Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22078 del 13/10/2020

Cassazione civile sez. lav., 13/10/2020, (ud. 05/03/2020, dep. 13/10/2020), n.22078

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 332-2015 proposto da:

C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CRESCENZIO

2, presso lo studio dell’avvocato EZIO BONANNI, che lo rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA CESARE BECCARIA n. 29 presso l’Avvocatura Centrale

dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati SERGIO PREDEN,

LIDIA CARCAVALLO, LUIGI CALIULO e ANTONELLA PATTERI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2595/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 30/04/2014, R.G.N. 4981/2011.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

– con sentenza in data 30 aprile 2014, la Corte d’Appello di Roma ha confermato la decisione di primo grado che aveva respinto la domanda avanzata da C.G. volta al riconoscimento dei benefici di cui alla L. n. 257 del 1992, art. 13, comma 8, previo accertamento di una esposizione ultradecennale all’amianto nel corso dell’attività lavorativa espletata presso la Ondulit Italiana S.p.A.;

– la Corte d’appello, in particolare, ha ritenuto che l’appellante non era stato esposto ad inalazioni nei termini di legge, secondo quanto concluso sia dal CTU nominato in appello, sia da quello che era stato incaricato in primo grado, atteso che le lavorazioni che potevano comportare tale esposizione erano cessate presso la Ondulit negli anni 1993 – 1994 e che il ricorrente aveva iniziato a lavorare presso tale società nel 1998;

– avverso tale pronunzia propone ricorso C.G., affidandolo a sei motivi;

– resiste, con controricorso, l’INPS.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

– con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c. per aver la sentenza di appello, al pari di quella di primo grado, omesso di pronunziarsi su tutte le richieste di accertamenti circa il rischio morbigeno avanzate dal lavoratore;

– con il secondo motivo si denunzia l’omesso esame di fatti decisivi e la violazione dell’art. 132 c.p.c. in particolar modo in ordine alla mancata ammissione della prova testimoniale richiesta, nonchè alla mancata attivazione dell’ordine di esibizione;

– con il terzo motivo si deduce la violazione degli artt. 115,116,521,445 c.p.c. nonchè dell’art. 2697 c.c.;

– con il quarto motivo si denunzia la nullità della consulenza tecnica perchè depositata fuori termine;

– con il quinto motivo si censura la decisione impugnata per violazione dell’art. 416 c.p.c. non avendo l’INPS contestato l’esposizione all’amianto;

– con il sesto motivo si denunzia la violazione della L. n. 257 del 1992, art. 13 allegandosi violazioni connesse alla CTU;

– i primi tre motivi, da esaminarsi congiuntamente per l’intima connessione, non possono trovare accoglimento;

– premessa la confusione e ridondanza del ricorso introduttivo, che consta di circa novanta pagine nelle quali i motivi di censura risultano inframmezzati con continue valutazioni di merito e parti di atti di giudiziari, va rilevato che i tre motivi, oltre ad essere inammissibilmente formulati in modo promiscuo, denunciando violazioni di legge e vizi di motivazione senza che nell’ambito della parte argomentativa del mezzo di impugnazione risulti possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio, determinano una situazione di inestricabile promiscuità, tale da rendere estremamente difficoltosa l’operazione di interpretazione e sussunzione delle censure (v., in particolare, sul punto, Cass. n. 18715 del 2016; Cass. n. 17931 del 2013; Cass. n. 7394 del 2010; Cass. n. 20355 del 2008; Cass. n. 9470 del 2008); nella sostanza il ricorrente contesta l’accertamento operato dalla Corte territoriale in ordine alla ritenuta insussistenza degli estremi per l’applicazione della normativa indennitaria in tema di esposizione all’amianto nei termini di legge, esponendo delle doglianze intrise di circostanze fattuali, mediante un pervasivo rinvio a valutazioni del tutto personali;

– in particolare, con specifico riferimento alla dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., nel giudizio di legittimità deve essere tenuta distinta l’ipotesi in cui si lamenti l’omesso esame di una domanda da quella in cui si censuri l’interpretazione che ne abbia data il giudice di merito: nel primo caso, infatti, si verte in tema di violazione dell’art. 112 c.p.c. e si pone un problema di natura processuale per la soluzione del quale la Corte di Cassazione ha il potere-dovere di procedere all’esame diretto degli atti, onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini della pronuncia richiesta; nel secondo, invece, poichè l’interpretazione della domanda e la individuazione del suo contenuto integrano un tipico accertamento dei fatti riservato, come tale, al giudice di merito, in sede di legittimità va solo effettuato il controllo della correttezza della motivazione che sorregge sul punto la decisione impugnata (Cass. 7.7.2006 n. 15603; Cass. 18.5.2012 n. 7932; Cass. 21.12.2017 n. 30684);

– conseguentemente, inammissibile deve ritenersi la censura cosi come formulata in termini di violazione di legge perchè è evidente che ciò che viene censurato è l’interpretazione che della domanda ha offerto il giudice di secondo grado;

– occorre poi rimarcare che, in tema di ricorso per cassazione, una questione di violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorchè si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (cfr. Cass. 27.12.2016 n. 27000; Cass. 19.6.2014 n. 13960);

– relativamente, poi, alla denunziata violazione dell’art. 2697 c.c., va rilevato che, per consolidata giurisprudenza di legittimità, (ex plurimis, Sez. III, n. 15107/2013) la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma e che tale ipotesi non ricorre nel caso di specie;

– per quanto concerne l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, parte ricorrente omette di considerare che il presente giudizio di cassazione, ratione temporis, è soggetto non solo alla nuova disciplina di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in base alla quale, le sentenze possono essere impugnate “per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti”, ma anche a quella di cui all’art. 348 ter c.p.c., u.c., secondo cui il vizio in questione non può essere proposto con il ricorso per cessazione avverso la sentenza d’appello che confermi la decisione di primo grado, qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado, ossia non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d, doppia conforme (v. sul punto, Cass., n. 4223 del 2016; Cass. n. 23021 del 2014);

– quindi, non possono trovare ingresso nel presente giudizio di legittimità tutte quelle censure che attengono alla ricostruzione della vicenda storica come operata dai giudici di merito e che lamentano una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo della critica alla valutazione giudiziale delle risultanze di causa, sia perchè formulate in modo difforme rispetto ai principi enunciati da Cass. SS.UU. n. 8053 del 2014, che ha rigorosamente interpretato il novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 limitando la scrutinabilità al c.d. “minimo costituzionale”, sia in quanto attingano questioni di fatto in cui la sentenza di appello ha confermato la pronuncia di primo grado;

– nella specie, infatti, la Corte, con valutazione immune da vizi logici e sottratta al sindacato di legittimità, ha ritenuto di condividere le conclusioni di entrambi i consulenti incaricati e, con esse, quelle del giudice di primo grado, che avevano escluso che il livello di esposizione del ricorrente a polveri di amianto presso la Ondulit S.p.A. avesse potuto superare gli 0,1 ff/cm in considerazione del fatto che sicuramente le attività comportanti inalazioni di tali fibre erano cessate negli anni 1993 – 1994 (secondo il primo CTU addirittura nel 1988), che il C. aveva iniziato a lavorare presso la società nel 1988 e che i testi ascoltati in primo grado, (con conseguente infondatezza della censura inerente la mancata ammissione della prova testimoniale richiesta nel primo giudizio) avevano confermato che nell’azienda considerata la polvere di amianto era stata utilizzata come materia prima sino agli anni 1991-1992;

– il quarto motivo è infondato;

– va rilevato al riguardo che, per consolidata giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. 22708 22/11/2010), nel rito del lavoro l’inosservanza, da parte del consulente tecnico d’ufficio nominato in appello, del termine assegnatogli per il deposito della consulenza, non è causa di alcuna nullità, a condizione che esso avvenga almeno dieci giorni prima della nuova udienza di discussione, conformemente al disposto dell’art. 441 c.p.c., comma 3: ove, invece, il consulente depositi la relazione peritale oltre il suddetto termine di dieci giorni, sussiste una nullità relativa, sanata se non venga fatta valere nella prima istanza o difesa successiva al suo verificarsi;

– anche il quinto motivo non può trovare accoglimento;

– invero, il principio relativo all’onere di contestazione implica che lo stesso renda il fatto pacifico e non bisognoso di prova soltanto in ordine ai fatti noti alla parte, non anche a quelli ad essa ignoti (cfr., sul punto, Cass. n. 14652 del 18/07/2016) ma, con particolare riguardo all’esposizione all’amianto, va rilevato che Cass. n. 21460 del 21/08/2019 afferma che il principio di non contestazione opera rispetto ai fatti costitutivi, modificativi o estintivi del diritto azionato e non anche in relazione a fattispecie, come quella del diritto al risarcimento danno (nella specie danno biologico da esposizione all’amianto), il cui accertamento, richiedendo un riscontro sulla condotta, sul nesso di causalità, sull’evento e sul pregiudizio, ha carattere fortemente valutativo, e che, pertanto, devono essere necessariamente ricondotte al “thema probandum” come disciplinato dall’art. 2697 c.c., la cui verificazione spetta al giudice;

– con riguardo al quinto e al sesto motivo, da esaminarsi congiuntamente per l’intima connessione, premesso che, ancora una volta, parte ricorrente esordisce richiamando integralmente tutte le censure esposte ai punti precedenti, va rilevato che essa articola la propria censura integralmente su una istanza di diversa valutazione delle conclusioni del CTU soprattutto là dove ha limitato l’indagine al periodo fino al 1994; orbene, nonostante parte ricorrente lamenti una violazione di legge, in realtà le argomentazioni da essa sostenute si limitano a criticare sotto vari profili la valutazione compiuta dalla Corte d’Appello, in particolare con riguardo alla condivisibilità delle conclusioni del CTU, tentando ancora di portare all’attenzione del giudice di legittimità una valutazione fattuale e, cioè, l’indagine concernente le caratteristiche e l’entità della esposizione all’amianto, già effettuata da due CTU e da due giudici in sede di merito e non ammissibile in sede di legittimità;

– alla luce delle suesposte argomentazioni, quindi, il ricorso va respinto;

– le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo;

– sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis e quater, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 4000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 5 marzo 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 ottobre 2020

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