Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22100 del 13/10/2020

Cassazione civile sez. I, 13/10/2020, (ud. 17/09/2020, dep. 13/10/2020), n.22100

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 4717/2019 R.G. proposto da:

O.L., rappresentato e difeso dall’Avv. Massimo Gilardoni,

con domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile

della Corte di cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO;

– intimato –

avverso il decreto del Tribunale di Brescia depositato il 14 dicembre

2018.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17 settembre

2020 dal Consigliere Guido Mercolino.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

Ritenuto che con decreto del 14 dicembre 2018 il Tribunale di Brescia ha rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria e, in subordine, di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta da O.L., cittadino della Nigeria;

che avverso il predetto decreto l’ O. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi;

che il Ministero dell’interno non ha svolto attività difensiva.

Considerato che con il primo motivo d’impugnazione il ricorrente eccepisce l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35-bis, comma 13, come modificato della L. n. 46 del 2017, art. 6, comma 1, n. 3-septies, (recte: introdotto dall’art. 6, lett. g), del D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, convertito con modificazioni dalla L. 13 aprile 2017, n. 46), sostenendo che l’esclusione della reclamabilità del decreto con cui il tribunale pronuncia sulla domanda di riconoscimento della protezione internazionale si pone in contrasto con l’art. 3 Cost., comma 1, art. 24, commi 1 e 2, e art. 111 Cost., commi 1, 2 e 7, in quanto comporta un’irragionevole disparità di trattamento a danno dei richiedenti asilo ed impedisce la correzione di eventuali errori commessi dal giudice di primo grado nell’accertamento dei fatti;

che il motivo è infondato;

che la questione di legittimità costituzionale, oltre a risultare irrilevante, non avendo il ricorrente proposto appello ma ricorso per cassazione, è stata infatti già dichiarata manifestamente infondata da questa Corte, in virtù del rilievo che il principio del doppio grado di giurisdizione di merito, oltre a risultare privo di copertura costituzionale, non trova applicazione generalizzata neppure nell’ambito del procedimento di cognizione ordinaria, in riferimento al quale è prevista una pluralità di eccezioni, e può comunque essere derogato dal legislatore per soddisfare specifiche esigenze, quale quella di celerità sottesa alla disciplina dei procedimenti in materia di protezione internazionale;

che l’inerenza di tale materia a diritti fondamentali, costituzionalmente tutelati, non consente di ritenere che la soppressione dell’appello si traduca automaticamente in una violazione del diritto di difesa, avuto riguardo alle particolari caratteristiche dei procedimenti in questione, preceduti da una fase amministrativa nell’ambito della quale il richiedente è posto in condizioni di illustrare pienamente le proprie ragioni, attraverso il colloquio dinanzi alla commissione territoriale (cfr. per tutte Cass., Sez. I, 30 ottobre 2018, n. 27700; 5/07/2018, n. 17717);

che con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione del D.Lgs. 18 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c), e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 osservando che, nel rigettare la domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria, il Tribunale non ha applicato il principio del beneficio del dubbio, avendo omesso di acquisire informazioni in ordine alle sette segrete operanti in Nigeria ed al condizionamento dalle stesse esercitato nei confronti della Pubblica Amministrazione e delle forze di polizia;

che il motivo è infondato;

che il timore di restare esposto, in caso di rimpatrio, ad atti persecutori perpetrati dalla società segreta degli Ogboni, oltre ad essere stato allegato a sostegno della riconducibilità della fattispecie alle ipotesi di cui all’art. 14 cit., lett. a) e b) è stato infatti ritenuto privo di fondamento proprio in virtù del richiamo a fonti internazionali accreditate ed aggiornate (ivi compreso il rapporto sulla situazione della Nigeria pubblicato dall’EASO nel mese di giugno 2017, invocato dal ricorrente), dal quale il Tribunale ha desunto che il rifiuto di entrare a far parte della predetta setta non comporta l’esposizione dell’interessato o della sua famiglia a vendette o minacce, avuto riguardo al carattere elitario dell’associazione ed alla volontarietà dell’adesione alla stessa;

che le medesime fonti sono state richiamate dal decreto impugnato anche ai fini dell’esclusione della configurabilità di una situazione di violenza indiscriminata derivante da un conflitto armato, prevista dell’art. 14, lett. c) avendo il Tribunale rilevato che nella regione di provenienza del ricorrente (Edo State) non si registrano scontri con gruppi terroristici di matrice islamica, ma solo episodi di violenza riconducibili alla criminalità comune, che non comportano la perdita del controllo del territorio da parte delle forze governative;

che nella specie non può dunque trovare applicazione il principio del beneficio del dubbio, emergente dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, il quale, nel consentire all’autorità decidente di considerare veritieri taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni rese dal richiedente, anche se non suffragati da prove, subordina l’esercizio di tale facoltà alla condizione che le predette dichiarazioni, oltre a risultare sufficientemente circostanziate, coerenti e plausibili, non siano in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al caso, delle quali si dispone;

che con il terzo motivo il ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 2, censurando il decreto impugnato nella parte in cui, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, ha ritenuto irrilevante lo stato di estrema povertà in cui egli versava nel Paese di origine e la situazione d’instabilità politica ed amministrativa che caratterizza la Nigeria, senza tener conto dell’inferiorità della sua condizione personale rispetto agli standard minimi necessari per un’esistenza dignitosa e dell’incolmabile sproporzione con la situazione d’integrazione sociale da lui raggiunta nel Paese di accoglienza, per effetto della quale il rimpatrio risulterebbe lesivo della sua dignità personale;

che, ad avviso del ricorrente, il Tribunale ha omesso di adempiere il proprio obbligo di cooperazione istruttoria e di concedergli il beneficio del dubbio, non avendo esaminato la documentazione prodotta, comprovante il percorso di inserimento lavorativo e scolastico da lui intrapreso in Italia;

che il motivo è infondato;

che nella specie, come riconosce la stessa difesa del ricorrente, non trova applicazione la nuova disciplina introdotta dal D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, convertito con modificazioni dalla L. 1 dicembre 2018, n. 132, che ha modificato quella preesistente di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, essendo la stessa entrata in vigore in data successiva a quella di presentazione della domanda di protezione internazionale, la quale attrae il regime normativo applicabile, avuto riguardo al momento d’insorgenza del diritto alla protezione umanitaria, coincidente con quello dell’ingresso in Italia dello straniero in condizioni di vulnerabilità per il rischio di compromissione dei diritti umani (cfr. Cass., Sez. Un., 13/11/2019, n. 29459);

che, nel rigettare la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, il decreto impugnato si è puntualmente attenuto all’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’applicazione di tale misura richiede una valutazione individuale, da condursi caso per caso, del livello di integrazione sociale e lavorativa raggiunto dal richiedente in Italia, comparato alla situazione personale in cui versava prima dell’abbandono del Paese di origine ed alla quale si troverebbe nuovamente esposto in conseguenza del rimpatrio, in modo tale da far emergere eventuali situazioni personali di vulnerabilità, collegate alla violazione di diritti fondamentali (cfr. Cass., Sez. Un., 13/11/2019, n. 29459; Cass., Sez. VI, 3/04/2019, n. 9304; 7/02/ 2019, n. 3681);

che il Tribunale ha infatti escluso la configurabilità di una delle predette situazioni, rilevando, sotto il profilo soggettivo, che il ricorrente, oltre ad aver svolto attività lavorativa in Nigeria, conserva ancora legami familiari in quel Paese e può disporre del patrimonio del padre, affermando inoltre l’insufficienza della volontà di inserimento nel contesto sociale italiano da lui manifestata attraverso la frequentazione di corsi di formazione, ed osservando infine, quanto al profilo oggettivo, che le criticità che caratterizzano tuttora la situazione della Nigeria, dal punto di vista del rispetto dei diritti fondamentali della persona, nonostante il sostanziale miglioramento del quadro socio-economico e politico-istituzionale del Paese, non assurgono ad un livello di gravità tale da consentire di ravvisare una vera e propria emergenza umanitaria;

che, in assenza di una situazione di vulnerabilità personale, da intendersi nel senso dianzi precisato, il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari non può trovare giustificazione nè nell’accertamento del livello d’integrazione sociale e lavorativa raggiunto dal richiedente in Italia, la cui isolata prospettazione risulta insufficiente ai fini della prescritta comparazione (cfr. Cass., Sez. Un., 13/11/2019, n. 29459), nè nella rappresentazione di uno stato di difficoltà collegato alla situazione economico-sociale in atto nel Paese di origine, non essendo ipotizzabile a carico dello Stato italiano un obbligo di garantire allo straniero parametri di benessere, e non potendosi quindi attribuire rilievo alla sola diversità delle condizioni di vita esistenti nel Paese di origine, la cui considerazione in termini generali ed astratti si porrebbe in contrasto con il carattere strettamente personale della valutazione prescritta dal D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, (cfr. Cass., Sez. VI, 3/04/2019, n. 9304; 7/02/2019, n. 3681);

che la mancata allegazione da parte del ricorrente di elementi idonei a far supporre che il rimpatrio possa esporlo alla privazione della titolarità o dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, consente di escludere nella specie anche la sussistenza del dedotto inadempimento del dovere di cooperazione istruttoria previsto dal D.Lgs. n. 28 del 2005, art. 8, comma 3, e del principio del beneficio del dubbio emergente dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, i quali presuppongono una puntuale allegazione da parte del richiedente dei fatti costitutivi del diritto azionato (cfr. Cass., Sez. I, 2/07/2020, n. 13573);

che il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo alla mancata costituzione dell’intimato.

PQM

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 17 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 ottobre 2020

 

 

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