Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22086 del 04/09/2019

Cassazione civile sez. II, 04/09/2019, (ud. 08/03/2019, dep. 04/09/2019), n.22086

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 2625/2018 R.G. proposto da:

M.F., c.f. (OMISSIS), L.P.F. c.f. (OMISSIS)

– rappresentati e difesi in virtù di procura speciale a margine del

ricorso dall’avvocato Olindo Di Francesco ed elettivamente

domiciliati in Roma, presso la cancelleria della Corte di

cassazione;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO dell’ECONOMIA e delle FINANZE, c.f. (OMISSIS) – in persona

del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura

Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, alla via dei

Portoghesi, n. 12, domicilia per legge.

– controricorrente –

avverso il decreto n. 3547 dei 11.4/1.6.2017 della corte d’appello di

Perugia;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio

dell’8 marzo 2019 dal Consigliere Dott. Luigi Abete.

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO

Con ricorso al t.a.r. del Lazio depositato in data 31.12.2005 M.F. e L.P.F., appartenenti alla Polizia di Stato, chiedevano accertarsi il loro diritto alla corresponsione, per tutta la durata del corso di formazione volto al conseguimento della qualifica di viceispettore, del trattamento economico e previdenziale in misura corrispondente a quanto previsto per Carabinieri e Guardia di Finanza.

Con sentenza depositata il 30.12.2014 l’adito t.a.r. rigettava la domanda.

Con ricorso ex lege n. 89 del 2001, alla corte d’appello di Perugia depositato in data 10.9.2012 M.F. e L.P.F. si dolevano per l’irragionevole durata del giudizio suindicato e chiedevano che il Ministero dell’Economia e delle Finanze fosse condannato a corrisponder loro un equo indennizzo.

Resisteva il Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Con decreto n. 3547 dei 11.4/1.6.2017 la corte d’appello di Perugia rigettava la domanda e condannava i ricorrenti alle spese.

Evidenziava la corte che la materia del contendere nell’ambito del giudizio “presupposto” era stata segnata da una molteplicità di pronunce della Corte costituzionale e del Consiglio di Stato, sopravvenute tra il 2003 ed il 2008, ovvero in epoca antecedente al superamento del termine di ragionevole durata del giudizio “presupposto”, pronunce che valevano a dar ragione della “temerarietà sopravvenuta” delle pretese azionate dai ricorrenti.

Evidenziava quindi che i ricorrenti non potevano non aver avuto piena consapevolezza della “temerarietà sopravvenuta” delle azionate pretese, sicchè era da escludere che si fossero ritrovati nello stato di patema d’animo idoneo a giustificare il diritto all’equo indennizzo.

Avverso tale decreto hanno proposto ricorso M.F. e L.P.F.; ne hanno chiesto sulla scorta di due motivi la cassazione con ogni conseguente provvedimento anche in ordine alle spese.

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha depositato controricorso; ha chiesto rigettarsi l’avverso ricorso con il favore delle spese.

Con il primo motivo i ricorrenti denunciano ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, artt. 2 e 3, in relazione agli artt. 24 e 111 Cost. e degli artt. 6,13,41 e 53 C.E.D.U..

Deducono che il diritto all’equa riparazione non è escluso dalla manifesta infondatezza delle pretese azionate nel giudizio “presupposto”, ossia è escluso unicamente in ipotesi di temerarietà o abusività della domanda; che del resto la soccombenza non osta alla liquidazione dell’equo indennizzo.

Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c.; ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame circa fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.

Deducono che il decreto impugnato è viziato da motivazione apparente; che segnatamente dalla sentenza del t.a.r. in data 30.12.2014 si evince che essi ricorrenti non avessero piena consapevolezza della infondatezza delle proprie istanze, tant’è che lo stesso t.a.r. ha compensato le spese di lite.

I motivi di ricorso sono strettamente connessi; il che ne suggerisce la disamina contestuale; ambedue i motivi in ogni caso sono destituiti di fondamento.

Del tutto ingiustificata è la denunzia di motivazione apparente (che ricorre allorquando il giudice di merito non procede ad una approfondita disamina logico-giuridica, tale da lasciar trasparire il percorso argomentativo seguito: cfr. Cass. 21.7.2006, n. 16672).

Invero si è in precedenza dato conto – limitatamente ai passaggi essenziali – dell’impianto motivazionale che sorregge l’impugnato dictum, sicchè la corte di Perugia ha compiutamente ed intellegibilmente esplicitato il proprio iter argomentativo.

Al contempo l’iter motivazionale che sorregge il decreto impugnato risulta in toto ineccepibile sul piano della correttezza giuridica ed assolutamente congruo e esaustivo sul piano logico-formale.

Con riferimento, dapprima, al profilo della correttezza giuridica per nulla si configurano i pretesi errores in iudicando veicolati dal primo mezzo.

Propriamente la corte perugina ha ineccepibilmente ancorato la sua statuizione agli insegnamenti di questa Corte di legittimità.

Ovvero all’insegnamento per cui l’esistenza di un diritto “vivente” consolidato in senso sfavorevole all’accoglimento della domanda giudiziale esclude la configurabilità di un patema d’animo da durata irragionevole del processo e quindi un danno non patrimoniale ai sensi della L. n. 89 del 2001 (cfr. Cass. 19.3.2015, n. 5535).

Ovvero all’insegnamento per cui, in tema di equa riparazione ai sensi della L. n. 89 del 2001, il patema d’animo derivante dalla situazione di incertezza per l’esito della causa è da escludersi anche nell’ipotesi di “temerarietà sopravvenuta”, ovvero quando la consapevolezza dell’infondatezza delle proprie pretese sia derivata, rispetto al momento di proposizione della domanda, da circostanze nuove che rendano manifesto il futuro esito negativo del giudizio prima che la sua durata abbia superato il termine di durata ragionevole (cfr. Cass. (ord.) 18.4.2018, n. 9552).

Nè è da ritenere che la riconducibilità della fattispecie de qua alla surriferita elaborazione giurisprudenziale fosse e sia da disconoscere alla stregua della compensazione delle spese di lite disposta nel giudizio “presupposto”.

Evidentemente la “complessità” e la “particolarità” delle questioni delibate nell’ambito del giudizio celebratosi innanzi al t.a.r. non esclude che in quella sede, quanto meno in epoca successiva all’introduzione del giudizio e comunque in epoca antecedente al compimento del termine di durata “ragionevole”, ben avrebbero potuto i ricorrenti avvedersi dell'”abusività”, della “temerarietà” delle azionate pretese.

Con riferimento, dipoi, al profilo della congruenza logico – formale della motivazione nessuna delle ipotesi di “anomalia motivazionale” destinate ad acquisire significato alla stregua della pronuncia n. 8053 del 7.4.2014 delle sezioni unite di questa Corte si scorge nelle motivazioni dell’impugnato decreto.

Vero è, certo, che questo Giudice del diritto spiega che, in tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, l’infondatezza della domanda nel giudizio “presupposto” non è, di per sè, causa ostativa al riconoscimento dell’indennizzo (cfr. Cass. 12.1.2017, n. 665; Cass. 23.9.2015, n. 18834).

E tuttavia la corte distrettuale ha dato conto (cfr. paragrafi 3, 3.1., 3.1.1. e 3.1.2.) in forme ampie e coerenti del carattere “temerario” della lite – temerarietà quanto meno “sopravvenuta” – che i ricorrenti ebbero ad intraprendere innanzi al t.a.r. con il ricorso depositato in data 31.12.2005.

Cosicchè – e pur a prescindere da qualsivoglia rilievo correlato all’onere dell'”autosufficienza” – del tutto ingiustificata è la prospettazione secondo cui dalla sentenza del t.a.r. si evincerebbe che l’iniziale ricorso è stato respinto per difetto di prova.

In dipendenza del rigetto del ricorso M.F. e L.P.F. vanno condannati in solido a rimborsare al Ministero dell’Economia e delle Finanze le spese del presente giudizio.

La liquidazione segue come da dispositivo (in sede di condanna del soccombente al rimborso delle spese del giudizio a favore di un’amministrazione dello Stato – nei confronti della quale vige il sistema della prenotazione a debito dell’imposta di bollo dovuta sugli atti giudiziari e dei diritti di cancelleria e di ufficiale giudiziario – riguardo alle spese vive la condanna deve essere limitata al rimborso delle spese prenotate a debito: cfr. Cass. 18.4.2000, n. 5028; Cass. 22.4.2002, n. 5859).

Ai sensi del D.P.R. 115 del 2002, art. 10, non è soggetto a contributo unificato il giudizio di equa riparazione ex lege n. 89 del 2001. Il che rende inapplicabile l’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. cit. (cfr. Cass. sez. un. 28.5.2014, n. 11915).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna in solido i ricorrenti, M.F. e L.P.F., a rimborsare al Ministero dell’Economia e delle Finanze le spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 1.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 8 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 settembre 2019

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