Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2208 del 31/01/2011

Cassazione civile sez. trib., 31/01/2011, (ud. 02/07/2010, dep. 31/01/2011), n.2208

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. MAGNO Giuseppe Vito Antonio – Consigliere –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –

Dott. MARIGLIANO Eugenia – Consigliere –

Dott. MELONCELLI Achille – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Banca antoniana popolare veneta spa, già scarl, di seguito

“Società”, in persona del signor C.C., responsabile

del dipartimento finance e legittimato a rilasciare procura alle

liti, rappresentata e difesa dall’avv. Tieghi Roberto, presso il

quale è elettivamente domiciliata in Viale Parioli 180, Roma;

– ricorrente –

contro

l’Agenzia delle entrate, di seguito “Agenzia, rappresentata e difesa

dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la quale è domiciliata

in Via dei Portoghesi 12, Roma;

– intimata e controricorrente –

avverso ‘a sentenza della Commissione tributaria regionale (CTR) di

Venezia 31 gennaio 2007, n. 7/24/07, depositata il 14 marzo 2007;

udita la relazione sulla causa svolta nell’udienza pubblica del 2

luglio 2010 dal Cons. Dr. Achille Meloncelli;

udito l’avv. Roberto Tieghi per la Società;

udito l’avv. Paolo Gentili per l’Agenzia;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dr. ZENO

Immacolata, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Gli atti di incoazione del giudizio di legittimità.

1.1. Il 27 giugno 2007 è notificato all’Agenzia un ricorso della Società per la cassazione della sentenza descritta in epigrafe, che ha respinto l’appello della Società contro la sentenza della Commissione tributaria provinciale (CTP) di Padova n. 12/12/2006, che aveva rigettato il suo ricorso contro il silenzio rifiuto del Centro di servizio delle imposte dirette ed indirette di Venezia della sua domanda di rimborso dell’imposta sul patrimonio netto 1996.

1.2. Il 26 settembre 2007 è notificato alla Società il controricorso dell’Agenzia.

2.1 fatti di causa I fatti di causa sono i seguenti:

a) il 24 giugno 1996 la Banca antoniana scarl si fonde per unione con la Banca popolare veneta scarl, dando origine alla Banca antoniana popolare veneta spa;

b) successivamente la Società versa l’imposta sul patrimonio netto delle imprese per il 1996, prevista dal D.L. 30 settembre 1992, n. 394, conv. in L. 26 novembre 1992, n. 461, assumendo coma base imponibile L. 12.174.242.000, in luogo di quello, successivamente ritenuto esatto dalla Società, di L. 11.811.511.000;

c) l’11 novembre 1998 la Società presenta al Centro di servizio delle imposte dirette ed indirette di Venezia domanda di rimborso delle somme versate in eccesso a titolo di imposta sul patrimonio netto, pari a L. 362.731.000, perchè essa, nella determinazione della base imponibile, anzichè considerare esclusivamente l’imposta sul patrimonio netto per l’esercizio 1996, ha erroneamente conteggiato l’imposta patrimoniale dovuta per i periodi precedenti (1993, 1994 e 1995) per complessive L. 32.664.832.000 e l’imposta sostitutiva dovuta dalla ex Banca popolare veneta per l’affrancamento delle riserve in sospensione di imposta per complessive L. 15.669.216.000; in conseguenza del predetto errore la Società avrebbe applicato l’aliquota prevista dal D.M. 7 gennaio 1993, art. 7, per l’imposta sul patrimonio netto, pari allo 0,75 per mille su L. 1.623.232.234.000, maggiore di quella corretta di L. 1.574.868.186.000, con conseguente applicazione dell’imposta di L. 12.174.242.000 in luogo di quella effettivamente dovuta di L. 13.811.511.000;

d) il silenzio rifiuto del Centro di servizio è impugnato dalla Società davanti alla CTP di Padova, che ne respinge il ricorso;

e) l’appello della Società è, poi, respinto dalla CTR con la sentenza ora impugnata per cassazione.

3. La motivazione della sentenza impugnata.

La sentenza della CTR; oggetto del ricorso per cassazione, è, con riguardo ai capi impugnati in sede di legittimità, così motivata:

a) “dall’esame dei Mod. 760/K sia della Banca Antoniana che della Banca Popolare Veneta, relativi agli anni 1993-1994-1995, risultano esposti valori che coincidono con il Patrimonio Netto come evidenziato dal D.M. 7 gennaio 1993, art. 2”;

b) “sia nel ricorso che nell’appello viene affermato che risultano imputati a riserve i valori relativi a: 1) imposta patrimoniale, che risulta regolarmente pagata alle varie scadenze; 2) riserva in sospensione d’imposta da parte della ex Banca Popolare Veneta. Per quanto concerne la riserva in sospensione d’imposta questa Commissione ritiene che essa costituisca per intero base imponibile dell’imposta patrimoniale, in considerazione della soppressione dell’agevolazione contenuta nel D.L. n. 394 del 1992, comma 3 bis – art. 1. Infatti la normativa soppressa stabiliva una riduzione del valore della riserva in esame in ragione del 50%. Con la sua soppressione la riserva, rimanendo nel patrimonio netto della Società, è imponibile per l’intero ammontare”;

c) “non risulta invece dimostrata da parte della Società appellante l’esistenza del fatto costitutivo del diritto alla ripetizione da parte dell’Amministrazione finanziaria di quanto richiesto a rimborso. Tale onere di prova compete al soggetto creditore che richiede la ripetizione di somme ritenute versate in più .., Infatti non è solo sufficiente provare l’avvenuto pagamento, ma occorre dimostrare anche la movimentazione contabile delle operazioni che hanno generato il fatto costitutivo del suo diritto alla ripetizione.

Di ciò non vi è alcuna traccia nel fascicolo processuale. Volendo ricorrere alle norme dell’ordinaria contabilità (art. 2219 c.c.) gli accantonamenti per tributi da versare vanno esposti tra: a) i debiti tributari, se riguardano debiti certi in scadenza negli esercizi futuri; b) i fondi per rischi ed oneri, se riguardano debiti tributari stimati che possono oggettivamente divenire esigibili negli esercizi futuri. Entrambe queste poste contabili sono escluse dal patrimonio netto ed evidenziate in bilancio in forma separata.

Peraltro, all’atto dei singoli pagamenti tali poste vengono diminuite fino alla loro totale estinzione. Risulta pertanto difficile rilevare la loro esistenza contabile nei bilanci fra le riserve. Va altresì fatto presente che il D.M. 7 gennaio 1993, art. 2, comma 1, punto 5) esplicitamente prevede fra le riserve imponibili “le riserve o fondi, indipendentemente dal loro regime fiscale”. Con tale menzione il legislatore ha voluto ricomprendere qualunque tipo di riserva contabilizzata in bilancio”.

4. Il ricorso per cassazione della Società, integrato con memoria, è sostenuto con tre motivi d’impugnazione e, dichiarato il valore della causa in Euro 187.334,92, si conclude con la richiesta che sia cassata la sentenza impugnata, con ogni conseguente statuizione e con vittoria di spese.

5. Il controricorso dell’Agenzia si conclude con la richiesta di rigetto del ricorso e dell’adozione di ogni statuizione consequenziale, anche in ordine alle spese di giudizio.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

6. Il primo motivo d’impugnazione.

6.1.1. Il primo motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: “Insufficiente motivazione – in ordine all’adempimento dell’onere della prova da parte della banca – circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)”.

6.1 2. La Società sostiene, con riguardo a quelle parti della motivazione della sentenza che si sono qui testualmente riprodotte nel p. 3.a) e 3.c), che la CTR non avrebbe “in alcun modo indicato le ragioni per le quali hanno ritenuto inattendibili le difese da essa svolte nel corso del giudizio di merito 6.1.3. A conclusione della motivazione della censura non è formulato alcun quesito motivazionale omologo.

6.2. Il motivo è inammissibile, perchè a conclusione di esso e della sua motivazione non è formulato il quesito motivazionale omologo di quello di diritto, richiesto appunto a pena d’inammissibilità, dall’art. 366 bis c.p.c.. In tal senso si è espressa questa Corte, Sezioni unite civili, con la sentenza 1^ ottobre 2007, n. 20603, secondo la quale “in tema di formulazione dei motivi del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti pubblicati dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ed impugnati per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, poichè secondo l’art. 366 bis cod. proc. civ., introdotto dalla riforma, nel caso previsto dall’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione, la relativa censura deve contenere, un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità”. Il principio è stato, poi, applicato, dalle Sezioni semplici, per esempio dall’ordinanza 7 aprile 2008, n. 8897, secondo cui, “allorchè nel ricorso per cassazione si lamenti un vizio di motivazione della sentenza impugnata in merito ad un fatto controverso, l’onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni per le quali la motivazione è insufficiente, imposto dall’art. 366 bis cod. proc. civ., deve essere adempiuto … non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma anche formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un “quid pluris” rispetto all’illustrazione del motivo, e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso”.

7. Il secondo motivo d’impugnazione.

7.1.1. Il secondo motivo d’impugnazione è preannunciato dalla seguente rubrica: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. e della L. 21 luglio 2000, n. 212, art. 6, comma 4 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”.

7.1.2. Con il secondo motivo d’impugnazione si contesta quel capo della sentenza che s’è qui testualmente riprodotto nel p. 3.c). La Società ricorrente afferma, al riguardo, che essa, “nel corso del giudizio di merito, aveva rilevato come onere della stessa fosse unicamente quello di dimostrare l’ammontare (1) della base imponibile per il periodo d’imposta 1996, (2) delle imposte conseguentemente dovute, (3) delle imposte effettivamente pagate, (4) della differenza tra le medesime e come fosse, per contro, irrilevante ed inconferente la richiesta di controparte di provare l’effettivo pagamento delle imposte sul patrimonio netto delle imprese per gli anni 1993, 1994 e 1995, nonchè dell’imposta sostitutiva per l’affrancamento delle riserve in sospensione di imposta imputata al bilancio relativo all’esercizio 1995”.

7.1.3. L’illustrazione del motivo è conclusa dalla formulazione del seguente quesito di diritto: “ai fini del diritto al rimborso D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 38 (applicabile in virtù del rinvio di cui al D.L. n. 394 del 1992, art. 3, comma 4) dell’imposta sul patrimonio netto versata in eccesso, è sufficiente, ai fini dell’adempimento dell’onere della prova ai sensi dell’art. 2697 cod. civ., l’indicazione della base imponibile, dell’imposta dovuta e dell’imposta versata in eccesso o è necessario anche dimostrare il pagamento di imposte (effettuato in altri servizi) da non computare nella base imponibile per il calcolo della predetta imposta sul patrimonio netto?”.

7.2. Il motivo è inammissibile per irrilevanza e, comunque, per infondatezza.

Se si muove, come si deve, dall’accertamento dei fatti di causa effettuato dalla CTR, la sua sussunzione nella normativa di essi regolatrice dev’essere effettuata tendo conto delle considerazioni che seguono.

Nel 1996, anno dell’imposta in contestazione, vigeva una disciplina dell’imposta sul patrimonio netto risultante dalle seguenti disposizioni:

a) il D.L. 30 settembre 1992, n. 394, conv. in L. 26 novembre 1992, n. 461, istitutivo dell’imposta sul patrimonio netto delle imprese;

b) il D.M. 7 gennaio 1993, di attuazione della legge istitutiva dell’imposta.

Nonostante l’imposta sul patrimonio netto delle imprese sia nata come imposta temporanea, perchè il D.L. 30 settembre 1992, n. 394, art. 11, prevedeva che essa dovesse applicarsi “Fino alla revisione della disciplina tributaria del reddito di impresa e comunque non oltre l’esercizio in corso alla data del 30 settembre 1994”, e nonostante che con il D.L. 29 giugno 1994, n. 416, conv. in L. 8 agosto 1994, n. 503, sia stata introdotta quella revisione della disciplina del reddito d’impresa che era stata assunta come condizione risolutiva dell’efficacia del regime dell’imposta patrimoniale netta delle imprese, tale regime è stato prorogato dal D.L. 30 settembre 1994, n. 563, art. 1 conv. in L. 30 novembre 1994, n. 656, fino al 30 settembre 1995 e, poi, dalla L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 3 per ulteriori periodi d’imposta, fino all’esercizio in corso al 30 settembre 1997. L’imposta sul patrimonio netto delle imprese è stata, infine, abolita dall’art. 36.1e) D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, istitutivo dell’IRAP, a decorrere dal 1 gennaio 1998 (D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 661). Per il 1996, dunque, la normativa da applicare è quella contenuta negli atti normativi del 1992 e del 1993, che si sono poc’anzi citati.

Quel che più interessa la presente controversia è la qualità dell’oggetto dell’imposta sul patrimonio netto, che dal D.L. 30 settembre 1992, n. 394, art. 11 è indicata nel “patrimonio netto così come risulta dal bilancio”, ossia dall’art. 2424 c.c.. Lo precisa il DM delle finanze 3 gennaio 1993, all’art. 1, il quale, dopo aver affermato che “Il patrimonio netto rilevante ai fini dell’applicazione dell’imposta è quello indicato dall’art. 2424 c.c.”, contiene un elenco di dodici specie di patrimonio netto, che, pur essendo sostanzialmente conforme all’elenco di nove specie contenuto sub A) del Passivo dello schema di “Contenuto dello stato patrimoniale” adottato dall’art. 2424 c.c., classifica il patrimonio netto arricchendolo di qualche specie. Per quanto interessa il caso in esame, che, come s’è veduto, è stato categorizzato in fatto dal giudice di merito come un caso in cui si controverte di valori iscritti a riserve, è determinante osservare che, in base all’art. 2424 c.c. e al D.M. 3 gennaio 1993, concorrono a formare il patrimonio netto, non solo il capitale sociale, ancorchè non versato, ma anche tutte le specie di riserve, perchè il legislatore vuole che l’oggetto dell’imposta sul patrimonio netto sia costituito da tutte quelle poste, che, pur presentando la configurazione formale di fondi, rappresentano un accantonamento di ricchezza effettiva.

Il caso in esame è arricchito dalla particolare circostanza che tra le somme iscritte a riserva dalla Società figurano anche delle somme iscritte come riserve in sospensione d’imposta, che è il regime previsto dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 55, comma 3, lett. b) ossia dei proventi in denaro o in natura ricevuti dalle imprese a titolo di contributo in conto capitale o a titolo di liberalità. Per queste riserve si previde, ma solo con la L. 26 novembre 1992, n. 461, di conversione del D.L. 30 settembre 1992, n. 394, l’introduzione del D.L. convertito art. 1, comma 3 bis, secondo cui “Si comprendono nel patrimonio netto anche i fondi in sospensione d’imposta, che si computano nella misura del cinquanta per cento”.

Tuttavia, tale disposizione fu soppressa già con il D.L. 2 marzo 1993, n. 47, art. 62, comma 9, non convertito, ma la soppressione è stata reiterata dal D.L. 28 aprile 1993, n. 131, art. 62, comma 11, lett. a), anch’esso non convertito, e poi dal D.L. 30 giugno 1993, n. 213, art. 62, comma 11, lett. a), non convertito, e, infine, dal D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 62, comma 1, lett. a) conv. in L. 29 ottobre 1993, n. 427, cosicchè risulta definitivamente abrogata la deroga parziale a favore delle riserve in sospensione d’imposta. La conseguenza è che anche le riserve in sospensione d’imposta concorrono a formare l’oggetto dell’imposta sul patrimonio netto nell’importo lordo risultante in bilancio.

Tutto ciò premesso in via generale, le questioni che sono state affrontate dalla CTR nella sentenza impugnata e che sono portate ora dalla Società all’esame della Corte riguardano, per un verso, stando alla formulazione del secondo motivo di ricorso, il computo nel patrimonio netto: 1) delle imposte sul patrimonio netto delle imprese per gli anni 1993, 1994 e 1995: 2) dell’imposta sostitutiva per l’affrancamento delle riserve in sospensione di imposta imputata al bilancio relativo all’esercizio 1995. La sintesi della censura, poi, formulata nel conclusivo quesito di diritto, sollecita la Corte ad affermare che “non è necessario che la Società dimostri di aver pagato imposte che non devono computarsi come oggetto dell’imposta sul patrimonio netto”.

Il quesito è formulato in maniera retorica, perchè è strutturato in maniera tale da comportare forzatamente la risposta negativa favorevole al ricorrente. Sennonchè, il quesito assume che la fattispecie controversa sia diversa da quella che il giudice d’appello ha consegnato alle parti e, da queste, al giudice di legittimità, perchè la CTR ha accertato che intorno alle due specie di imposte non si fa questione di pagamento, ma della loro iscrizione in bilancio, ed ha accertato che entrambe sono state iscritte tra le riserve, le quali certamente, per le ragioni che si sono illustrate poc’anzi nella ricostruzione della normazione sul punto, sono oggetto dell’imposta sul patrimonio netto.

Per tali ragioni, il secondo motivo di ricorso deve considerarsi addirittura inammissibile, se, come si è portati a ritenere, esso formuli un quesito di diritto irrilevante per la controversia. In ogni caso, esso è infondato, perchè nessuna delle due poste si sottrae al comune loro destino di far parte dell’oggetto dell’imposta sul patrimonio netto, così come ha ben deciso la CTR. 8. Il terzo motivo d’impugnazione.

8.1.1. Il terzo motivo d’impugnazione è preannunciato dalla seguente rubrica: “Violazione e falsa applicazione del D.L. n. 47 del 1993, art. 62, comma 9 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”.

8.1.2. Con il terzo motivo d’impugnazione si censura quel capo della sentenza d’appello che s’è qui testualmente riprodotto nel p. 3.b), sostenendo che, secondo la CTR, “la soppressione dell’art. 1, comma 3 bis del D.L. n. 394 del 1992 avrebbe determinato l’inclusione nel patrimonio netto delle imprese anche dei fondi in sospensione d’imposta per il loro intero ammontare e cioè al lordo delle imposte latenti in esso contenute”. Per la Società ricorrente, invece, “l’effetto di tale soppressione è che (come ovvio) i fondi (rectius:

per lo più riserve) in sospensione d’imposta concorrono alla formazione della base imponibile nel loro intero ammontare. Ciò è esattamente quanto ha fatto la ricorrente, facendo concorrere alla formazione della base imponibile per il calcolo dell’imposta sul patrimonio netto delle imprese le riserve in sospensione d’imposta per il loro intero ammontare esistente nel bilancio al 31 dicembre 1996. / Ciò che non avrebbe dovuto fare la ricorrente (sempre ovviamente), e che erroneamente ha fatto, era la “variazione in aumento” delle predette riserve risultanti in bilancio, maggiorandole dell’imposta sostitutiva sulla rivalutazione imputata alle riserve nel bilancio al 31.12.1995 (a norma del D.L. n. 41 del 1995, art. 24)”.

8.1.3. Il motivo si conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto: “ai fini della determinazione della base imponibile per la quantificazione dell’imposta sul patrimonio netto delle imprese, le riserve in sospensione d’imposta devono o meno essere aumentate dell’imposta sostitutiva pagata dal contribuente per l’affidamento in periodi d’imposta precedenti a quello in contestazione?”.

8.2. Il motivo è inammissibile, perchè, considerato che la CTR ha affermato, con riguardo al pagamento dell’imposta sostitutiva D.L. 23 febbraio 1995, n. 41, ex art. 24 conv. in L. 22 marzo 1995, n. 85, che la Società non ha dimostrato l’esistenza del fatto costitutivo del diritto alla ripetizione di quanto chiesto a rimborso, a nulla vale limitarsi a ribadire in questa sede, come ha fatto la Società ricorrente, di aver operato contabilmente in maniera erronea e tale da giustificare il rimborso, se non si censura la sentenza d’appello nel suo fondamento, costituito dal disconoscimento di prova, e se non si adducono elementi tali, satisfattivi del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, da evidenziare lacune di accertamento dei fatti di causa o di logicità nella valutazione delle prove da parte della CTR. 9. Conclusioni.

Le precedenti considerazioni comportano il rigetto del ricorso.

Le spese seguono la soccombenza e sono poste a carico della ricorrente nella misura indicata nel dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali relative al giudizio di cassazione per Euro 8.000,00 (ottomila).

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 luglio 2010.

Depositato in Cancelleria il 31 gennaio 2011

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