Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22077 del 04/09/2019

Cassazione civile sez. I, 04/09/2019, (ud. 23/05/2019, dep. 04/09/2019), n.22077

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIDONE Antonio – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28204/2014 proposto da:

A.R., S.L., Z.C.A.,

elettivamente domiciliati in Roma Viale Di Villa Pamphili 37-3

presso lo studio dell’avvocato Di Giovanni Francesco che li

rappresenta e difende unitamente agli avvocati Maggioni Giuseppe,

Arduini Ubaldo, Tracanella Umberto;

– ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) Spa in persona curatore: P.G. e

Po.Lu., elettivamente domiciliato in Roma Via Carlo Poma 4 presso lo

studio dell’avvocato Baliva Marco che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato Ferrero Guglielmo;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2435/2013 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 15/10/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/05/2019 dal cons. Dott. FALABELLA MASSIMO;

uditi l’avv. Arduini e l’avv. Toraldo, quest’ultimo in delega;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SOLDI Anna Maria.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Con citazione notificata il 24 dicembre 1998 il fallimento (OMISSIS) s.p.a. conveniva in giudizio i componenti del consiglio di amministrazione della società in bonis che si erano avvicendati tra il 1991 e il 1993, tra cui A.R., S.L. e Z.C.A.. Deduceva la curatela che la fallita aveva costituito nel 1989 una società di diritto francese, partecipata nella misura del 99,6%, denominata (OMISSIS); rilevava che (OMISSIS) s.p.a. aveva finanziato la detta società francese a fine di acquistare un terreno edificabile nell’isola di (OMISSIS) e di realizzare ivi un insediamento turistico; il 20 novembre 1992, poi, la partecipazione societaria era stata ceduta a una società terza, (OMISSIS) SA, al prezzo complessivo di L. 3.827.748.464, da pagarsi ratealmente a mezzo di effetti; all’epoca, peraltro, la società poi fallita vantava un credito di L. 16.172.251.536 nei confronti della partecipata e la cessionaria si era impegnata a che (OMISSIS) rilasciasse a tal fine dei titoli in favore della cedente. La curatela imputava agli amministratori della società in bonis che l’iniziativa avente ad oggetto l’operazione immobiliare era stata condotta con estrema negligenza, sostenendo costi eccessivi e attuando, da ultimo, una cessione di quote in favore di una società di diritto lussemburghese che non era stata in grado di offrire garanzie con riguardo al pagamento del debito di (OMISSIS).

In esito al giudizio di primo grado, il Tribunale di Treviso respingeva l’eccezione di prescrizione sollevata dai convenuti e condannava tre di questi, tra cui A. e S., al risarcimento del danno nella misura di Euro 1.678.484,92, oltre interessi: somma da cui doveva detrarsi la quota parte di risarcimento corrisposta da altri evocati in lite in forza di un accordo transattivo da questi concluso col fallimento.

2. – Era proposto gravame, che la Corte di appello di Venezia rigettava con sentenza del 17 ottobre 2013.

3. – Contro tale pronuncia ricorrono per cassazione, con quattro motivi, illustrati da memoria, A., S. e Z.. Resiste con controricorso la curatela fallimentare.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Deve anzitutto darsi atto della rinuncia al ricorso da parte di Z.: rinuncia che risulta accettata dalla curatela. Ne discende che il giudizio, con riferimento alla posizione del detto ricorrente, deve ritenersi estinto senza statuizione in punto di spese, giusta l’art. 391 c.p.c., comma 4.

2. – Il primo motivo di ricorso denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 2394 c.c. per non aver la Corte di appello di Venezia rilevato la carenza del presupposto richiesto da detta norma per l’esercizio dell’azione di responsabilità da parte dei creditori sociali, costituito dall’insufficienza del patrimonio sociale. Viene dedotto che nell’azione ex art. 2394 c.c. è necessario che il pregiudizio patrimoniale ai creditori sociali di cui è domandato il risarcimento sia correlato, secondo un rapporto di causalità, agli atti di mala gestio degli amministratori. E’ spiegato che nella fattispecie l’azione di responsabilità promossa dal fallimento risultava fondarsi sulla contestazione dei suddetti atti di mala gestio e che la curatela non aveva dimostrato che i danni derivanti dall’operazione addebitata agli istanti avessero prodotto lo stato di insufficienza patrimoniale.

Il secondo mezzo prospetta la falsa applicazione degli artt. 2394 e 2949 c.c. e della L. Fall., art. 146 (R.D. n. 267 del 1942). Vi si sostiene che il giudice di secondo grado avrebbe mancato di valorizzare la circostanza per cui il bilancio al 30 giugno 1993, approvato dall’assemblea dei soci l’11 ottobre dello stesso anno, era stato regolarmente pubblicato e depositato. In conseguenza, la condizione di insufficienza patrimoniale della società doveva ritenersi conoscibile fin da allora: poichè con la pubblicazione del bilancio i creditori erano stati posti nella condizione di prendere atto dell’incapienza del patrimonio sociale, da tale momento doveva farsi decorrere il termine prescrizionale.

I due mezzi sono inammissibili.

La Corte di merito ha preso specificamente in esame il tema dell’insufficienza patrimoniale allorchè ha vagliato la fondatezza del motivo di gravame afferente la prescrizione del diritto al risarcimento del danno. Sul punto, il giudice distrettuale ha osservato come l’azione di responsabilità esperita dal curatore della società poi fallita nei confronti degli amministratori ex art. 2394 c.c. era soggetta alla prescrizione quinquennale decorrente dal momento in cui l’insufficenza del patrimonio sociale si era manifestata ed era divenuta conoscibile dai creditori: poichè, poi, non vi era prova in atti che il bilancio semestrale di esercizio approvato l’11 ottobre 1993 fosse stato pubblicato, doveva escludersi – secondo la Corte di appello -che potesse assumere rilievo il dato dell’insufficienza patrimoniale attestato nel detto documento: onde, in assenza di ulteriori elementi rappresentativi della conoscibilità, in capo ai terzi, dell’incapienza del patrimonio sociale per fatto imputabile agli amministratori (tali non potendo essere considerati nè la pronuncia di decreti ingiuntivi a carico della società fallita, nè la revoca degli affidamenti bancari a questa concessi, nè il mancato rispetto di un piano di rientro concordato dalla stessa (OMISSIS) con i propri fornitori), doveva ritenersi che l’azione di responsabilità spettante ai creditori non fosse preclusa dall’eccepita prescrizione.

Ciò detto, la prima delle censure svolte ha ad oggetto una questione – quella attinente al nesso di causalità tra la condotta di mala gestio e l’insorgenza dell’insufficienza patrimoniale della società – che la sentenza impugnata non prende specificamente in esame e che gli istanti non indicano quale tema della precorsa fase di merito. Ebbene, ove con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. 9 agosto 2018, n. 20694; Cass. 13 giugno 2018, n. 15430; Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675; cfr. pure: Cass. 28 luglio 2008, n. 20518; Cass. 26 febbraio 2007, n. 4391; Cass. 12 luglio 2006, n. 14599; Cass. 2 febbraio 2006, n. 2270).

Per quel che attiene, invece, alla dedotta conoscibilità dell’insufficienza patrimoniale, che è materia del secondo motivo di ricorso, deve premettersi che l’azione sociale di responsabilità, pur quando sia esercitata dal curatore del fallimento, si prescrive nel termine di cinque anni, con decorrenza dal momento dell’oggettiva percepibilità, da parte dei creditori, dell’insufficienza dell’attivo a soddisfare i debiti (Cass. 4 dicembre 2015, n. 24715; Cass. 12 giugno 2014, n. 13378; cfr. pure Cass. 22 aprile 2009, n. 9619): la prescrizione decorre, cioè, dal momento in cui l’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti risulti da qualsiasi fatto che possa essere conosciuto (Cass. 14 dicembre 2015, n. 25178).

Come si è rilevato, la Corte di appello ha rimarcato mancasse la prova circa la pubblicazione del bilancio approvato l’11 ottobre 1993: sicchè la non conoscibilità della ircapienza patrimoniale da parte dei terzi è stata argomentata sulla scorta di un dato oggettivo, il cui accertamento sfugge, come è evidente, al sindacato di legittimità. Vero è, pertanto, che un bilancio di esercizio che segnali una situazione patrimoniale in negativo è idoneo a rendere manifesto lo stato di incapienza della società (così Cass. 25 luglio 2008, n. 20476, citata dai ricorrenti): ma è altrettanto indubbio che se il bilancio non è oggetto di pubblicazione, a norma dell’art. 2435 c.c., la conoscenza della situazione patrimoniale deficitaria resta circoscritta agli organi sociali e la sua conoscibilità da parte dei terzi non può essere utilmente affermata.

3. – Il terzo motivo oppone la contraddittoria e insufficiente motivazione in ordine alla qualificazione della vendita della controllata (OMISSIS) come decisione “futura”. La censura investe l’affermazione della Corte di merito secondo cui dall’assunzione della carica di amministratore derivava l’assunzione della responsabilità per le successive determinazioni della società. Si obietta che l’operazione di cessione era stata deliberata dai precedenti amministratori e che il dato dell’impossibilità, da parte dei nuovi consiglieri, di prendere visione delle decisioni assunte prima del loro insediamento appariva del tutto plausibile, considerando il limitato lasso di tempo intercorso tra l’assunzione della carica e il trasferimento della partecipazione societaria. Inoltre – si deduce -, i ricorrenti si trovavano ad operare in un settore in cui operava la delega di funzioni ed essi non avevano gli elementi per poter vigilare sulla gestione dell’affare di cui trattasi.

Col quarto motivo viene dedotta l’omessa motivazione in ordine al concreto esame della mancata diligenza degli amministratori. Sostengono gli istanti di dover rispondere della sola omissione di cautele, verifiche e informazioni preventive normalmente richieste per la determinazione da assumere: in conseguenza, il giudice distrettuale “avrebbe dovuto motivare espressamente le mancanze addebitabili agli odierni ricorrenti, pena la censura di una mera valutazione discrezionale dell’amministrazione”.

Anche tali motivi, che ineriscono al tema della negligenza attribuita agli amministratori nell’operazione di cessione delle quote della partecipata di diritto francese, sono inammissibili.

La motivazione spesa dalla Corte di appello per dar ragione della responsabilità dei ricorrenti non è censurabile in questa sede. E’ noto, difatti, che nella nuova formulazione dell’art. 360, n. 5, risultante dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. n. 134 del 2012, è mancante ogni riferimento letterale alla “motivazione” della sentenza impugnata, con la conseguenza che è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054): la pronuncia impugnata non evidenzia alcuno di tali vizi ed è, al contrario, del tutto perspicua. Si legge nella sentenza della Corte veneta che l’operazione di cessione venne deliberata il 19 novembre 1992, successivamente all’assunzione della carica di amministratori da parte degli odierni ricorrenti, intervenuta il precedente 29 ottobre e che, pertanto, questi dovevano rispondere delle determinazioni assunte nel periodo successivo al loro insediamento (così dovendosi evidentemente intendere “l’assunzione di responsabilità per le decisioni future”). Del tutto intellegibile è, poi, l’ulteriore rilievo, svolto nella pronuncia, secondo cui la prospettata mancata conoscenza dei problemi connessi alla gestione non potrebbe costituire un’esimente per gli stessi istanti.

Ogni ulteriore considerazione sul punto risulterebbe esorbitante rispetto all’area che può oggi assegnarsi alla censura motivazionale e finirebbe per tradurre il controllo di legittimità in un sindacato su valutazioni che sono riservate al giudice del merito. E’ solo il caso di aggiungere che la deduzione incentrata sulla delega di funzioni, oltre a riflettere una questione che i ricorrenti non spiegano come sia stata veicolata in appello, risulta comunque inconferente nei termini in cui è stata svolta: infatti, l’art. 2392 c.c., nel testo vigente anteriormente alle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 6 del 2003, impone a tutti gli amministratori di società per azioni un dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione, che non viene meno nella ipotesi di attribuzioni proprie di uno o più amministratori, restando anche in tal caso a carico dei medesimi l’onere della prova di essersi diligentemente attivati per porre rimedio alle illegittimità rilevate (per tutte: Cass. 21 marzo 2018, n. 6998).

4. – Il ricorso di A. e S. va dunque dichiarato inammissibile.

5. – Le spese del giudizio tra i ricorrenti non rinuncianti e il controricorrente seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dichiara estinto il giudizio con riferimento a Z.C.A. e dichiara inammissibile il ricorso quanto agli altri ricorrenti; condanna A.R. e S.L. al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte di A. e S., dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 1 Sezione Civile, il 23 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 settembre 2019

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