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23595-2018 proposto da:

S.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA EMILIO FAA’ DI

BRUNO 15, presso lo studio dell’avvocato MARTA DI TULLIO che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 307/2018 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 03/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 07/05/2019 dal Consigliere Relatore Dott. EDUARDO

CAMPESE.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ordinanza ex artt. 702-bis e ss. c.p.c. resa il 15 luglio 2017, il Tribunale di Perugia confermò il provvedimento reiettivo delle istanze di protezione – internazionale ed umanitaria emesso dalla competente Commissione Territoriale nei confronti del cittadino pakistano S.S., ed il gravame proposto da quest’ultimo contro tale decisione venne respinto dalla corte di appello della medesima città, con sentenza del 3 maggio 2018, n. 307, pronunciata ex art. 281-sexies c.p.c., la quale: i) ritenne che, al di là della credibilità delle sue dichiarazioni, la vicenda da lui narrata non integrasse gli elementi per poter ritenere sussistenti i presupposti della protezione internazionale, nè sotto il profilo del riconoscimento dello status di rifugiato nè sotto quello della protezione sussidiaria. Si era infatti, in presenza di una vicenda personale (lui, di fede sunnita, si era innamorato di una ragazza sciita, per cui si era convertito alla sua fede e l’aveva sposata all’insaputa dei genitori, i quali, però, una volta scoperto il matrimonio, lo avevano cacciato di casa, costringendolo ad andare a vivere con i suoceri. Successivamente, aveva subito un’aggressione, per vendetta, da ragazzi di fede sunnita) con riguardo alla quale il ricorrente non aveva spiegato il motivo per cui non aveva chiesto l’aiuto delle forze di polizia per tutelarsi dai suoi aggressori; ii) considerò che mai lo S. aveva dedotto la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c); iii) giudicò insussistenti i presupposti per la concessione della protezione umanitaria.

2. Contro la descritta sentenza S.S. propone ricorso per cassazione, affidato a sette motivi, mentre il Ministero dell’Interno non ha svolto difese in questa sede.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Le formulate doglianze prospettano, rispettivamente:

I) la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, per non essere state acquisite e valutate le informazioni circa la situazione del Paese di provenienza dell’appellante;

II) la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 17 e art. 2, lett. g), per avere la corte territoriale ritenuto insussistente, per il ricorrente, il rischio di subire un grave danno in caso di rientro nel suo Paese;

III) la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, lett. j), per essere la corte perugina venuta meno al suo obbligo di cooperazione istruttoria nel disattendere la domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria;

IV) la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 15, commi 1 e 2, artt. 16 e 17, per la inesistenza delle cause di esclusione della protezione sussidiaria alla luce dei principi costituzionali e della giustizia Europea;

V) la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e del D.Lgs. n. 251 del 2008, art. 32, comma 3, in relazione al mancato riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari;

VI) la violazione dell’art. 3 Cost.;

VII) l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per non essersi la corte distrettuale minimamente pronunciata sui principi in tema di prova sanciti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3.

2. Gli esposti motivi sono suscettibili di una trattazione congiunta, atteso che quelli recanti violazioni legge sono tutti parzialmente affetti dal medesimo vizio di inammissibilità, per difetto di specificità, rivelandosi, per il resto, infondati, così come il settimo motivo, che lamenta un vizio motivazionale, alla stregua di argomentazioni comuni.

2.1. Invero, va immediatamente ricordato che costituisce principio pacifico quello secondo cui il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione. Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di errori di diritto individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati attraverso una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non tramite la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (cfr., ex multis, Cass. n. 24298 del 2016; Cass. n. 5353 del 2007).

2.1.1. Nella specie, invece, le diverse censure rappresentate nei primi sei motivi si risolvono, in larghissima parte, nella generica indicazione di alcune disposizioni di legge che si assumono violate, senza una precisa identificazione delle affermazioni in diritto della sentenza impugnata che si assumono contrastanti con le norme regolatrici della fattispecie (spesso si tratta, addirittura, di argomentazioni prive di collegamento con la effettiva ratio decidendi esposta dalla corte perugina) e senza l’illustrazione di motivate ragioni dell’ipotizzato contrasto e, quindi, in una mera ed apodittica contrapposizione delle tesi del ricorrente a quelle desumibili dalla sentenza impugnata.

2.2. Inoltre, le uniche argomentazioni difensive svolte tendono, sostanzialmente, ad una riconsiderazione della situazione imperversante nel contesto di origine del richiedente, recando valutazioni che, impingendo nel merito, sono inammissibili nel giudizio di legittimità, che non può essere surrettiziamente trasformato in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonchè la più recente Cass. n. 8758 del 2017).

2.2.1. Dette argomentazioni, infatti, investono la mancata acquisizione di informazioni sulla situazione socio-politica-economica del Paese di provenienza del ricorrente, la valutazione di non credibilità delle dichiarazioni di quest’ultimo (su cui la corte distrettuale non ha, in verità, specificamente sollevato ragioni di dubbio), ritenuta espressione di un giudizio soggettivo ed arbitrario, non fondato su elementi oggettivi, il non essersi applicati i principi sull’onere della prova affermati costantemente dalla giurisprudenza sovranazionale e di legittimità con riferimento alla materia della protezione internazionale.

2.2.2. Rileva, però, il Collegio che l’argomentare dello S. in tema di valutazione della credibilità delle sue dichiarazioni è assolutamente irrilevante, posto che, come si è anticipato, la corte a quo non l’ha espressamente e specificamente disconosciuta, avendo negato la invocata protezione – status di rifugiato e protezione sussidiaria – sul duplice presupposto che si era in presenza di una mera vicenda personale del ricorrente, il quale, peraltro, nemmeno aveva dedotto la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. t). Le doglianze concernenti quest’ultima, dunque, sono inammissibilmente incentrate su un (generico) riferimento alla situazione asseritamente legittimante la relativa richiesta – la minaccia grave ed individuale alla vita derivante da violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato – che, in base alla sentenza, non risulta posta a fondamento della domanda; nè il contrario traspare dal ricorso, volta che in esso non sono riportati i tratti salienti dei ricorsi avanzati dinanzi ai giudici di merito (in primo grado ed in appello). A tanto deve, allora, solo aggiungersi che, come recentemente sancito da Cass. n. 30105 del 2018, il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, nel prevedere che “ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati…”, deve essere interpretato nel senso che l’obbligo di acquisizione di tali informazioni da parte delle Commissioni territoriali e del giudice deve essere osservato in diretto riferimento ai fatti esposti ed ai motivi svolti in seno alla richiesta di protezione internazionale, non potendo, per contro, addebitarsi la mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi, in ordine alla ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione, riferita a circostanze non dedotte.

2.2.3. Circa, infine, la invocata protezione umanitaria, va esclusivamente rimarcato che la corte perugina ha affermato non essere state dedotte gravi ragioni di protezione o situazioni soggettive specifiche, e che questa Corte ha già avuto occasione di chiarire, nella recente sentenza n. 4455 del 2018 (successivamente riaffermandolo in Cass. n. 17072 del 2018 ed in Cass. n. 22979 del 2018), che, se assunto isolatamente, il contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani nel Paese di provenienza non integra, di per sè solo ed astrattamente considerato, i seri motivi di carattere umanitario, o derivanti da obblighi internazionali o costituzionali, cui la legge subordina il riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria, in quanto “il diritto al rispetto della vita privata – tutelato dall’art. 8 CEDU (…) può soffrire ingerenze legittime da parte dei pubblici poteri per il perseguimento di interessi statuali contrapposti, quali, tra gli altri, l’applicazione ed il rispetto delle leggi in materia di immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero (…) non goda di uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che venga definita la sua domanda di determinazione dello status di protezione internazionale (cfr. Corte EDU, cent. 08.04.2008, ric. 21878/06, caso Nnyan.zi c. Regno Unito, par. 72 ss.)”.

2.3. Miglior sorte, infine, nemmeno toccherebbe alla richiesta di protezione umanitaria alla stregua del testo del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, come recentemente novellato dal D.L. n. 113 del 2018, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 132 del 2018, non recando la prospettazione del corrispondente motivo di ricorso alcun riferimento alle specifiche previsioni di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 19, commi 1 e 1.1, come modificato dal citato D.L. n. 113 del 2018.

3. Il ricorso, dunque, andrebbe respinto, senza necessità di pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità, essendo il Ministero dell’Interno rimasto solo intimato, altresì rilevandosi che, risultando, dagli atti, l’avvenuta ammissione del ricorrente al patrocinio a spese dello Stato, non trova applicazione il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 7 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 settembre 2019

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