Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22084 del 04/09/2019

Cassazione civile sez. II, 04/09/2019, (ud. 08/03/2019, dep. 04/09/2019), n.22084

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 7793/2018 R.G. proposto da:

C.E., c.f. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in Roma,

alla via Torrenova, n. 220/A, presso lo studio dell’avvocato Massimo

Di Censo, che la rappresenta e difende in virtù di procura speciale

in calce al ricorso.

– ricorrente –

contro

MINISTERO della GIUSTIZIA, c.f. (OMISSIS), in persona del Ministro

pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello

Stato, presso i cui uffici in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12,

domicilia per legge.

– controricorrente –

avverso il decreto dei 5.6/28.8.2017 della corte d’appello di

Perugia;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio

dell’8 marzo 2019 dal Consigliere Dott. Luigi Abete.

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO

Con ricorso ex lege n. 89/2001 alla corte d’appello di Perugia depositato il 10.9.2012 C.E. si doleva per l’eccessiva durata del giudizio di scioglimento di comunione promosso nei suoi – tra gli altri – confronti da sua sorella, C.G., in data 23.7.1986 innanzi al tribunale di Roma, giudizio definito in primo grado con sentenza depositata il 7.5.2009 e pendente in grado di appello alla data della proposizione del ricorso ex lege n. 89 del 2001.

Chiedeva che il Ministero della Giustizia fosse condannato a corrisponderle un equo indennizzo per l’irragionevole durata del giudizio “presupposto”.

Resisteva il Ministero della Giustizia.

Con decreto dei 5.6/28.8.2017 la corte di Perugia accoglieva il ricorso e condannava il Ministero a pagare alla ricorrente la somma di Euro 8.959,00.

Evidenziava la corte che dalla durata complessiva del giudizio dovevano detrarsi 11 mesi, corrispondenti al tempo trascorso tra il deposito della sentenza di primo grado e la notifica dell’atto di appello, altresì 7 anni, corrispondenti al periodo di ragionevole durata del giudizio di primo grado, e infine 2 anni, corrispondenti al periodo di ragionevole durata del grado di appello; che dunque la durata irragionevole era pari ad 17 anni ed 11 mesi.

Evidenziava ancora che l’equo indennizzo poteva congruamente computarsi nell’ammontare di Euro 500,00 per ciascun anno di irragionevole durata.

Avverso tale decreto ha proposto ricorso C.E.; ne ha chiesto sulla scorta di un unico motivo la cassazione con ogni conseguente provvedimento anche in ordine alle spese.

Il Ministero della Giustizia ha depositato controricorso; ha chiesto dichiararsi inammissibile o rigettarsi l’avverso ricorso con il favore delle spese.

Con l’unico motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, artt. 2 e 3, art. 2056 c.c., art. 1 e art. 6, par. 1, della C.E.D.U.; ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa, insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione; l’omesso esame di fatto decisivo; il travisamento dei fatti.

Deduce che la corte di Perugia senza alcuna motivazione si è discostata dal suo precedente decreto n. 242/2010, correlato al medesimo giudizio “presupposto”, con il quale aveva determinato in maggior misura e la durata irragionevole del giudizio “presupposto” e il quantum dell’equo indennizzo.

Deduce che l’indennizzo accordato è lesivo dell’art. 2056 c.c., con riferimento ad un giudizio iniziato nel 1986 ed ancora pendente in appello nel 2012.

Il motivo di ricorso è destituito di fondamento.

Si premette che – ovviamente – la corte di merito non era per nulla vincolata dal “suo” precedente, costituito dal decreto n. 242/2010, ancorchè concernente il medesimo giudizio “presupposto” (cfr. Cass. 6.9.1976, n. 3103, secondo cui la sentenza emessa in un giudizio in cui una delle parti sia diversa, anche se la questione giuridica risolta sia identica, non può spiegare autorità di cosa giudicata in un altro giudizio in cui la stessa questione venga riproposta, ma costituisce un precedente non vincolante).

Per altro verso del tutto ingiustificata è la denunzia di omessa motivazione.

La corte di Perugia, in forma concisa ed essenziale, siccome si è anticipato, ha compiutamente ed intellegibilmente esplicitato il proprio iter argomentativo.

Al contempo l’iter motivazionale che sorregge il decreto impugnato risulta in toto ineccepibile sul piano della correttezza giuridica ed assolutamente congruo e esaustivo sul piano logico-formale.

Con riferimento, dapprima, al profilo della correttezza giuridica per nulla si configurano i pretesi errores in iudicando.

Propriamente la statuizione della corte perugina è appieno aderente agli insegnamenti di questa Corte di legittimità.

Ovvero all’insegnamento per cui, in tema di equa riparazione ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 2, la determinazione della durata ragionevole del giudizio presupposto, onde verificare la sussistenza della violazione del diritto azionato, costituisce oggetto di una valutazione che il giudice di merito deve compiere caso per caso, tenendo presenti gli elementi indicati dalla norma richiamata, anche alla luce dei criteri applicati dalla Corte Europea e dalla Suprema Corte, dai quali è consentito discostarsi, purchè in misura ragionevole e dando conto delle ragioni che lo giustifichino (cfr. Cass. 7.9.2012, n. 15041; Cass. 4.9.2015, n. 17634, secondo cui, in tema di equa riparazione ai sensi della L. n. 89 del 2001, il termine triennale previsto per la ragionevole durata del processo di primo grado rappresenta un parametro tendenziale dal quale, considerando gli elementi indicati dall’art. 2, comma 2, della menzionata legge, nonchè i criteri di determinazione applicati dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo e dalla Corte di cassazione, è possibile discostarsi, purchè in misura ragionevole).

Ovvero all’insegnamento per cui, in tema di equa riparazione ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 2, ai fini della liquidazione dell’equa riparazione da irragionevole durata di un giudizio di scioglimento di comunione ereditaria, in fattispecie (quale quella de qua) cui non sia applicabile, “ratione temporis”, la L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, può ritenersi congrua, nei limiti del controllo di legittimità, la quantificazione dell’indennizzo nella misura solitamente riconosciuta per i giudizi amministrativi o fallimentari protrattisi oltre dieci anni, rapportata su base annua a circa Euro 500,00, dovendosi riconoscere al giudice il potere, avuto riguardo alle peculiarità della singola fattispecie, di discostarsi dagli ordinari criteri di liquidazione, dei quali deve dar conto in motivazione (cfr. Cass. 19.5.2017, n. 12696).

Non si giustifica perciò l’assunto della ricorrente secondo cui “l’applicazione dei criteri della C.E.D.U. al caso di specie avrebbe condotto ad un risarcimento di Euro 2.000,00 per ciascun anno di durata dell’intero processo” (così ricorso, pag. 18. Cfr. Cass. 27.10.2014, n. 22772, secondo cui è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 6, par. 1, della CEDU, della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, nella parte in cui limita la misura dell’indennizzo in una somma di denaro, non inferiore a 500 Euro e non superiore a 1.500 Euro, atteso che la derogabilità dei criteri ordinari di liquidazione e la ragionevolezza del criterio di 500 Euro per anno di ritardo e i parametri di durata così stabiliti recepiscono le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte E.D.U. e della Corte di Cassazione).

Nè è da ritenere che la riconducibilità della fattispecie de qua alla surriferita elaborazione giurisprudenziale fosse e sia da disconoscere alla stregua del rilievo – non meglio specificato – della ricorrente per cui la “Corte di Appello di Perugia (…) non ha affatto considerato che l’apparente complessità del giudizio (“presupposto”) è frutto degli errori plurimi del giudice” (così ricorso, pag. 16), errori correlati al tardivo accoglimento di un’eccezione in diritto sollevata dalla stessa C.E. ed in assenza dei quali il giudizio “presupposto” si sarebbe “concluso in tempo brevissimo” (così ricorso, pag. 16).

Con riferimento, dipoi, al profilo della congruenza logico – formale della motivazione nessuna delle ipotesi di “anomalia motivazionale” destinate ad acquisire significato alla stregua della pronuncia n. 8053 del 7.4.2014 delle sezioni unite di questa Corte – tra le quali non è annoverabile l’insufficienza della motivazione – si scorge nelle motivazioni dell’impugnato decreto.

Invero la corte territoriale ha chiarito che la durata ragionevole del primo grado era da dilatare fino a sette anni in considerazione, tra l’altro, della molteplicità delle parti e della complessità della istruzione probatoria, ossia, a tal ultimo riguardo, della pluralità dei testi escussi e della rilevanza delle espletate consulenze.

Si tenga conto che nel vigore del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non è più configurabile il vizio di contraddittoria motivazione della sentenza, atteso che la norma suddetta attribuisce rilievo solo all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, non potendo neppure ritenersi che il vizio di contraddittoria motivazione sopravviva come ipotesi di nullità della sentenza ai sensi del medesimo art. 360 c.p.c., n. 4 (cfr. Cass. (ord.) 6.7.2015, n. 13928).

In dipendenza del rigetto del ricorso C.E. va condannata a rimborsare al Ministero della Giustizia le spese del presente giudizio.

La liquidazione segue come da dispositivo (in sede di condanna del soccombente al rimborso delle spese del giudizio a favore di un’amministrazione dello Stato – nei confronti della quale vige il sistema della prenotazione a debito dell’imposta di bollo dovuta sugli atti giudiziari e dei diritti di cancelleria e di ufficiale giudiziario – riguardo alle spese vive la condanna deve essere limitata al rimborso delle spese prenotate a debito: cfr. Cass. 18.4.2000, n. 5028; Cass. 22.4.2002, n. 5859).

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 10, non è soggetto a contributo unificato il giudizio di equa riparazione ex lege n. 89/2001. Il che rende inapplicabile l’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. cit. (cfr. Cass. sez. un. 28.5.2014, n. 11915).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente, C.E., a rimborsare al Ministero della Giustizia le spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 1.200,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 8 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 settembre 2019

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