Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22045 del 22/09/2017


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Cassazione civile, sez. III, 22/09/2017, (ud. 30/03/2017, dep.22/09/2017),  n. 22045

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26799-2015 proposto da:

M.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE PARIOLI

79/H, presso lo studio dell’avvocato GIANLUCA ROSSI, rappresentata e

difesa dall’avvocato GIUSEPPE CASTRONOVO giusta procura in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA SALUTE, (OMISSIS);

– intimato –

Nonchè da:

MINISTERO DELLA SALUTE (OMISSIS), in persona del suo Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende per legge;

– ricorrente incidentale –

contro

M.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE PARIOLI

79/H, presso lo studio dell’avvocato GIANLUCA ROSSI, rappresentata e

difesa dall’avvocato GIUSEPPE CASTRONOVO giusta procura in calce al

ricorso principale;

– controricorrente all’incidentale –

avverso la sentenza n. 545/2015 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 13/04/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

30/03/2017 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;

Fatto

RILEVATO

che:

1. M.G. ha proposto ricorso per cassazione contro il Ministero della Salute avverso la sentenza del 13 aprile 2015, con cui la Corte d’Appello di Palermo, in riforma della sentenza resa in primo grado dal Tribunale di Palermo il 6 novembre 2010, con cui il Ministero era stato condannato al risarcimento dei danni a suo dire sofferti dalla M. per avere contratto un’epatopatia cronica da contagio di HCV, correlata ad un’emotrasfusione cui si era sottoposta nel (OMISSIS), ha, invece, rigettato detta domanda, reputando fondata l’eccezione di prescrizione quinquennale proposta dal Ministero ed in particolare ritenendo che il suo corso fosse iniziato allorquando nel (OMISSIS), in occasione di un ricovero presso l’Ospedale di (OMISSIS), le era stata diagnosticata la patologia.

2. Al ricorso per cassazione, che propone quattro motivi, ha resistito il Ministero della Salute con controricorso, nel quale ha svolto ricorso incidentale condizionato.

A tale ricorso la ricorrente principale ha resistito con controricorso.

3. La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., comma 1, e non sono state prese conclusioni dal Pubblico Ministero, nè depositate memorie.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Il ricorso incidentale dev’essere esaminato unitamente quello principale in seno al quale è stato proposto.

2. Con il primo motivo di ricorso principale si deduce “violazione e falsa applicazione degli artt. 2934,2935 e 2947 c.c. nonchè dell’art. 111 Cost. e art. 32 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4”.

Con il secondo motivo di ricorso principale si deduce “violazione e falsa applicazione degli artt. 2934,2935 e 2947 c.c. nonchè dell’art. 2697 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4”.

2.1. Si lamenta nel primo motivo che la corte palermitana abbia fatto decorrere il termine di prescrizione dalla data della diagnosi anzichè dalla data della domanda in via amministrativa, rispetto alla quale la prescrizione era stata interrotta con lettera raccomandata stragiudiziale del 28 ottobre 2004.

2.2. Nel secondo motivo ci si duole che la corte insulare abbia ritenuto esistente la consapevolezza dell’illecito da parte della ricorrente senza che il Ministero ne avesse dato prova.

2.3. I due motivi possono trattarsi congiuntamente per la loro connessione e sono fondati.

La motivazione resa dalla sentenza impugnata, per quanto interessa, si articolata in primo luogo, in via preliminare, come segue: “La prescrizione, inoltre, decorre, a norma dell’art. 2935 c.c. e art. 2947 c.c., comma 1, non dal giorno in cui si determina la modificazione causativa del danno o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, ma da quello in cui la malattia è percepita o può essere percepita quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche (così la citata Cass. Sez. Unite 11 gennaio 2008, n. 576). Al riguardo, la Suprema Corte ha affermato che – essendo dovuto l’indennizzo ex lege n. 210 del 1992 in presenza di danni irreversibili da vaccinazione, trasfusioni o somministrazioni di emoderivati – ne segue che già dal momento in cui ha attivato il procedimento amministrativo la vittima del contagio ha avuto sufficiente percezione della malattia, della sua gravità, della sua eziogenesi e delle possibili conseguenze dannose, mentre non può riconnettersi alcun valore alla successiva comunicazione del responso delle Commissioni mediche ospedaliere di cui alla L. n. 210 del 1992, art. 4.”.

Dopo tale premessa, la motivazione continua in questi termini: “Più in generale, tuttavia, il dies a quo della decorrenza della prescrizione deve farsi coincidere con la data in cui il danneggiato ha percepito o avrebbe dovuto percepire, usando l’ordinaria diligenza in base alle ordinarie conoscenze scientifiche, la gravità ed irreversibilità della malattia contratta e la sua riconducibilità alla trasfusione effettuata. Come stabilito dalla Suprema Corte, occorre dunque valutare il grado di diligenza esigibile dal danneggiato nel caso concreto, le informazioni cui ha avuto accesso o quelle per la cui acquisizione si sarebbe dovuto attivare, nonchè lo stato delle conoscenze scientifiche dell’epoca. Or bene, poichè nella specie, secondo quanto dedotto in citazione e risulta dalla documentazione in atti già nell'(OMISSIS), nel corso di un ricovero ospedaliero effettuato presso il Policlinico di (OMISSIS), era stata riscontrata alla M. un’epatite cronica attiva HCV correlata e ipersplenomegalia, ne consegue che già a quell’epoca, quando si era manifestata non solo la positività al virus, ma anche la malattia epatica (con il relativo danno epatico), la predetta avrebbe dovuto percepire, usando l’ordinaria diligenza in base alle ordinarie conoscenze scientifiche la gravità ed irreversibilità della malattia contratta e soprattutto la sua riconducibilità alla trasfusione da lei effettuata nel (OMISSIS), tenuto conto del fatto che non vengono documentati nè riferiti dall’appellante altri comportamenti a rischio per il contagio. Pertanto, al momento della notifica dell’atto introduttivo cioè in data 14/5/2005 l’azione risarcitoria era ampiamente prescritta per il decorso del quinquennio, atteso che la lettera di messa in mora, indirizzata al ministero della salute e ricevuta dallo stesso in data 11/11/2004 è intervenuta dopo che tale termine era già decorso.”.

Successivamente, dopo avere motivato che nessun effetto interruttivo del corso della prescrizione poteva riconoscersi alla domanda di indennizzo ai sensi della L. n. 201 del 1992 (evocando Cass., Sez. Un., n. 576 del 2008), la corte palermitana ha concluso il suo ragionamento, asserendo che: “Già nel (OMISSIS), quindi l’attrice aveva avuto piena contezza della sua malattia ed era in condizioni di far valere il diritto risarcitorio, dovendosi considerare che la conoscenza della comunità scientifica internazionale del virus dell’epatite C e dei relativi test di identificazione risale al (OMISSIS), di modo che già sin dai primi anni novanta il soggetto che avesse riscontrato attraverso analisi cliniche il contagio da HCV aveva la possibilità di acquisire tutte le informazioni utili per tutelare direttamente la propria posizione giuridica nei confronti del Ministero, in considerazione della risonanza data dagli organi di stampa alla scoperta del virus e alla conseguente emanazione della L. n. 210 del 1992, o attraverso le conoscenze dei sanitari ai quali avrebbe dovuto o potuto rivolgersi una volta scoperta l’infezione.”.

2.4. Tale motivazione, pur assumendo come premesse i principi enunciati dalle sentenze delle sezioni Unite del 2008, nel procedere alla sussunzione della vicenda sotto di essi è erronea, in quanto ne tradisce in modo palese le implicazioni ed il significato.

2.4.1. Invero, inferire, dalla circostanza che nel corso del ricovero ospedaliero dell'(OMISSIS) era stata diagnosticata alla ricorrente la malattia epatica, la conseguenza che la ricorrente “avrebbe dovuto percepire, usando l’ordinaria diligenza in base alle ordinarie conoscenze scientifiche la gravità ed irreversibilità della malattia contratta e soprattutto la sua riconducibilità alla trasfusione da lei effettuata nel 1994, tenuto conto del fatto che non vengono documentati nè riferiti dall’appellante altri comportamenti a rischio per il contagio”, si connota come affermazione che suona non solo come intrinsecamente contraddittoria, là dove allude ad un concetto di “ordinaria diligenza in base alle ordinarie conoscenze scientifiche”, quasi che la prima si debba stabilire in forza delle seconde, ma, inoltre, evoca male il pensiero delle Sezioni Unite di cui alla sentenza n. 576 del 2008 ed è anche intrinsecamente irrispettosa degli ordinari criteri di inferenza logica di una conseguenza ignota da un fatto noto.

2.4.2. Sotto il primo aspetto, si deve rilevare che le Sezioni Unite, in quella decisione, ai cui insegnamenti ci si deve ispirare, così si espressero.

Dopo avere affermato che “L’individuazione del dies a quo ancorata solo ed esclusivamente al parametro dell'”esteriorizzazione del danno” può, come visto, rivelarsi limitante ed impedire una piena comprensione delle ragioni che giustificano l’inattività (incolpevole) della vittima rispetto all’esercizio dei suoi diritti” ed avere soggiunto che “E’ quindi del tutto evidente come l’approccio all’individuazione del dies a quo venga a spostarsi da una mera disamina dell’evolversi e dello snodarsi nel tempo delle conseguenze lesive del fatto illecito o dell’inadempimento – e cioè delle diverse tappe che caratterizzano il passaggio dal danno “occulto” a quello che si manifesta nelle sue componenti essenziali ed irreversibili – ad una rigorosa analisi delle informazioni, cui la vittima ha avuto accesso o per la cui acquisizione si sarebbe dovuta diligentemente attivare, della loro idoneità a consentire al danneggiato una conoscenza, ragionevolmente completa, circa i dati necessari per l’instaurazione del giudizio (non solo il danno, ma anche il nesso di causa e le azioni/omissioni rilevanti) e della loro disponibilità in capo al convenuto, con conseguenti riflessi sulla condotta tenuta da quest’ultimo eventualmente colpevole di non avere fornito quelle informazioni alla vittima, nei casi in cui era a ciò tenuto (ciò è pacifico negli ordinamenti anglosassoni, in tema di medica malpractice) “, le Sezioni Unite così si espressero: “Il suddetto principio in tema di exordium praescriptionis, non apre la strada ad una rilevanza della mera conoscibilità soggettiva del danneggiato. Esso deve essere saldamente ancorato a due parametri obiettivi, l’uno interno e l’altro esterno al soggetto, e cioè da un lato al parametro dell’ordinaria diligenza, dall’altro al livello di conoscenze scientifiche dell’epoca, comunque entrambi verificabili dal giudice senza scivolare verso un’indagine di tipo psicologico. In particolare, per quanto riguarda l’elemento esterno delle comuni conoscenze scientifiche esso non andrà apprezzato in relazione al soggetto leso, in relazione al quale l’ordinaria diligenza dell’uomo medio si esaurisce con il portarlo presso una struttura sanitaria per gli accertamenti sui fenomeni patologici avvertiti, ma in relazione alla comune conoscenza scientifica che in merito a tale patologia era ragionevole richiedere in una data epoca ai soggetti a cui si è rivolta (o avrebbe dovuto rivolgersi) la persona lesa. Ciò comporta una rigorosa analisi da parte del giudice di merito sul contenuto della diligenza esigibile dalla vittima nel caso concreto, ovvero sulle informazioni che erano in suo possesso, o alle quali doveva esser messa in condizioni di accedere, o che doveva attivarsi per procurarsi. Ugualmente dovrà essere accuratamente ricostruito ai fini di una motivazione completa e corretta sul punto della prescrizione, lo stato delle conoscenze scientifiche dell’epoca, onde inferirne se la riconducibilità della possibilità di un determinato tipo di contagio dalla trasfusione fosse nota alla comunità scientifica ed ai comuni operatori professionali del settore.”.

E’ sulla base di tali asserti le Sezioni Unite affermarono il seguente principio di diritto: “Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, a norma dell’art. 2935 c.c. e art. 2947 c.c., comma 1, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce il danno altrui o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, ma dal momento in cui viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l’ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche”.

Ciò premesso, si deve rilevare in primo luogo che le Sezioni Unite non hanno avallato un concetto di uso da parte della vittima della “ordinaria diligenza in base alle ordinarie conoscenze scientifiche”, come se le conoscenze scientifiche possibili e dovute in un dato momento storico fossero parte del dovere di ordinaria diligenza, ma hanno svolto un discorso più articolato, distinguendo un elemento interno ed un elemento esterno ed hanno affermato, sul versante del c.d. elemento esterno alla vittima, quello del livello di conoscenze scientifiche esigibili in un dato momento, che esso non deve essere apprezzato individuando tali conoscenze come da ricercarsi direttamente nel soggetto, ma suppone che, non essendo la vittima di norma in loro possesso, esse siano riferibili al sanitario o alla struttura sanitaria cui si è rivolto e che esso o essa gliene abbiano fornite o almeno l’abbiano posta in condizione di poterle acquisire.

Sicchè, di fronte alla mera conoscenza della patologia, la circostanza che nel momento in cui essa è stata diagnosticata il livello delle conoscenze scientifiche fosse tale da poterla ricollegare all’infezione da emotrasfusioni e che la vittima di tale riconducibilità abbia avuto conoscenza, discende, almeno in linea normale (cioè se non si dimostri che la vittima aveva un livello di conoscenze medica dirette idonee), dal necessario accertamento del se il sanitario o la struttura sanitaria gli abbiano dato informazioni dirette atte a consentirgli quel collegamento ovvero l’abbiano indirettamente messo nella condizione di farlo.

La Corte palermitano non ha ragionato in questo modo, ma ha dato rilievo alla mera circostanza che la vittima avesse avuti la diagnosi della malattia e che essa dovesse direttamente usare “l’ordinaria diligenza in base alle ordinarie conoscenze scientifiche”.

Viceversa, la mera conoscenza della malattia da parte della ricorrente, in mancanza di una enunciazione, anche solo come possibile, da parte della struttura ospedaliera che effettuò la diagnosi, della possibile ascrivibilità del contagio alla sottoposizione ad una trasfusione, non era elemento giustificativo della conoscenza o conoscibilità della detta ascrivibilità.

2.4.3. E, peraltro, non lo era e non lo è, al di là della già decisiva ed evidenziata contrarietà all’assunto delle Sezioni Unite, anche tenendo contro che non trattasi di elemento certo, il quale – sul piano dell’applicazione delle massime di esperienza al dovere di diligenza ordinario, cioè di chi non abbia particolari conoscenze tecniche tali da porlo in condizione di ipotizzare quella riconducibilità – possa giustificare la conoscibilità di quella riconducibilità della malattia diagnosticata alla trasfusione effettuata nella specie nel 1994, potendo solo giustificare in quel soggetto e, dunque, nella ricorrente, come in ogni quivis de populo cui venga diagnosticata una malattia, l’insorgenza dell’interrogativo sulla causa dello stato patologico.

L’assoluta mancanza di qualsiasi risultanza sul se la struttura ospedaliera avesse in qualche modo o informato direttamente la ricorrente circa la possibile riconducibilità ad una trasfusione del contagio o almeno suscitato in qualche modo in essa il dubbio al riguardo ed un dubbio tale da indurre la conseguenza che essa si indirizzasse ad approfondimenti, avrebbe dovuto indurre la corte palermitana ad escludere qualsiasi valore in sensi decisivo ai fini dell’exordium praescriptionis, della cennata diagnosi. E, nel secondo caso, cioè che la vittima fosse stata stimolata ad approfondimenti, va, peraltro, rilevato che sarebbe stato necessario dimostrare o che non li avesse fatti o che li avesse fatti ed essi avessero dato un qualche risultato tale da ascrivere in via potenziale alla trasfusione del (OMISSIS) il contagio.

2.4.5. L’ulteriore apparato motivazionale della sentenza impugnata è non meno privo di validità in iure.

Ed infatti:

a) l’esistenza già all’epoca della L. n. 210 del 1992 e l’asserita “risonanza data dagli organi di stampa alla scoperta del virus e alla sua conseguente emanazione”, non solo sono elementi che si pongono in contraddizione con l’erroneo assunto della conoscibilità della causa della patologia da parte della ricorrente per il sol fatto della diagnosi, in quanto: aa) suppongono l’incidenza di due elementi ulteriori, quello della consapevolezza e conoscenza da parte della ricorrente dell’emanazione della legge e l’essere altresì la vittima soggetto che rientrava, per le sue condizioni culturali, nella notoria minoritaria quota di italiani dediti ad informarsi all’epoca quali lettori di giornali; bb) ma, soprattutto, implicano una valutazione della conoscibilità desunta da due elementi del tutto astratti e senza la necessaria verifica in concreto del loro operare per la vittima;

b) l’affermazione che la conoscenza della riconducibilità della patologia alla trasfusione si sarebbe potuta acquisire “attraverso le conoscenze dei sanitari ai quali avrebbe dovuto o potuto rivolgersi una volta scoperta l’infezione”, anch’essa è in contraddizione con l’affermazione dell’automatico decorso dalla diagnosi, perchè allude a comportamenti successivi che non sono individuati nel tempo e che sempre suppongono il primo un’agire dei sanitari, il secondo l’esigibilità del comportamento secondo l’ordinaria diligenza in relazione ad informazioni ricevute, elementi l’uno e l’altro che si sarebbero dovuti accertare in concreto.

Le carenze e contraddizioni segnalate evidenziano che l’individuazione dell’exordium praescriptionis, che è certamente possibile in relazione ad una vicenda concreta collocare prima del momento della presentazione della domanda amministrativa, nel caso di specie è stata fatta assumendo come elementi giustificativi del procedimento di sussunzione circostanze del tutto astratte, senza un previo giudizio sulla loro rilevanza con specifico riferimento alla diligenza ordinaria esigibile nella ricorrente e, quindi, senza che in fatto constassero elementi al riguardo.

L’astrattezza dei detti elementi esclude che la sussunzione sia stata corretta, perchè rende l’ipotizzata conoscibilità del tutto ipotetica e non certa, come è necessario. Ne è derivata una falsa applicazione dei principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite, in punto di individuazione dell’exordium praescriptionis. (per altri casi in cui ciò è stato riscontrato dalla Corte si vedano le recenti Cass. nn. 4996 del 2017 e 8645 del 2016)

2.4.6. D’altro canto, il rilevato carattere solo ipotetico dei detti elementi, inerendo al Ministero la prova dell’esistenza di un exordium praescriptionis idoneo a giustificare la relativa eccezione, determinava, come sostenuto nel secondo motivo, una situazione di carenza probatoria che doveva ridondare a carico del Ministero.

Ne doveva conseguire che, secondo la valutazione, questa volta formulata con riferimento ad una circostanza oggettivamente significativa in concreto della conoscenza della potenziale riconducibilità della patologia all’evento dannoso, cioè alla trasfusione, ravvisabile, secondo gli insegnamenti delle Sezioni Unite, nella presentazione dell’istanza in via amministrativa, l’eccezione di prescrizione avrebbe dovuto reputarsi infondata.

Ne consegue che ricorrono le condizioni per la cassazione della sentenza in accoglimento dei due motivi in esame.

2.5. Il terzo motivo resta a questo punto assorbito.

2.6. Il quarto è un “non motivo”, dato che chiedeva solo che per effetto dell’accoglimento degli altri sia caducata la condanna alle spese.

3. I due motivi di ricorso incidentale condizionato, che a questo punto si debbono esaminare, sono privi di fondamento.

3.1. Con il primo si deduce “omesso esame dell’appello del Ministero ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3” quanto alla prospettazione con cui si era dedotto che, risalendo la trasfusione effettuata dalla ricorrente a dopo l’entrata in vigore della L. n. 107 del 1990 e l’emanazione delle disposizioni di attuazione con i D.M. 17 dicembre 1990, D.M. 15 gennaio 1991 e D.M. 12 giugno 1991, con i quali erano state impartite alle strutture del Servizio Sanitario Nazionale “le necessarie direttive circa l’uso del sangue destinato alle trasfusioni” e la relativa attività d vigilanza e controllo, si sarebbe dovuta escludere la responsabilità dello stesso Ministero.

Con il secondo motivo si deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., dell’art. 2049 e 2050 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Insussistenza del comportamento colpevole del Ministero per le trasfusioni effettuate nel (OMISSIS), in un’epoca in cui il Ministero aveva fornito già alle strutture del SSN tutte le necessarie indicazioni operative e direttive con la L. n. 107 del 1990 e con il D.M. 21 luglio 1990”.

3.2. Entrambi i motivi, che pongono la stessa questione, sono – al di là della loro postulazione del tutto generica, per cui, emanate dallo Stato centrale disposizioni frutto di decentramento delle funzioni, automaticamente la sfera dell’agire della P.A. nelle articolazioni destinatarie del decentramento resti sottratta all’ingerenza statale e, quindi, all’operare del neminem laedere riguardo allo Stato (il che renderebbe i motivi inammissibili per difetto di specificità: Cass., Sez. Un. 7074 del 2017) – palesemente infondati, atteso che del tutto erroneamente attribuiscono alla I. n. 107 del 1990 il significato di sottrarre la posizione del Ministero al dovere di vigilanza, giustificativo della sua responsabilità: è sufficiente osservare che le stesse sentenze del 2008 delle Sezioni Unite affermarono che “anche prima” di quella legge sussisteva quel dovere, così implicitamente reputando indiscutibile che esso – come, del resto si sosteneva per escludere la responsabilità dello Sato per essere le vicende anteriori – venne confermato dalla legge.

4. La sentenza è, dunque, cassata in accoglimento dei primi due motivi del ricorso principale, mentre restano assorbiti gli latri due. Il ricorso incidentale è rigettato. Il giudice di rinvio si designa in altra sezione della Corte d’Appello di Palermo, comunque in diversa composizione, e provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

PQM

 

La Corte accoglie i primi due motivi del ricorso principale. Cassa la sentenza impugnata in relazione e dichiara assorbiti gli altri. Rigetta il ricorso incidentale. Rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Palermo, comunque in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile il 30 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2017

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