Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22064 del 13/10/2020

Cassazione civile sez. lav., 13/10/2020, (ud. 27/11/2019, dep. 13/10/2020), n.22064

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11347/2016 proposto da:

C.M., elettivamente domiciliato in ROMA, SALITA DI SAN

NICOLA DA TOLENTINO 1/B, presso lo studio dell’avvocato DOMENICO

NASO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

B.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEL PODERE ROSA

133, presso lo studio dell’avvocato CORRADO BIBBO’, rappresentato e

difeso dall’avvocato GIUSEPPE GALLO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 37/2016 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 29/02/2016 R.G.N. 321/2015;

LA CORTE, visti gli atti e sentito il consigliere relatore.

 

Fatto

RILEVA

Che:

La Corte d’Appello di Brescia con sentenza n. 37 in data 28 gennaio – 29 febbraio 2016, in accoglimento del gravarne interposto da B.M., nella qualità di titolare dell’omonima ditta individuale, contro C.M., avverso la decisione emessa il 3 aprile 2015 dal Tribunale di Mantova, riformava quest’ultima revocando il decreto ingiuntivo, a suo tempo opposto dal B. (n.q.), dichiarando peraltro interamente compensate tra le parti le spese relative ad entrambi gradi del giudizio. Secondo la Corte distrettuale, posto che le firme sui prospetti paga non erano state disconosciute dal lavoratore e che neppure era stata proposta querela di falso (circa le ulteriori parole, che si assumevano essere state inserite abusivamente dal datore di lavoro per dimostrare la ricezione delle somme di danaro indicate nelle stesse buste paga prodotte da parte opponente), erano da considerarsi dimostrate le relative quietanze di pagamento dedotte da parte datoriale, di modo che era anche inammissibile la prova per testi in senso contrario richiesta dal lavoratore istante. D’altro canto, i pagamenti de quibus risultavano anche dimostrati dagli assegni di conto corrente bancario prodotti in appello dal datore di lavoro, di cui lo stesso si era riservato il deposito, avuto riguardo al ritardo con il quale detti titoli erano stati consegnati al correntista dalla banca trattaria, visto inoltre l’esito del giudizio di primo grado favorevole all’opposto, laddove invalidamente non era stata considerata la necessità di apposita querela di falso da parte del lavoratore per dimostrare l’assenza di collegamento tra provenienza del documento non disconosciuto e quanto ivi risultante da parte del dichiarante circa le somme indicate come corrisposte;

avverso la sentenza d’appello il signor C.M. proponeva ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, cui resisteva il sig. B.M. con controricorso del 17 giugno 2016.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

“in via pregiudiziale”, il ricorrente ha reiterato l’eccezione d’inammissibilità a suo tempo proposto dal B., per violazione degli artt. 434-342, 436 bis, 348 bis e 348 ter c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, risultando palese che la mera reiterazione da parte appellante della tesi difensiva, che non teneva conto delle ragioni della decisione impugnata, risultava inidonea a determinare sia l’effetto demolitorio di tali ragioni, sia l’effetto sostitutivo delle stesse con nuova motivazione, per cui era invece richiesto il superamento critico del precedente assunto decisorio;

quanto, poi, ai merito del ricorso, con il primo motivo il C. ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, ha denunciato violazione e /o falsa applicazione dell’art. 2702 c.c., artt. 214,215,221 e 116 c.p.c., nonchè art. 2697 c.c., per aver ritenuto la Corte d’Appello che le dicitura apposte sui cedolini paga prodotti ex adverso dovessero qualificarsi come scritture private autenticate e/o riconosciute, facenti piena prova nel caso in cui la controparte non abbia proposto querela di falso, “anche a fronte del disconoscimento formale in causa effettuato dal C., della relativa apposizione sia da parte delle parti in causa, sia da parte di terzi estranei alla causa, al momento della sottoscrizione della busta paga avvenuta per ricevuta del prospetto paga, come peraltro emerso dall’escussione testimoniale ammessa dal giudice di prime cure”. Per contro, secondo il ricorrente, in caso di contestazione – ancorchè senza la proposizione di querela di falso – la documentazione in parola era da considerare inutilizzabile come prova, “posto che tali diciture, non essendo soggette alla disciplina sostanziale di cui all’art. 2702 c.c. e a quella processuale di cui all’art. 214 c.p.c., risultano inidonee a costituire, di per sè sole, l’unica fonte di convincimento del giudice di merito, pur essendo dotate di valenza probatoria siccome suscettibili di integrare il fondamento della decisione nel concorso di altri elementi che ne confortino l’attendibilità e la credibilità. Ne consegue che tali diciture, essendo contestate dal C. nel corso del giudizio di primo grado, nella loro autenticità in qualsiasi modo ed anche oltre il termine costituito dalla prima udienza o prima risposta successiva alla luce del documento medesimo, hanno correttamente consentito al giudice di prime cure di fare salva poi ogni valutazione sul piano probatorio del contenuto del documento stesso”. Sul punto parte ricorrente ha pure richiamato Cass. sez. un. civ. n. 15169/2010. Dunque, le scritture private verosimilmente comparabili alle diciture rilevate sulle buste paga prodotte dal B. potevano essere liberamente contestate, non valendo per le stesse la disciplina di cui all’art. 2702 c.c. e art. 214 c.p.c., atteso che le medesime integravano prove atipiche il cui valore probatorio era puramente indiziario, potendo quindi contribuire a fondare il convincimento del giudice con altri dati probatori acquisiti al processo. Di conseguenza, correttamente era stata ammessa dal giudice adito la prova per testi richiesta;

con il secondo motivo parte ricorrente ha richiamato l’art. 2697 c.c. e dedotto la tardività dell’eccezione di querela di falso e della relativa decadenza, posto che nella specie, come già rilevato dal primo giudicante, sul B. ricadeva l’onere probatorio di aver pagato al C. le somme di cui alla anzidetto decreto ingiuntivo, onere tuttavia non assolto dall’opponente, mentre la sentenza di secondo grado si era limitata stralciare l’istruttoria in precedenza svolta sull’errato presupposto che il Tribunale non avrebbe dovuto disporre la prova testimoniale, in quanto il valore probatorio delle dichiarazioni sottoscritte dal C. si sarebbe potuto valutare soltanto in sede di apposito procedimento civile di querela di falso, come rilevato dalla difesa di parte appellante, tuttavia tardivamente soltanto in sede di gravame, trattandosi di eccezione di parte che andava sollevata con il primo atto utile, nel caso di specie con il ricorso in opposizione a decreto ingiuntivo. Peraltro, l’opponente in primo grado non aveva in alcun modo chiesto la modifica o la revoca dell’ordinanza di ammissione della prova per testi, con conseguente decadenza del diritto di poterla chiedere successivamente;

con il terzo motivo è stata dedotta la violazione e o falsa applicazione dell’art. 2702 c.c., nonchè degli artt. 221 e 335 c.p.c., in connessione con l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per vizio di motivazione della sentenza impugnata circa un punto decisivo della controversia, attesa l’omessa valutazione, da parte della Corte distrettuale della evidente tardività dell’eccezione di falso sollevata unicamente con l’atto d’appello, donde la mancata declaratoria d’inammissibilità, tenuto conto delle preclusioni di cui agli artt. 183,184 e 416 c.p.c., sicchè il termine ultimo per proporre l’eccezione de qua, anche alla luce del disconoscimento operato, coincideva con il primo atto di causa immediatamente successivo a detto disconoscimento ovvero con la prima udienza successiva;

infine, con il quarto motivo, il ricorrente ha lamentato violazione e o falsa applicazione dell’art. 2702 c.c., nonchè dell’art. 210 c.p.c., art. 347 c.p.c., comma 2 e art. 335 c.p.c., in connessione con l’art. 360 c.p.c., n. 5, essendo l’impugnata sentenza gravemente viziata per carenza di motivazione in ordine all’ammissione documenti prodotti tardivamente ex adverso “con il secondo grado di giudizio – documenti sub n. 3 a n. 13”. La motivazione della sentenza d’appello sul punto, decisivo, risultava assolutamente generica, illogica e del tutto carente. Per contro, il B. era decaduto dalla produzione documentale, cui ben avrebbe potuto provvedere in primo grado, donde la sua tardività e la conseguente inammissibilità del deposito in appello. Anche l’ordinanza del 4 dicembre 2013, di ammissione della prova per testi emessa dal primo giudicante, non aveva accolto l’istanza di parte opponente formulata ex art. 210 c.p.c., in seguito mai più reiterata nel corso del giudizio di primo grado. Ad ogni modo, il C. contestava integralmente anche la “indispensabilità ai fini del presente giudizio” della documentazione in questione, prodotta dall’appellante, posto che l’appellato anche nel merito aveva contestato recisamente sia che tali documenti (assegni bancari) comprovassero pagamenti, anche parziali dell’importo di Euro 20.963,01 di cui all’opposto decreto ingiuntivo, sia che gli stessi assegni afferissero a pagamenti delle retribuzioni mensili dal giugno 2011 al maggio 2013. Peraltro, si contestava che tale documentazione fosse idonea a provare in qualche misura qualsivoglia rapporto di causalità diretta tra gli assegni de quibus e la somma intimata a saldo delle retribuzioni mensili dovute dal giugno 2011 al maggio 2013. Era stata anche dedotta la non pertinenza dei documenti nn. 3, 4, 5, 6 e 7, aventi quali beneficiario esso C.M., rispetto alla versione dei fatti sostenuta dall’opponente, atteso che ivi costui aveva sostenuto di aver corrisposto al C. bonifici bancari ed assegni da decurtare dall’importo di 20963,01 Euro, unicamente intestandoli al coniuge del ricorrente, sig.ra BA.TO., ma mai al C… Quanto poi agli ulteriori documenti allegati dall’appellante, era stato contestato che gli stessi avessero la valenza probatoria di acconti sulla maggior somma ingiunta. In particolare, quanto i documenti nn. 11, 12 e 13, gli stessi corrispondevano ad acconti erogati a mezzo assegni bancari, i cui importi erano stati già detratti dal maggior credito vantato “di Euro 20.963,01 e dei quali il C. aveva già dato atto nel ricorso per decreto ingiuntivo ed evincibili sub doc. 5 (prospetto sindacale Cisl) prodotto con il ricorso monitorio. In ordine a tutte le deduzioni e le eccezioni svolte dal C. con il ricorso in appello su tale punto decisivo della controversia, la Corte d’Appello di Brescia nulla ha motivato, limitandosi, sulla base di una errata valutazione delle prove, ad abbattere il credito del C., decurtando peraltro, una seconda volta, gli importi di cui ai documenti sub. numero 11, 13, 14 prodotti dal B., che il C. aveva già dedotto a titolo di acconto, dandone atto con il ricorso per decreto ingiuntivo. L’assoluta illogicità e carenza di motivazione su tale punto decisivo della controversia richiedeva la cassazione della sentenza” impugnata;

tanto premesso, le anzidette doglianze devono disattendersi per le seguenti ragioni; risulta, in primo luogo inammissibile la reiterata eccezione preliminare circa la pretesa invalidità dell’appello proposto dal B., non solo per difetto di autosufficienza ex art. 366 c.p.c., n. 6, in ordine alla mancata esauriente riproduzione del suddetto gravame, ma anche perchè gli asseriti errores in procedendo gnnn stati irritualmente denunciati in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, comunque non univocamente in termini di nullità ai sensi e per gli effetti dell’art. 360 c.p.c., n. 4 (Cfr. Cass. II civ. n. 24247 del 29/11/2016 e n. 10862 del 07/05/2018, nonchè sez. un. civ. n. 17931 del 24/07/2013). Per giunta, la doglianza appare anche infondata alla luce dei principi elaborati in materia da questa Corte di legittimità, secondo cui (cfr. Cass. sez. un. civ. n. 27199 del 16/11/2017) gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 2012, vanno interpretati ne senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a Quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (in senso conforme, tra le altre, Cass. Sez. 6 – 3, ordinanza n. 13535 del 30/05/2018);

per il resto, quanto alle altre doglianze mosse dal ricorrente, le stesse appaiono inconferenti alla luce di quanto apprezzato ed accertato con più che sufficiente motivazione (ad ogni modo non inferiore al c.d. minimo costituzionale occorrente a norma dell’art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c., n. 4) dalla Corte di merito, secondo cui in sintesi in difetto di specifici e pertinenti disconoscimenti operati dal C. – in relazione alle proprie firme in calce alle quietanze a saldo (“per ricevuta della somma totale della busta paga”, o “per ricevuta della somma indicata nella busta paga totale” e simili) risultanti dalle buste paga prodotte dall’opponente, e riguardo alla conformità della copia di tali listini rispetto ai cedolini depositati in sede monitoria per ottenere l’invocato decreto ingiuntivo – occorreva soltanto apposita querela di falso da parte interessata per poter dimostrare la non veridicità delle dichiarazioni per contro risultanti apposte e seguite dalle sottoscrizioni del dipendente unitamente alla data, attesa l’autenticità delle firme e delle stesse buste paga in copia, ex art. 214 c.c. e art. 2712 c.c.. Per contro, il C. si era limitato a sostenere di non aver mai redatto le dichiarazioni in questione (“…disconosce sin da ora le suddette diciture/apposizioni; contestando di averle mai redatte/compilate, tanto più a titolo di quietanza di pagamento rilasciata al sig. B.M., quale asserita “attestazione per ricevuta della somma totale in esse indicate e relativa sottoscrizione”, contestandone altresì l’indicazione/presenza sulle buste paga e facendo riserva, sin da ora, anche eventualmente di agire in sede penale, a propria tutela”. In proposito, quindi, la sentenza impugnata richiamava la pronuncia di questa Corte (II sez. civ.) n. 10231 del 2013 (che invero risulta così motivata: “… Osserva, al riguardo, il collegio che, secondo la condivisibile giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad es., Cass. n. 534 del 1978; Cass. n. 6358 del 1981; Cass. n. 3452 del 1998 e, per opportuni riferimenti, anche le più recenti Cass. n. 25445 del 2010 e Cass. n. 12892 del 2012), poichè il valore di prova legale della scrittura privata riconosciuta (o da considerarsi tale), è limitato alla provenienza della dichiarazione dal sottoscrittore e non si estende al contenuto della dichiarazione stessa, qualora si deduca la falsità materiale della scrittura medesima è necessario esperire la querela di falso per rompere il collegamento, quanto a provenienza, tra dichiarazione e sottoscrizione. Allo stesso modo è stato chiarito che, nel caso di abusivo riempimento parziale di un documento (debitamente sottoscritto) avvenuto “absque pactis”, cioè senza che il suo autore sia stato autorizzato dal sottoscrittore, con preventivo accordo, si viene a versare in una ipotesi di vera e propria falsità materiale, che investe il modo di essere sul piano oggettivo dell’atto, ovvero la realtà grafica che esso è destinato ad assumere e conservare, sicchè la contestazione del testo del documento, una volta riconosciuta la sottoscrizione, non può essere fatta valere che con la querela di falso, imponendosi la necessità di far accertare l’interruzione del collegamento tra sottoscrizione e dichiarazione, quanto alla provenienza di questa dall’apparente sottoscrittore. Pertanto, con riferimento alla fattispecie in questione, deve affermarsi che, poichè in caso allegazione dell’abusività di aggiunta di contenuti di una scrittura privata di cui non si disconosce la sottoscrizione (come nella specie, laddove si era addotto che le scritte relative alla redazione delle due ricevute di pagamento), viene a configurarsi la contestazione del collegamento fra scrittura ed autore, la parte eccipiente non può limitarsi al mero disconoscimento dell’autenticità della scrittura (come, invece, ritenuto sufficiente dalla Corte di appello, nella controversia di cui trattasi) ma è onerata – in funzione dell’ottenimento dell’eventuale caducazione dell’efficacia probatoria del documento – a proporre querela di falso in sede civile (rimanendo, ovviamente, irrilevante, a tal fine, ogni riferimento all’eventuale querela formulata in ambito penale), dal momento che, in tal caso, si viene a versare in una ipotesi assimilabile a quella di un falso materiale. Da ciò consegue che, nella controversia in esame, la società opposta in primo grado, nel contestare la parziale alterazione materiale delle predette ricevute di pagamento (le cui risultanze erano rilevanti in funzione della valutazione dell’imputazione e dell’esaustività del pagamento effettuato dal F), al fine di superare l’efficacia probatoria di tali documenti, non si sarebbe dovuta limitare al mero disconoscimento delle scritture medesime (per effetto della loro sopravvenuta alterazione), ma era onerata a formalizzare la querela di falso civile. Pertanto, contrariamente a quanto statuito dalla Corte di secondo grado, il F non avrebbe dovuto manifestare la sua volontà di volersi avvalere dei menzionati documenti contabili, la cui genuinità era stata contestata dalla s.r.l. – siccome frutto di contraffazioni od alterazioni tradottesi nell’apposizione abusiva delle imputazioni di pagamento assunta come avvenuta in un momento successivo alla loro formazione, ragion per cui la loro efficacia probatoria poteva essere recuperata soltanto attraverso il positivo esperimento della querela di falso, il cui onere di attivazione incombeva alla indicata società che aveva inteso porre in discussione tale efficacia per effetto dell’avvenuta configurazione del riferito tipo di falsità. Alla stregua delle esplicate ragioni si deve, quindi, pervenire all’accoglimento del motivo qui esaminato, a cui consegue l’assorbimento del secondo motivo…”). Per contro, il C. nella specie non aveva proposto la necessaria querela di falso, come peraltro specificamente dedotto dall’appellante, di guisa che non poteva ritenersi superata l’efficacia probatoria dei suddetti documenti, ragion per cui doveva ritenersi accertato in causa che il C. aveva rilasciato le valide quietanze di pagamento in discussione, essendo peraltro irrilevante che le copie di listini paga in possesso del lavoratore non recassero alcuna scritta o firma dello stesso, laddove evidentemente soltanto il debitore adempiente era interessato ad ottenere e disporre della quietanza di pagamento rilasciata dal creditore. Dunque, le anzidette quietanze, non assimilabili a rinunce o transazioni ex art. 2113 c.c., prodotte dall’opponente B., integrando atti unilaterali di riconoscimento del pagamento e quindi confessioni stragiudiziali provenienti dal debitore e dirette al creditore, dimostravano pienamente l’avvenuto pagamento delle somme ivi indicate, non risultando del resto provato alcun errore di fatto o alcuna violenza ex art. 2732 c.c., sicchè non potevano essere smentite da altri elementi probatori desumibili da deposizioni testimoniali o da presunzione. Infine, premessa l’irrilevanza del fatto che ie anzidette buste non indicavano le modalità del pagamento, una volta comunque accertato nei sensi di cui sopra lo stesso, la Corte osservava – soltanto per completezza – che l’appellante aveva prodotto numerosi assegni emessi a favore del C. e anche del coniuge di questi (secondo un uso incontestato tra le parti circa la possibilità di effettuare i pagamenti anche con bonifico da accreditare sul conto corrente della moglie), i quali coprivano quasi tutto il credito vantato dal lavoratore “(detraendo dall’importo totale di questi assegni, l’importo degli assegni che il C. aveva già considerato quando aveva calcolato gli acconti ricevuti, residuerebbe…. un credito lordo per Euro 6263,00 che, evidentemente, non può escludersi sia stato saldato dal datore di lavoro con altre modalità)”. Detta ulteriore produzione documentale giudicata certamente ammissibile e rilevante, anche in considerazione del fatto che la sentenza appellata, in difformità dai principi generali e consolidati in materia di quietanze di pagamento e di loro efficacia probatoria, aveva completamente vanificato le difese dell’appellante, in realtà fondate;

pertanto, gli accertamenti in punto di fatto con relative motivate valutazioni a cura della Corte di merito, esclusivamente competente al riguardo, risultano chiaramente incensurabili in questa sede di legittimità, laddove d’altro canto non emerge alcun omesso esame di fatti rilevanti e decisivi da parte della stessa Corte, nei sensi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nuovo vigente testo qui ratione temporis applicabile in relazione alla sentenza impugnata, risalente all’anno 2016 e pronunciata a seguito di ricorso in appello depositato il 12 agosto 2015 – cfr. tra le altre sul punto Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014, nonchè la conforme giurisprudenza di questa Corte in proposito);

le argomentazioni svolte, poi, con quello che il ricorrente indica come primo motivo, sono infondate alla luce dell’orientamento giurisprudenziale opportunamente richiamato dalla sentenza impugnata (di cui alla succitata pronuncia di Cass. n. 10231/13. V. parimenti Cass. II civ. n. 6534 del 14/03/2013, secondo cui, dedotta in giudizio dal creditore la falsità materiale di una quietanza, sul presupposto che il debitore – successivamente alla sottoscrizione da parte del creditore, non disconosciuta – abbia apposto la dicitura “a saldo di ogni avere”, è onere del sottoscrittore proporre querela di falso per fornire la prova dell’avvenuta contraffazione del documento ed interrompere il collegamento, quanto alla provenienza, tra dichiarazione e sottoscrizione.

Cfr. altresì Cass. I civ. n. 18323 del 30/08/2007: la querela di falso postula – nell’ipotesi di sua proposizione relativa a scrittura privata – che quest’ultima sia stata riconosciuta, volontariamente dal suo autore o che debba considerarsi legalmente come tale, e che il querelante intenda eliminare la sua efficacia probatoria attribuitale dall’art. 2702 c.c., o, almeno, voglia contestare la genuinità dell’inerente documento, ragion per cui la proponibilità della suddetta querela presuppone, in ogni caso, che la scrittura alla quale si rivolge sia stata sottoscritta, costituendo, invero, la sottoscrizione un suo elemento essenziale. V. ancora Cass. II civ. n. 18664 del 30/10/2012, secondo cui la scrittura privata, una volta intervenuto il riconoscimento o un equipollente legale di questo, è assistita da una presunzione di veridicità per quanto attiene alla riferibilità di essa a suo sottoscrittore, sicchè la difformità tra l’imputabilità formale del documento e l’effettiva titolarità della volontà che esso esprime, quando non attenga ad un’intrinseca divergenza del contenuto, ma all’estrinseco collegamento dell’espressione apparente, non è accertabile con i normali mezzi di contestazione e prova, ma soltanto con lo speciale procedimento previsto dalla legge per infirmare il collegamento fra dichiarazione e sottoscrizione, cioè con la querela di falso. In senso conforme Cass. III civ. n. 3532 del 06/12/1972 e n. 1258 del 1971);

non pertinente al caso di specie qui in esame è il richiamo al principio affermato da Cass. sez. un. civ. n. 15169 del 23/06/2010, che riguarda infatti soltanto le scritture private provenienti da terzi estranei alla lite (ciò che evidentemente non è per le buste paga sottoscritte dal C., che nel contestarne il contenuto, senza formalizzare apposita querela di falso, non vi ha disconosciuto le proprie firme ivi apposte). Invero, secondo la succitata pronuncia, esclusivamente le anzidette scritture di TERZI possono essere liberamente contestate dalle parti, non applicandosi alle stesse nè la disciplina sostanziale di cui all’art. 2702 c.c., nè quella processuale di cui all’art. 214 c.p.c., atteso che esse costituiscono prove atipiche il cui valore probatorio è meramente indiziario, e che possono, quindi, contribuire a fondare il convincimento del giudice unitamente agli altri dati probatori acquisiti al processo (con l’ulteriore precisazione, poi, che nell’ambito delle scritture private deve, peraltro, riservarsi diverso trattamento a quelle la cui natura conferisce loro una incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata, tale da richiedere la querela di falso onde contestarne l’autenticità. V. parimenti Cass. III civ. n. 23155 del 31/10/2014, secondo cui l’onere di disconoscimento della scrittura privata previsto dagli artt. 214 e 215 c.p.c., presuppone che il documento prodotto contro una parte del processo provenga dalla parte stessa, mentre non opera nel diverso caso della scrittura proveniente da un terzo, non producendosi in tal caso l’effetto di inutilizzabilità della scrittura che – disconosciuta – non sia stata fatta oggetto di verificazione ex art. 216 c.p.c.. Ne consegue che, se la scrittura proveniente da un terzo sia stata disconosciuta dalla parte contro cui è prodotta in giudizio, la stessa va valutata, con valore indiziario, nel contesto degli altri elementi circostanziali, ai fini della decisione); va disatteso altresì il motivo rubricato da parte ricorrente come “2. Norme procedurali. Art. 2697 c.c.. Tardività dell’eccezione di querela di falso e relativa decadenza”, anche qui per difetto di complete allegazioni occorrenti a norma dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6, circa il pregresso iter processuale, nonchè per difetto di univoca impugnazione in termini di nullità ex art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione ai pretesi menzionati errores in procedendo. D’altro canto, la mancanza della necessaria querela di falso per invalidare le risultanze istruttorie derivanti dall’omesso disconoscimento della firma apposta su scrittura privata, inerendo alla corretta valutazione delle prove, nei sensi previsti dall’art. 116 c.p.c., ed alla stregua dei succitati principi di diritto, era pure rilevabile d’ufficio, avuto riguardo altresì al potere di qualificazione giuridica riservato al giudice in ordine alle allegazioni e deduzioni di parte, sicchè non richiedeva apposita eccezione in senso tecnico. Di conseguenza, l’erronea applicazione della normativa in materia ben poteva essere dedotta in appello, laddove tra l’altro l’art. 437 c.p.c., fa riferimento al divieto di nuove domande ed eccezioni, quindi in senso proprio, e non già a difese in senso lato. Peraltro, la natura pubblica del procedimento relativo alla querela di falso è confermata anche dalle peculiari formalità richieste dagli artt. 221 c.p.c. e segg., per cui è previsto, tra l’altro, l’intervento obbligatorio del pubblico ministero, mentre la decisione sulla querela compete esclusivamente ad un giudice collegiale, che in caso di accoglimento impartisce le disposizioni previste in materia dal codice di procedura penale e la cui esecuzione, ove non richiesta dalle parti, è promossa dal p.m., a spese del soccombente, con l’osservanza, in quanto applicabili, delle norme di cui all’art. 481 c.p.p. (previgente, corrispondente all’attuale 675);

inoltre, va ricordato che il principio di acquisizione probatoria comporta l’impossibilità per le parti di disporre degli effetti delle prove ormai assunte, le quali possono giovare o nuocere all’una o all’altra parte indipendentemente da chi le abbia dedotte, ma non già l’obbligo del giudice di considerare e tener comunque ferme tutte le prove sol perchè già espletate, ancorchè ammesse in violazione di norme di legge (Cass. sez. 6 – 2, ordinanza n. 15480 del 14/09/2012, secondo cui, di conseguenza, legittimamente il giudice d’appello può ritenere erroneamente ammessa in primo grado, e dunque non utilizzabile ai fini della sua decisione, la prova testimoniale diretta a contestare, al di fuori del procedimento di querela di falso, un fatto il cui accertamento sia assistito da fede pubblica privilegiata.

Cfr. altresì Cass. II civ. n. 7789 del 05/04/2011, secondo cui il giudice ha l’obbligo di rilevare d’ufficio l’esistenza di una norma di legge idonea ad escludere, alla stregua delle circostanze di fatto già allegate ed acquisite agli atti di causa, il diritto vantato dalla parte, e ciò anche in grado di appello, senza che su tale obbligo possa esplicare rilievo la circostanza che, in primo grado, le questioni controverse abbiano investito altri e diversi profili di possibile infondatezza della pretesa in contestazione e che la statuizione conclusiva di detto grado si sia limitata solo a tali diversi profili, atteso che la disciplina legale inerente al fatto giuridico costitutivo del diritto è di per se sottoposta al giudice di grado superiore, senza che vi ostino i limiti dell’effetto devolutivo dell’appello; parimenti, a norma dell’art. 342 c.p.c., il giudizio di appello, pur limitato all’esame delle sole questioni oggetto di specifici motivi di gravame, si estende ai punti della sentenza di primo grado che siano, anche implicitamente, connessi a quelli censurati, derivandone che non viola il principio del “tantum devolutum quantum appellatum” il giudice di appello che fondi la propria decisione su ragioni diverse da quelle svolte dall’appellante nei suoi motivi, ovvero esamini questioni non specificamente da lui proposte o sviluppate, le quali però appaiano in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi, e come tali comprese nel “thema decidendum”. In senso conforme, id. n. 11287 del 10/05/2018, nonchè Cass. sez. un. civ. n. 10933 del 7/11/1997.

Cfr. altresì Cass. III civ. n. 21659 – 08/11/2005: l’effetto devolutivo dell’appello entro i limiti dei motivi di impugnazione preclude al giudice del gravame solo la possibilità di estendere le sue statuizioni ai punti della sentenza di primo grado non direttamente investiti dal gravame, ma solo in quanto essi non siano compresi nel “thema decidendum” neanche per implicito. In senso analogo Cass. III civ. n. 443 – 11/01/2011, secondo cui, per l’effetto, non viola il principio del “tantum devolutum quantum appellatum” il giudice di appello che fondi la propria decisione su ragioni diverse da quelle svolte dall’appellante nei suoi motivi, ovvero esamini questioni non specificamente da lui proposte le quali appaiono, nell’ambito della censura proposta, in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi, costituendone un necessario antecedente logico e giuridico. Conforme id. n. 26374 del 16/12/2014 ed analogamente Cass. I civ. n. 1377 del 26/01/2016, nonchè sez. lav. n. 8604 del 3/4/2017);

le precedenti considerazioni, anche in ordine al difetto di autosufficienza, valgono pure in relazione al motivo indicato con il numero 3 dal ricorso de quo (pagg. 21 e 22), laddove, a parte l’insussistenza dell’asserito vizio di motivazione (comunque nello specifico di sicuro non inferiore al minimo costituzionale), detto preteso vizio, integrante error in procedendo per violazione dell’art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c., n. 4, non è stato ad ogni modo ritualmente denunciato univocamente in termini di nullità (cfr. Cass. Sez. 6 – 3, ordinanza n. 22598 del 25/09/2018: in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non è più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione, ma i provvedimenti giudiziari non si sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111 Cost., comma 6 e, nel processo civile, dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4. Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perchè perplessa ed obiettivamente incomprensibile) e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. In senso analogo v. anche Cass. n. 23940 del 2017);

parimenti deve osservarsi per l’anzidetta quarta censura (pagg. 23-27 del ricorso), laddove ancora una volta irritualmente si denuncia altro vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, che nella sua vigente formulazione attiene invece soltanto all’omesso esame di un fatto, storico e decisivo, da parte del giudice di merito, e non più alla motivazione (per quanto già detto integrante invece un error in procedendo), omesso esame (di quaestio facti, non juris) per contro nella specie inesistente, visto che la Corte d’Appello ha ritenuto invece ammissibile l’ulteriore documentazione prodotta dall’appellante, giudicandola altresì rilevante con il surriferito apprezzamento di merito, pure in relazione a quanto dedotto dal C. in sede monitoria con la richiesta del decreto ingiuntivo circa gli acconti ricevuti, peraltro esaminando la questione soltanto per completezza, attesa pure la rilevata superfluità di tale documentazione ove il primo giudicante si fosse attenuto ai richiamati principi di diritto circa l’efficacia probatorie delle riscontrate quietanze di pagamento (quindi effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata), donde l’indispensabilità soltanto in seguito alla errata decisione gravata e quindi riformata;

infine, con il rigetto del ricorso la parte rimasta soccombente va condannata al rimborso delle relative spese, sussistendo, quindi, anche i presupposti di legge per il versamento dell’ulteriore contributo unificato, stante l’esito interamente negativo dell’impugnazione qui proposta.

PQM

la Corte RIGETTA il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore del controricorrente in Euro 2500,00 (duemilacinquecento/00) per compensi professionali ed in Euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a.

come per legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 27 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 ottobre 2020

 

 

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