Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22050 del 28/10/2015


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 22050 Anno 2015
Presidente: PETITTI STEFANO
Relatore: PETITTI STEFANO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
GLORIATI Alfio, rappresentato e difeso, per procura
speciale a margine del ricorso, dall’Avvocato Enrico Beia,
elettivamente domiciliato in Roma, Via Cosseria n. 2,
presso lo studio del dott. Alfredo Placidi;
ricorrente –

contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro
tempore,

pro

rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale

dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei
Portoghesi n. 12, è domiciliato per legge;
– resistente –

66oB

Data pubblicazione: 28/10/2015

avverso il decreto della Corte d’Appello di Brescia
depositato in data 8 ottobre 2013 (R.G.V.G. n. 126/13).
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza dell’8 ottobre 2015 dal Presidente relatore Dott.

sentito,

per il ricorrente, l’Avvocato Federico

Stranges per delega.
Ritenuto che, con ricorso depositato in data 28 marzo

2013 presso la Corte d’appello di Brescia, Alfio Maria
Gloriati chiedeva la condanna del Ministero della
giustizia al pagamento del danno patrimoniale e non
sofferto a causa della irragionevole durata di un giudizio
civile iniziato nel giugno 1975 dal proprio padre Ettore
Gloriati, quando egli era ancora minorenne, dinnanzi al
Tribunale di Vigevano ed avente oggetto la domanda di
risarcimento dei danni da esso subiti in occasione di un
incidente stradale verificatosi nel giugno 1973; giudizio
concluso in primo grado con sentenza del 31 ottobre 2001,
in appello con sentenza del 30 gennaio 2006 e definito in
cassazione con sentenza del 29 settembre 2012;
che il consigliere designato riteneva sussistente un
ritardo ingiustificato di trenta

(recte:

ventinove) anni e

liquidava un indennizzo di euro 34.800,00, applicando il
criterio di 1.200,00 euro per anno di ritardo;

-2-

Stefano Petitti;

che avverso questo provvedimento il ricorrente
proponeva opposizione ex art. 5-ter della legge n. 89 del
2001, dolendosi della esiguità dell’indennizzo
riconosciuto e del mancato accoglimento della domanda di

che

l’adita Corte d’appello,

in composizione

collegiale, rigettava l’opposizione;
che, quanto alla doglianza concernente il quantum
dell’indennizzo, la Corte rilevava che il criterio legale
prevede che l’indennizzo debba essere compreso tra 500,00
e 1.500,00 euro per anno di ritardo e che il consigliere
designato aveva adottato un criterio assai prossimo al
massimo previsto;
che, d’altra parte, proseguiva la Corte d’appello, il
ricorrente aveva invocato genericamente la giurisprudenza
della Corte europea per desumerne l’obbligo, per il
giudice nazionale, di liquidare un indennizzo addirittura
superiore al limite massimo previsto dalla legge, senza
tuttavia fornire indicazioni puntuali in proposito;
che quanto al danno patrimoniale la Corte d’appello
riteneva che lo stesso – ravvisato dall’opponente nel
fatto che il responsabile del danno era stato dichiarato
fallito non fosse causalmente riconducibile alla
irragionevole durata del giudizio presupposto;

-3-

danno patrimoniale;

che la Corte d’appello, oltre a condannare l’opponente
alle spese, applicava altresì la sanzione del pagamento
della somma di euro 500,00 in favore della Cassa delle
ammende, in considerazione della palese infondatezza

che per la cassazione di questo decreto Alfio Gloriati
ha proposto ricorso sulla base di tre motivi;
che

l’intimato

Ministero

ha

resistito

con

controricorso.
Considerato

che con il primo motivo di ricorso –

rubricato violazione e falsa applicazione degli artt. 112
e 115 cod. proc. civ.; omesso esame circa un fatto
decisivo del giudizio oggetto di discussione tra le parti
(sulla quantificazione del danno non patrimoniale) – il
ricorrente contesta il decreto impugnato per avere la
Corte

d’appello affermato che non risultavano offerte le

necessarie indicazioni circa la determinazione
dell’indennizzo sulla base degli orientamenti della CEDU;
che, assumendo il valore medio delle liquidazioni
effettuate dalla Corte europea, sostiene il ricorrente,
l’importo annuo di liquidazione risultava essere nel 2004
di euro 1.838,14, sicché, applicati i coefficienti di
rivalutazione l’importo stesso, all’attualità,
ammonterebbe a euro 2.325,25; somma questa da moltiplicare

-4-

dell’opposizione;

per la intera durata del giudizio presupposto e non solo
per gli anni di ritardo;
che, ad avviso del ricorrente, la inadeguatezza
dell’indennizzo liquidato risulterebbe poi evidente per il

recisamente escludere che tale possa essere considerato un
processo durato trentasette anni;
che, dunque, afferma il ricorrente, indennizzo giusto,
tenuto conto della particolare rilevanza del giudizio
presupposto e della entità abnorme del ritardo nella
definizione dello stesso, sarebbe quello di euro
129.500,00, e cioè l’indennizzo di 3.500,00 euro per
ciascuno dei trentasette anni di processo;
che con il secondo motivo il ricorrente denuncia
violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. e
omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio oggetto
di discussione tra le parti relativamente alla
quantificazione del danno patrimoniale, rilevando che la
Corte d’appello ha fatto riferimento erroneamente alla
ipotesi del fallimento, mentre il responsabile del danno,
nel caso di specie, non era stato dichiarato fallito ma si
era spogliato dei propri beni e aveva subito diverse
procedure esecutive;
che in ogni caso, osserva il ricorrente, il danno
richiesto era un danno da perdita di

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chance,

per tale

fatto che egli non ha avuto un processo giusto, dovendosi

dovendosi intendere l’incremento della difficoltà che egli
ha dovuto affrontare per avere soddisfazione del proprio
diritto, tenuto conto che la soddisfazione del diritto
rappresenta il fine ultimo del processo, anche nella

che, sostiene il ricorrente, il semplice decorso di
trenta anni di durata irragionevole ha senz’altro
affievolito, secondo il criterio della probabilità
prevalente, le possibilità che egli aveva di ottenere,
anche in via esecutiva, il risarcimento dovutogli;
che con il terzo motivo il ricorrente sollecita la
disapplicazione dell’art.

2-bis

della legge n. 89 del

2001, ovvero la rimessione della questione di legittimità
costituzionale della stessa, nella parte in cui limita
l’indennizzo del danno non patrimoniale nel massimo a
1.500,00 euro e per i soli anni di ritardo, senza
considerare la intera durata del giudizio;
che il primo e il terzo motivo di ricorso, all’esame
dei quali può procedersi congiuntamente attenendo alla
disciplina dell’indennizzo da irragionevole durata del
processo, sono infondati;
che, a prescindere dalla affermazione della Corte
d’appello in ordine alla mancata individuazione dei
riferimenti giurisprudenziali dai quali desumere la
necessità della liquidazione del danno non patrimoniale in

-6-

prospettiva della Corte europea;

misura superiore a quella applicata con il decreto
opposto, deve qui rilevarsi che la Corte d’appello ha
fatto puntuale applicazione del criterio legale di
liquidazione del pregiudizio morale derivante dalla

che il legislatore nazionale, recependo le indicazioni
offerte dalla giurisprudenza della Corte europea e di
questa Corte di legittimità, ha ritenuto di poter
stabilire che l’indennizzo debba essere determinato tra un
minimo di 500,00 euro e un massimo di 1.500,00 euro;
che la pretesa del ricorrente che l’indennizzo venga
liquidato in misura superiore a quella legale non può
trovare applicazione, non essendo neanche ravvisabili i
dubbi di legittimità costituzionale prospettati dal
ricorrente;
che, invero, quanto alla infondatezza della doglianza
sulla considerazione esclusiva della durata eccedente
quella ragionevole, deve qui ribadirsi che, in tema di
equa riparazione conseguente alla violazione del diritto
alla ragionevole durata del processo, la valutazione
equitativa dell’indennizzo a titolo di danno non
patrimoniale è soggetta, per specifico rinvio contenuto
nella L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, all’art. 6 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali (resa esecutiva con la L. 4

-7-

violazione del termine di ragionevole durata del processo;

agosto 1955, n. 848), al rispetto delle Convenzione
medesima, nell’interpretazione giurisprudenziale resa
dalla Corte di Strasburgo; tale rispetto non concerne,
però, anche il profilo relativo al moltiplicatore della

giudice nazionale vincolato al rispetto dell’art. 2, comma
3, lett. a), della legge n. 89 del 2001, ai sensi del
quale è influente solo il danno riferibile al periodo
eccedente il termine ragionevole, non toccando tale
diversità di calcolo la complessiva attitudine della
citata legge n. 89 del 2001, ad assicurare l’obiettivo di
un serio ristoro per la lesione del diritto alla
ragionevole durata del processo (Cass. n. 17440 del 2011;
Cass. n. 23154 del 2012; Cass. n. 4973 del 2013);
che, del resto, siffatto approdo non collide con la
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo,
la quale – nei precedenti Martinetti e Cavazzuti c. Italia
del 20 aprile 2010, Delle Cave e Corrado c. Italia del 5
giugno 2007 e Simaldone c. Italia del 31 marzo 2009 – “ha
osservato che il solo indennizzo, come previsto dalla
Legge Italiana n. 89 del 2001, del pregiudizio connesso
alla durata eccedente il ritardo non ragionevole, si
correla ad un margine di apprezzamento di cui dispone
ciascuno Stato aderente alla CEDU, che può istituire una
tutela per via giudiziaria coerente con il proprio

-8-

base di calcolo dell’indennizzo, essendo peraltro il

ordinamento giuridico e le

sue tradizioni, in conformità

al livello di vita del Paese, conseguendone che il citato
metodo di calcolo previsto dalla legge italiana, pur non
corrispondendo in modo esatto ai parametri enunciati dalla

concedano un indennizzo per SOMMG che non siano
irragionevoli rispetto a quelle disposte dalla CEDU per
casi simili” (Cass., n. 478 del 2011);
che, del pari, manifestamente infondata deve ritenersi
la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2-bis
della

legge

n. 89 del 2001, aggiunto dall’art. 55 del

decreto-legge n. 83 del 2012, convertito dalla legge n.
134 del 2012, nella parte in cui limita l’importo
liquidabile dal giudice a titolo di equa riparazione ad
una somma di denaro non inferiore a 500,00 euro e non
superiore a 1.500,00 euro, atteso che la stessa Corte
europea ha riconosciuto possibile derogare agli ordinari
criteri di liquidazione dell’indennizzo su base annua, e
che questa Corte, nella vigenza della precedente
disciplina dell’equa riparazione da irragionevole durata
del processo, aveva avuto modi) reiteratamente di
affermare che il criterio di 500,00 Euro per anno di
ritardo non può ritenersi, di per sé, irragionevole e
inidoneo ad assicurare un adeguato ristoro alla parte
interessata;

-9-

Corte EDU, non è in sè decisivo, purché i giudici italiani

che il secondo motivo è infondato;
che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, «in tema di equa riparazione per la non
ragionevole durata del processo, la natura indennitaria

dell’elemento soggettivo della violazione, ma non l’onere
del ricorrente di provare la lesione della sua sfera
patrimoniale quale conseguenza diretta e immediata della
violazione, esulando il pregiudizio dalla fattispecie del
“danno evento”. Pertanto, sono risarcibili non tutti
danni che si pretendono relazionati al ritardo nella
definizione del processo, ma solo quelli per i quali si
dimostra il nesso causale tra ritardo medesimo e
pregiudizio sofferto» (Cass. n. 18239 del 2013; Cass. n.
14775 del 2013);
che, in particolare, si è affermato che «in tema di
equa riparazione per violazione del termine di durata
ragionevole del processo, in forza del principio della
causalità adeguata il danno economico può ritenersi
ricollegato al ritardo nella definizione del processo solo
se sia l’effetto immediato di tale eccessiva durata sulla
base di una normale sequenza causale, laddove il
fallimento del debitore, sopravvenuto nel corso del
procedimento rivolto all’accertamento del diritto del
creditore, e la conseguente difficoltà di quest’ultimo di

dell’obbligazione esclude la necessità dell’accertamento

ottenere il soddisfacimento interrompe detta sequenza
assumendo – quale fattore idoneo a produrre, da solo,
l’evento rilevanza esclusiva ed assorbente nella
causazione del danno lamentato trattandosi di fatto

causale già in atto, che comporta la degradazione delle
cause preesistenti al rango di mere occasioni» (Cass. n.
18456 del 2005);
che,

nella specie,

il ricorrente deduce che

l’impossibilità di ottenere la soddisfazione del proprio
credito risarcitorio si è verificata, in concreto, non per
il fallimento del responsabile del danno, ma per il fatto
che lo stesso sarebbe stato assoggettato a procedure
esecutive immobiliari, sicché non potrebbe operare il
principio da ultimo richiamato;
che, in contrario, deve rilevarsi che la Corte
d’appello, nel riferire il motivo di opposizione, ha
rilevato che il pregiudizio patrimoniale era stato
ricondotto dal ricorrente alle difficoltà del debitore,
per effetto del fallimento della società di capitali della
quale egli era amministratore;
che non può dunque escludersi la pertinenza, nel caso
di specie, del principio del quale la Corte d’appello ha
fatto applicazione, connotandosi la vicenda sopravvenuta
nel corso del giudizio presupposto in termini di assoluta

autonomo, eccezionale ed atipico rispetto alla serie

autonomia causale rispetto alla pur irragionevole durata
del giudizio stesso al momento del verificarsi
dell’evento;
che, d’altra parte, non può neanche farsi applicazione

atteso che, nella elaborazione proposta dal ricorrente,
esso darebbe luogo ad una sorta di danno

in re ipsa,

in

contrasto con il principio per cui il danno patrimoniale
deve essere oggetto di specifica prova;
che, da ultimo, è appena il caso di osservare che la
situazione di insolvibilità del soggetto ritenuto
responsabile del danno subito dal ricorrente avrebbe
potuto essere impedita dall’attivazione dei procedimenti
cautelari previsti dall’ordinamento;
che, in conclusione, il ricorso deve essere rigettato,
con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle
spese del giudizio di cassazione, come liquidate in
dispositivo;
che, risultando dagli atti del giudizio che il
procedimento in esame è considerato

esente

dal pagamento

del contributo unificato, non si deve far luogo alla
dichiarazione di cui al comma 1-quater dell’art. 13 del
testo unico approvato con il d.P.R. 30 maggio 2002, n.
115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 2012, n. 228.

-P-

dell’invocato principio della “probabilità prevalente”,

PER QUESTI MOTIVI
La Corte rigetta il ricorso;

condanna il ricorrente al

pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che
liquida in euro 1.500,00 per compensi, oltre alle spese

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della
VI – 2 Sezione civile della Corte Suprema di Cassazione,

prenotate a debito.

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