Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22110 del 03/08/2021

Cassazione civile sez. trib., 03/08/2021, (ud. 14/04/2021, dep. 03/08/2021), n.22110

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Presidente –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 29021/2015 R.G. proposto da:

C.D.M. di D.R.M. & C. Sas, in persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli Avvocati

Antonio Cornelia e Carla Cornelia, in virtù di procura speciale in

calce al ricorso ed elettivamente domiciliato in Roma, nel viale

Parioli n. 44, presso lo studio dell’Avv. Paolo Mazzoli;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI n. 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6692/23/2015 della Commissione Tributaria

Regionale della Campania, depositata in data 3 luglio 2015;

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 14 aprile

2021 dal Consigliere Dott. Grazia Corradini.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 484/2/2013 la Commissione Tributaria Provinciale di Caserta accolse il ricorso proposto dalla Sas C.D.M. n. di D.R.M. & C. contro l’accertamento emesso dalla Agenzia delle Entrate per l’anno di imposta 2007, ai fini IRAP, IVA ed IRPEF, con il quale erano stati dichiarati indeducibili i costi di ristrutturazione di un immobile aziendale, derivanti da otto fatture di diverse ditte, ritenuti, in parte, non inerenti ovvero rappresentati da fatture del tutto generiche ed, in parte, inesistenti e non veritieri, in considerazione della non rintracciabilità del presunto fornitore nella banca dati dell’anagrafe tributaria (fattura n. (OMISSIS) del 30.11.2007 emessa dalla ditta Lavic Stone), ovvero perché le fatture erano state disconosciute da parte del presunto prestatore dell’opera (fatture n. (OMISSIS) del 30.8.2007 e n. (OMISSIS) del 30.12.2007 della ditta CIMMI di G.C.) e dichiarò invece inammissibili i ricorsi riuniti proposti dai due soci D.R.M. e M.M. ai fini del reddito consequenziale di partecipazione perché depositati prima della decorrenza del termine di 90 giorni per il perfezionamento del procedimento di mediazione. La Commissione Tributaria Provinciale ritenne in proposito che la società C.D.M. avesse fornito la prova della esistenza delle fatture e che il mancato rispetto del termine dilatorio per il procedimento di mediazione determinasse la inammissibilità dei ricorsi.

Investita dall’appello della società e dei soci, nonché della Agenzia delle Entrate, per quanto di rispettiva soccombenza, la Commissione Tributaria Regionale della Campania, con sentenza n. 6692/23/2015, accolse l’appello dei soci e dichiarò quindi procedibile la loro azione alla luce della modifica legislativa di cui alla L. n. 147 del 2013, che aveva previsto il rinvio della trattazione in caso di deposito del ricorso prima del termine per il reclamo mediazione ed accolse altresì parzialmente l’appello della Agenzia, confermando in conseguenza l’atto di accertamento con riguardo alle fatture n. (OMISSIS) del 30.11.2007 emessa dalla ditta Lavic Stone e nn. (OMISSIS) del 30.8.2007 e (OMISSIS) del 30.12.2007 della ditta CIMMI di G.C., poiché, quanto alla prima, risultava emessa da fornitore inesistente, non risultante dalla banca dati della anagrafe tributaria e, quanto alle altre due, il titolare della ditta CIMMI aveva disconosciuto il timbro apposto sulle fatture e dichiarato di non avere mai emesso quelle fatture, che pertanto dovevano essere ritenute non veritiere, anche perché la società contribuente non aveva indicato l’esistenza di documentazione a supporto del pagamento delle prestazioni ricevute, né aveva indicato la tipologia di lavoro eseguito, il prezzo pattuito ed eventuali contratti o documentazione contabile o extracontabile relativi ad ogni singola prestazione.

Contro la sentenza di appello, depositata in data 3 luglio 2015, non notificata, ha presentato ricorso per cassazione la C.D.M. di D.R.M. & C. Sas, con atto notificato in data 15.12.2015, affidato a due motivi e successiva memoria illustrativa.

Resiste con controricorso la Agenzia delle Entrate.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la società contribuente lamenta violazione della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis, come sostituito dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, convertito dalla L. 26 aprile 2012, n. 44, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, poiché, trattandosi di operazioni solo soggettivamente inesistenti, in quanto oggettivamente provate in causa mediante perizia tecnica, la sentenza era illegittima per violazione della sopraindicata disposizione che era deducibile anche per la prima volta in sede di legittimità.

2. Con il secondo motivo deduce violazione dell’art. 115 c.p.c., e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, poiché era stata utilizzata quale fonte della decisione una presunta dichiarazione di C.G. risultante dal processo verbale di constatazione che non poteva avere valore di prova, trattandosi eventualmente di mero indizio privo dei requisiti di gravità, precisione e concordanza e doveva comunque essere provato, trattandosi di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, alla stregua della giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte di Giustizia, che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione si iscriveva in una evasione commessa dal soggetto emittente ed altrettanto valeva per la fattura della ditta Lavic Stone per la quale non poteva costituire una prova di falsità la inesistenza del fornitore nella banca dati dell’Anagrafe Tributaria a fronte delle prove documentali offerte dalla contribuente e della irrilevanza di un tale fatto.

3. Il ricorso è infondato.

4. La ricorrente assume, a fondamento di entrambi i motivi di ricorso, che si sarebbe in presenza di operazioni soggettivamente inesistenti e che quindi la sentenza impugnata sarebbe erronea in quanto non avrebbe applicato i principi giuridici relativi a tale tipologia di operazioni in base alla giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte di Giustizia. Però non risulta dalla sentenza impugnata, né da altro atto della causa menzionato o trascritto nel ricorso per cassazione o a tale ricorso allegato, che la contestazione della Agenzia delle Entrate, risultante dall’accertamento, avesse riguardato operazioni inesistenti soltanto soggettivamente per essere stata la prestazione eseguita da altro soggetto tramite un soggetto fittiziamente interposto; al contrario dalla sentenza impugnata risulta che l’accertamento aveva ritenuto indeducibili alcuni dei costi dichiarati come relativi ad una ristrutturazione di un immobile aziendale, in parte perché non inerenti ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, o perché la fattura descriveva in modo del tutto generico le prestazioni rese e per altra parte (e cioè per la parte ancora in contestazione in questa sede) perché non veritieri in quanto la ditta che li avrebbe eseguiti sarebbe stata sconosciuta alla anagrafe tributaria ovvero li avrebbe espressamente disconosciuti asserendo che le fatture erano false perché mai emesse dal soggetto all’apparenza emittente, il quale aveva altresì asserito che anche il timbro della ditta, risultante dalle fatture che gli erano state esibite, era falso.

5. La tesi delle fatture soltanto soggettivamente inesistenti, perché fondata su una pretesa diversità tra soggetto emittente e quello, diverso, che avrebbe eseguito le prestazioni, risulta quindi una tesi completamente nuova, mai rilevata nel giudizio di merito, come tale inammissibile in sede di ricorso per cassazione; tanto più che la ricorrente non ha indicato nel ricorso in quale sede e con quale atto del processo avrebbe rilevato la inesistenza soggettiva delle operazioni per avere la Agenzia delle Entrate contestato la indeducibilità delle fatture emesse da un concedente diverso dall’effettivo cedente del bene o servizio, con violazione, quindi, anche del principio di autosufficienza dei motivi di ricorso per cassazione.

6. D’altronde la sentenza impugnata, a pagina 3, ha dichiaratamente ritenuto che si trattasse di operazioni oggettivamente inesistenti per la parte rappresentata dalle tre fatture di cui si tratta, poiché, con argomentazione rafforzativa, ha rilevato che la società contribuente non aveva in alcun modo documentato la esistenza e la veridicità delle operazioni sottese alle fatture ritenute false, non avendo dimostrato il pagamento delle prestazioni ricevute e tanto meno documentato la tipologia del lavoro eseguito, il prezzo pattuito ed eventuali contratti o documenti contabili o extracontabili relativi ad ogni singola prestazione. E tale argomentazione non risulta in alcun modo contestata nel ricorso per cassazione il quale si limita ad affermare apoditticamente che si sarebbe trattato di operazioni solo soggettivamente inesistenti, come se si fosse trattato di un elemento pacifico in causa.

7. Ciò posto, i motivi dedotti dalla ricorrente sotto il profilo della violazione di legge sono infondati.

8. Quanto al primo motivo, con cui la ricorrente lamenta la violazione della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis, nella formulazione introdotta dal D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, poiché, in presenza di fatture soggettivamente inesistenti, i costi sarebbero deducibili e l’IVA detraibile anche in caso di fatture irregolari, si è già rilevato che i presupposti su cui il ricorrente costruisce la propria argomentazione non sono però condivisibili poiché la sentenza impugnata ha ritenuto i costi non veritieri sotto un profilo sostanziale ed oggettivo, per mancanza della prestazione, e non già sotto quello soggettivo.

8.1. Trattandosi di costi non veritieri, quindi, non era applicabile il citato art. 8, poiché, in materia di deducibilità dei costi d’impresa, la derivazione dei costi da una attività che è espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’attività dell’impresa, come in caso di operazioni oggettivamente inesistenti per mancanza del rapporto sottostante, comporta il venir meno dell’indefettibile requisito dell’inerenza tra i costi medesimi e l’attività imprenditoriale, inerenza che è onere del contribuente provare, al pari dell’effettiva sussistenza e del preciso ammontare dei costi medesimi; tale ultima prova non può, peraltro, consistere nella esibizione della fattura, in quanto espressione cartolare di operazioni commerciali mai realizzate, né nella sola dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, i quali vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (v. Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 33915 del 19/12/2019 Rv. 656602 – 01). Tanto più che nel caso in esame la sentenza impugnata ha espressamente affermato a pag. 3 che non vi era prova di ulteriore documentazione a supporto del pagamento e mancavano tutti gli elementi che potessero giustificare le singole prestazioni.

8.2. Ma se anche si fosse trattato di operazioni soggettivamente inesistenti, il principio di diritto invocato dalla ricorrente non sarebbe comunque applicabile in assoluto poiché la norma sopravvenuta, pur se pacificamente applicabile retroattivamente, consente all’acquirente, anche quando consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, di dedurre i costi di beni e servizi non utilizzati direttamente “al fine di commettere il reato”, ma per essere commercializzati, a meno che, tuttavia, non contrastino coi principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità (v. Cass., Sez. 5 -, Ordinanza n. 4645 del 21/02/2020 Rv. 657347 – 02), per cui sarebbe spettato alla ricorrente dimostrare nel giudizio di merito la effettività e la inerenza dei costi; il che, sulla base di un giudizio di fatto, non contestabile nel giudizio di legittimità, è stato escluso dalla sentenza impugnata.

8.3. Il principio di diritto invocato dalla ricorrente, pur se si fosse trattato di operazioni soggettivamente inesistenti, non sarebbe in ogni caso applicabile in materia di IVA sulla base della giurisprudenza consolidata di questa Corte per cui la L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis, nella formulazione introdotta dal D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, conv. in L. n. 44 del 2012, in tema d’IVA, preclude al cessionario dei beni ovvero all’acquirente di servizi il diritto alla detrazione nel caso di emissione di fatture per operazioni inesistenti anche solo sotto il profilo soggettivo, nonostante i beni siano entrati effettivamente nella disponibilità dell’impresa utilizzatrice, poiché l’indicazione mendace di uno dei soggetti del rapporto determina l’evasione del tributo relativo alla diversa operazione effettivamente realizzata tra altri soggetti (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 20060 del 07/10/2015 Rv. 636663 – 01).

9. Quanto al secondo motivo – con cui si sostiene, sempre sotto il profilo della violazione di legge, che le prove poste a fondamento della sentenza impugnata non erano tali in quanto meri indizi privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza ed in assenza della prova che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione si iscriveva in una evasione commessa dal soggetto emittente -, è consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio, al quale si ritiene di dare continuità in questa sede, per cui, in tema di IVA, ma anche di imposte sui redditi, una volta assolta da parte dell’Amministrazione finanziaria la prova dell’oggettiva inesistenza delle operazioni, spetta al contribuente, ai fini della detrazione dell’IVA e/o della deduzione dei relativi costi, provare (“effettiva esistenza delle operazioni contestate, senza che, tuttavia, tale onere possa ritenersi assolto con l’esibizione della fattura ovvero in ragione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, che vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (v., da ultimo, Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 17619 del 05/07/2018 Rv. 649610 – 01; Sez. 5 – Ordinanza n. 27554 del 30/10/2018 Rv. 651216 – 01). E’ stato altresì chiarito che l’onere della Amministrazione Finanziaria di provare che l’operazione non è mai stata posta in essere è assolto con la indicazione dei relativi elementi, anche in forma indiziaria o presuntiva (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 18118 del 14/09/2016 Rv. 641109 – 01) che il giudice tributario di merito, investito della controversia sulla legittimità e fondatezza dell’atto impositivo, è tenuto a valutare, singolarmente e complessivamente (v. Sez. 5, Sentenza n. 17977 del 24/07/2013 Rv. 628292 – 01); dal che risulta evidente che la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei principi giuridici che regolano la materia, avendo utilizzato le dichiarazioni del presunto emittente, raccolte nel pvc, che aveva disconosciuto le fatture ed il timbro apposto sulle stesse e la inesistenza, dalle risultanze della Anagrafe Tributaria, della ditta Lavic Stone (presunta emittente della terza fattura in contestazione), nonché la mancanza di qualsiasi documentazione contabile o extracontabile a supporto delle prestazioni e la mancata indicazione dei pretesi lavori eseguiti e del preteso prezzo pattuito, mentre, per converso la tesi della società ricorrente – la quale ha sostenuto che le dichiarazioni del terzo non sarebbero prova idonea e che la prova indiziaria richiesta dal citato art. 39, sarebbe priva dei requisiti di gravità precisione e concordanza perché mero rilevamento documentale mancante di riscontri – si pone in aperto contrasto con una elaborazione giurisprudenziale consolidata che ritiene che la prova delle operazioni inesistenti possa essere offerta con qualsiasi presunzione liberamente valutabile dal giudice.

9.1. In tema di imposte sui redditi delle imprese, il principio dell’inerenza e prima ancora della veridicità dei costi deducibili si ricava infatti dalla nozione di reddito d’impresa ed esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità (anche solo potenziale o indiretta). Peraltro, l’onere di provare e documentare l’imponibile maturato e dunque l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, quale atto d’impresa, grava sul contribuente (v., per tutte, Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 30366 del 21/11/2019 Rv. 655932 – 01), considerato che, secondo consolidato canone ermeneutico (cfr. Cass. nn. 21980/15, 21446/14, 24426/13, 9108/12, 5748/10), sia in tema di imposizione diretta sia in tema di Iva, la fattura costituisce elemento probatorio a favore dell’impresa solo se redatta in conformità ai requisiti di forma e di contenuto prescritti dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 21, ed idonea a rivelare compiutamente natura, qualità e quantità delle prestazioni attestate.

9.2. Deve, inoltre, ribadirsi che è altresì consolidato il principio, secondo cui, sia ai fini della deduzione dei costi in tema di imposte dirette sia ai fini di detrazione Iva, incombe sul contribuente l’onere di provare l’inerenza del bene o del servizio acquistato all’attività imprenditoriale, intesa come strumentalità del bene o del servizio all’esercizio dell’attività medesima (cfr. Cass. nn. 13300/17, 18475/16, 21184/14, 16853/13; Cass. n. 27777 del 2017). E’ vero che il principio sopra esposto, derivante da una elaborazione giurisprudenziale consolidata della Corte di cassazione integrante il cd. diritto vivente, deve essere letto in relazione a quello per cui in ipotesi di fatture che l’Amministrazione ritenga relative ad operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti, spetta alla Amministrazione l’onere di provare che l’operazione commerciale oggetto della fattura non è stata posta in essere. Tale prova, però, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), e art. 40, e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, comma 2, potrà essere fornita anche mediante presunzioni, nel qual caso, se provata presuntivamente la inesistenza, passerà sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, a norma dell’art. 2697 c.c., comma 2. Pertanto il giudice tributario, qualora ritenga gli elementi addotti dall’Amministrazione dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, deve passare a valutare la prova contraria offerta dal contribuente (v., per tutte, Cass. Sez. 5, Sentenza n. 9108 del 06/06/2012 Rv. 622993 – 01).

9.3. Orbene, nel caso in esame, con le argomentazioni plurime e concordanti sopra indicate, costituenti valutazioni in fatto non contestabili in sede di legittimità, la sentenza impugnata ha ritenuto che i costi non fossero reali in quanto le fatture mancavano degli elementi che ne consentissero la attribuzione al soggetto da cui all’apparenza provenivano, per cui la sentenza impugnata ha correttamente ritenuto che il disconoscimento delle fatture da parte dell’apparente emittente ovvero la inesistenza fiscale della ditta che le avrebbe emesse facesse venir meno la presunzione di veridicità di quanto rappresentato nelle stesse, ai fini della verifica del diritto alla detrazione del relativo costo, in assenza di eventuali altri documenti o informazioni complementari mai fornite dal soggetto passivo (v. Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 22940 del 26/09/2018 Rv. 650686 – 02). In tal modo i giudici del merito hanno fatto corretta applicazione della regola iuris discendente dall’art. 2697 c.c., per cui, secondo i principi di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (v., da ultimo, Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 26769 del 23/10/2018 Rv. 650892 – 01; Sez. 3 -, Sentenza n. 13395 del 29/05/2018 Rv. 649038 – 01) spettava alla Amministrazione fornire la prova della non veridicità dei costi, però alla stregua dei criteri indicati dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, propri dell’accertamento adottato nel caso in esame, che sono quelli presuntivi, di fronte ai quali incombeva al contribuente, proprio ex art. 2697 c.c., offrire la prova contraria.

9.4. In tale ambito l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (v., per tutte, Cass. Sez. 1 -, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019 Rv. 652549 – 02). Non sono perciò consentiti, come avvenuto nel caso concreto, i motivi di ricorso, pur formulati ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, che in realtà contestano invece la erronea valutazione delle prove da parte del giudice del merito per avere valorizzato argomentazioni e prove ritenuti inconsistenti dal ricorrente.

9.5. Sul punto la società ricorrente ha contestato il giudizio del giudice del merito sostenendo che si sarebbe trattato di un erroneo apprezzamento delle acquisizioni istruttorie, ma ciò non può certamente integrare il vizio di violazione di legge dedotto con il secondo motivo di ricorso poiché esso deve investire immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata, mentre la ricorrente, in concreto, al di là di apodittiche affermazione sui principi giuridici che sarebbero applicabili nella specie, si duole soltanto del fatto che la sentenza di appello avesse erroneamente interpretato la prova relativa alla non veridicità delle operazioni rappresentate dalle fatture.

9.6. In ogni caso quanto dedotto dalla contribuente non potrebbe integrare neppure un vizio sindacabile in sede di legittimità come vizio della motivazione nei limiti di cui all’art. 360, n. 5, poiché, in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non è più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione, anche se i provvedimenti giudiziari non si sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111 Cost., , comma 6, e, nel processo civile, dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4. Tale obbligo è però violato soltanto qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perché perplessa ed obiettivamente incomprensibile) e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 22598 del 25/09/2018 (Rv. 650880 – 01). Nel caso in esame, però, una risposta vi è stata e la stessa è altresì conforme ai principi giuridici che presidiano la materia.

9.7. Quanto infine al rilievo che mancherebbe la prova del fatto che la contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si inseriva nel quadro di una evasione commessa dal soggetto emittente, è solo il caso di ribadire che tale argomento, fra l’altro mai addotto nel giudizio di merito, si potrebbe inserire nel quadro di operazioni soggettivamente inesistenti perché poste in essere da soggetto diverso dall’apparente fornitore, il che si deve escludere nel caso in esame.

10. Il ricorso deve essere in definitiva rigettato in quanto completamente infondato.

Spese e doppio contributo seguono per legge.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 2.300,00 oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Quinta sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 14 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2021

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