Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22045 del 11/09/2018

Cassazione civile sez. II, 11/09/2018, (ud. 27/03/2018, dep. 11/09/2018), n.22045

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. SCALISI Antonino – rel. Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3088/2014 proposto da:

SINTEA BIOTECH S.p.a., in liquidazione, in persona del Liquidatore

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FRANCESCO DENZA

3, presso lo studio dell’avvocato ANGELO MARTUCCI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUIGI GRANATO;

– ricorrente –

contro

AMBIOS MEDICAL s.r.l. in liquidazione, in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SALARIA, 259, presso

lo studio dell’avvocato MARCO PASSALACQUA, che la rappresenta e

difende unitamente agli avvocati MARIO OLIVIERI, ANGELO BONETTA;

– c/ricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 2452/2013 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 12/06/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

27/03/2018 dal Consigliere Dott. ANTONINO SCALISI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

TRONCONE Fulvio, che ha concluso per l’inammissibilità, o in

subordine per il rigetto del ricorso principale, per l’assorbimento

del ricorso incidentale;

udito l’Avvocato ANGELO MARTUCCI, difensore della ricorrente, che ha

chiesto di riportarsi agli scritti depositati;

udito l’Avvocato MARIO OLIVIERI, difensore della controricorrente e

ricorrente incidentale, che ha chiesto di riportarsi anch’egli alle

conclusioni in atti depositate.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione notificato in data 24/7/2006, la società Ambios Medical s.r.l. conveniva in giudizio, avanti al Tribunale di Milano, la società Sintea Biotech S.p.A., per sentire dichiarare l’inadempimento contrattuale della medesima relativamente a due diversi contratti di concessione in vendita intervenuti tra le parti e chiedendo, infine, la conseguente condanna di controparte al risarcimento dei danni patiti e patiendi per fatto e colpa di Sintea.

Si costituiva Sintea Biotech S.p.A., chiedendo il rigetto delle pretese avverse e domandando, in via riconvenzionale, la condanna di Ambios al risarcimento di danni patrimoniali e non patrimoniali, nonchè al pagamento o alla restituzione di proprio materiale ancora in possesso dell’attrice.

Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 1002/2011 1) Rigettava le domande di parte attrice; 2) Accertava e dichiarava l’intervenuta risoluzione ex art. 1456 c.c., con decorrenza 27/3/2006, del contratto di concessione in vendita relativo alla (OMISSIS), intervenuto tra Ambios Medical s.r.l. e Sintea Biotech S.p.A., e con decorrenza 31/3/2006, del contratto di concessione in vendita relativo alle regioni italiane intervenuto tra Ambios Medical s.r.l. e Sintea Biotech S.p.A.; 3) Condannava Ambios Medical S.r.l, al pagamento della somma complessiva di Euro 299.215,00 a favore di Sintea Biotech S.p.A., a titolo di risarcimento del danno; 4) Condannava Ambios Medical s.r.l. a restituire a Sintea Biotech S.p.A. il materiale di cui al doc. sub. 9) del fascicolo di causa di Ambios Medical s.r.l., che dichiarava parte integrante della sentenza, entro 30 giorni dalla pubblicazione della stessa; 5) Rigettava ogni altra domanda principale, subordinata e riconvenzionale; 6) Condannava Ambios Medical s.r.l. a rimborsare a Sintea Biotech S.p.A. le spese di lite.

Avverso questa sentenza interponeva appello Ambios Medical s.r.l. per ottenere, in riforma, l’accertamento della nullità dell’anzidetta sentenza, per aver il Tribunale omesso di trascrivere le conclusioni e omesso di motivare in ordine a determinati criteri di interpretazione del contratto e provveduto ad una inammissibile liquidazione del danno in via equitativa, pur in assenza della relativa domanda.

Si costituiva Sintea Biotech S.p.A., chiedendo il rigetto dell’appello e, proponendo appello incidentale, per chiedere che l’appellante fosse condannata a pagare la somma di Euro 604.215,00, in subordine di Euro 294.840,00, anzichè quella di Euro 224.215,00, riconosciuta dal primo giudice.

La Corte di Appello di Milano con sentenza n. 2452 del 2013 accoglieva parzialmente l’appello ed, in riforma della sentenza impugnata, rigettava la domanda di risarcimento del danno proposta dalla società Biotech spa e compensava le spese del giudizio. Secondo la Corte milanese, la sentenza del Tribunale andava confermata ad eccezione della parte in cui la stessa liquidava in via equitativa il danno conseguente all’inadempimento perchè la società Sintea non aveva fornito alcuna prova dell’esistenza del danno derivante dall’inadempimento di controparte, per altro in totale assenza di documentazione da cui desumere i costi di produzione sostenuti dalla concedente per realizzare i prodotti che l’appellante avrebbe dovuto comprare e poi rivendere sul mercato italiano e francese.

La cassazione di questa sentenza è stata chiesta dalla società Sintea Biotech con ricorso affidato a cinque motivi. La società Ambios Medical S.r.l. ha resistito con controricorso, proponendo, a sua volta, ricorso incidentale condizionato all’accoglimento del ricorso di Sintea, per tre motivi. In prossimità dell’udienza pubblica le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

a.- Ricorso principale.

1.- Con il primo motivo di ricorso la società Sintea Biotech lamenta sull’an debeatur: violazione o falsa applicazione degli artt. 1223 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omessa insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Secondo la ricorrente:

a) la Corte distrettuale pur avendo affermato che era onere di Sintea fornire la prova innanzitutto dell’esistenza del danno derivante dall’inadempimento della controparte, tuttavia, non avrebbe specificato se tale onere sia stato assolto o meno da Sintea. Sotto questo aspetto la motivazione sarebbe carente in ordine ad un punto decisivo del giudizio.

b) la Corte distrettuale non avrebbe tenuto conto che per il lucro cessante l’onere della prova opera in maniera diversa e per alcuni versi attenuata rispetto alla prova del danno emergente. Infatti, per la prova del lucro cessante sarebbero sufficienti, benchè necessari, elementi presuntivi circa la certezza della reale esistenza del danno e che risultino elementi oggettivi di carattere lesivo la cui proiezione futura nella sfera patrimoniale del soggetto sia certa e che si traducono in un pregiudizio economicamente valutabile ed apprezzabile, che non sia, cioè, meramente potenziale o possibile.

c) la prova del danno sarebbe stata data, avendo già provato l’inadempimento di Ambios, la risoluzione dei contratti per fatto e colpa di Ambios e l’esistenza del patto di esclusiva. Infatti, la risoluzione dei contatti di cui si dice e la sussistenza del patto di esclusiva ha impedito a Sintea di realizzare quei profitti che avrebbe certamente realizzato, ove Ambios avesse correttamente adempiuto alle obbligazioni contrattali assunte, oppure, ove Sintea fosse stata libera di operare su quegli stessi mercati, se non fosse stata vincolata dal patto di esclusiva dalla stessa rispettato. Insomma, Sintea non avrebbe avuto il ricavato relativo all’acquisto minimale che Ambios si era impegnata ad effettuare durante l’arco dell’anno solare. Il danno di cui si dice, in buona sostanza, secondo la ricorrente, sarebbe in re ipsa.

1.1. – Il motivo è infondato sotto ogni profilo.

Va qui premesso che in tema di responsabilità contrattuale trova applicazione il principio della presunzione della colpa, spettando all’attore/creditore l’onere della prova dell’inadempimento e dell’entità del danno, mentre, di converso, al debitore spetta, per sottrarsi all’obbligo risarcitorio, dimostrare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per cause a lui non imputabili. Ex art. 1223 c.c., il risarcimento del danno dovuto all’inadempimento deve comprendere, sia la perdita subita dal creditore (danno emergente), che il mancato guadagno (lucro cessante) in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta (nesso di causalità fra inadempimento e danno). Quindi, per il sorgere del diritto al ristoro dei danni ed alla reintegrazione patrimoniale, in tema di responsabilità civile da inadempimento di contratto, non è sufficiente la prova dell’inadempimento del debitore, ma deve, altresì, esser provato il pregiudizio effettivo e reale incidente nella sfera patrimoniale del contraente danneggiato e la sua entità (Cass., 5 marzo 1973, n. 608). In particolare, il danno patrimoniale da mancato guadagno, concretandosi nell’accrescimento patrimoniale effettivamente pregiudicato o impedito dall’inadempimento dell’obbligazione contrattuale, presuppone la prova, sia pure indiziaria, dell’utilità patrimoniale che, secondo un rigoroso giudizio di probabilità (e non di mera possibilità) il creditore avrebbe conseguito se l’obbligazione fosse stata adempiuta, e deve, pertanto, escludersi per i mancati guadagni meramente ipotetici, dipendenti da condizioni incerte: giudizio probabilistico, questo, che, in considerazione della particolare pretesa, ben può essere equitativamente svolto in presenza di elementi certi offerti dalla parte non inadempiente, dai quali il giudice possa sillogisticamente desumere l’entità del danno subito (Cass., 20 maggio 2011, n. 11254).

Ora, nel caso in esame, la Corte distrettuale ha, ampiamente, chiarito, in modo esplicito ed esaustivo, che Sintea non aveva provveduto ad assolvere l’onere di provare l’esistenza del danno derivante dall’inadempimento della controparte, specificando che il Tribunale non avrebbe potuto ritenere dimostrato il danno “(….) in totale assenza di documentazione da cui desumere i costi di produzione sostenuti dalla concedente per realizzare i prodotti che l’appellante avrebbe dovuto comprare e, poi, rivendere nel mercato italiano e francese, si dà dedurre i relativi margini di guadagno e la perdita derivante dall’inadempimento, in particolare, dall’inosservanza dell’impegno concernente i minimi di acquisto (….)”.

1.2.- Sotto altro aspetto, pur potendo convenire sulla considerazione che, nel caso concreto, il lucro cessante sarebbe corrispondente ai ricavi attesi che la Sintea avrebbe potuto conseguire se Ambios avesse tenuto fede agli impegni contrattualmente assunti ed ottemperato agli impegni minimi di acquisto, e, ad un tempo alle perdite per la scarsa promozione sul territorio ad opera del concessionario, tuttavia, l’effettiva sussistenza dei ricavi e delle perdite di cui si dice andavano dimostrati e tale prova, come afferma la sentenza impugnata, è mancata. Infatti, come ha avuto modo di specificare la Corte distrettuale “(….) la tempestiva produzione di documentazione da cui evincere i dati relativi alla contabilità industriale, in definitiva, avrebbe consentito di determinare quali prodotti davano margini di guadagno e quale guadagno andava imputato ai vari prodotti. A riguardo, non potevano soccorrere i bilanci di Sintea prodotti dalla Ambios (…) perchè (…) va considerato che il bilancio civilistico è compilato secondo i criteri indicati dal codice civile, ma non contiene una distinzione tra costi comuni e costi specifici e non consente di imputare i costi ed, eventualmente, i ricavi rilevati dalla contabilità generale, a specifiche linee di produzione o prodotti, cioè ai criteri di costo e ai singoli prodotti (…). L’assenza di alcun elemento da cui desumere i margini di guadagno e, dunque, la convenienza di penetrazione in un certo territorio non consentono neppure di liquidare il danno asseritamente derivante dalla mancata promozione da parte del concessionario (….)”.

Si tratta, comunque, di una valutazione di merito, corretta sotto il profilo giuridico e in quanto, razionalmente, condivisibile, non è suscettibile di essere oggetto di sindacato in sede di legittimità.

2.- Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta sul quantum debeatur: la violazione o falsa applicazione degli artt. 1226,2056 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Secondo la ricorrente, la Corte distrettuale non avrebbe considerato che, ai sensi dell’art. 1226 c.c., se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare è liquidato dal giudice con valutazione equitativa., e ai sensi dell’art. 2056 c.c., il risarcimento dovuto al danneggiato si deve determinare secondo le disposizioni degli artt. 1123, 1226 e 1227. Il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento del caso. Ora, nel caso concreto, secondo la ricorrente, una volta provata l’esistenza del danno sarebbe stato impossibile o, comunque, particolarmente difficile per Sintea la prova esatta del danno subito. A sua volta, con riguardo al danno della cc.dd. perdita di chances relativo al periodo successivo alla risoluzione del contratto, secondo la ricorrente, non poteva che essere liquidato in via equitativa posto che trattasi di un danno futuro, consistente, non nella perdita di un vantaggio economico, ma nella perdita della mera possibilità di conseguirlo, secondo una valutazione ex ante da ricondursi al momento in cui il comportamento illecito ha inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale.

2.1. – Anche questo motivo è infondato.

Va qui precisato che l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., presuppone che sia dimostrata l’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile, provare il danno nel suo preciso ammontare, ciò che non esime, però, la parte interessata – per consentire al giudice il concreto esercizio di tale potere, la cui sola funzione è di colmare le lacune insuperabili ai fini della precisa determinazione del danno stesso – dall’onere di dimostrare non solo l'”an debeatur” del diritto al risarcimento, ma, anche ogni elemento di fatto utile alla quantificazione del danno e di cui, nonostante la riconosciuta difficoltà, possa ragionevolmente disporre.

Ora, nel caso in esame, la Corte distrettuale ha escluso un’obiettiva difficolta o un’obiettiva impossibilità della Sintea a dimostrare il danno quantomeno nei suoi elementi essenziali e, che, per ciò stesso non vi era la necessità che il danno fosse liquidato in via equitativa. In buona sostanza, secondo la Corte distrettuale, il Giudice, nel caso concreto, non era necessitato di colmare un’oggettiva lacuna insuperabile ai fini di determinare il danno di cui si dice. Come ha avuto modo di chiarire la Corte distrettuale: “(…) che fosse possibile produrre la documentazione probante è desumibile anche dalle stesse tardive produzioni effettuate dall’appellata con la memoria ex art. 183 c.p.c., comma 6, n. 3, concernenti i costi di ricerca e produzione, le spese per retribuzioni dei dipendenti e per consulenze, ecc. e il prospetto riepilogativo dei costi di produzione e margini di guadagno (…)”. Pertanto, non solo era giuridicamente necessario fornire la prova del danno asseritamente subito, ma, nel caso in esame, la stessa Sintea ha dimostrato che era possibile fornire una qualche prova o elementi certi su cui fondare la determinazione del danno di cui si dice, tanto è vero che ha prodotto tardivamente la documentazione che avrebbe potuto far emergere gli eventuali ricavi possibili, ma non ottenuti.

Ad ogni buon conto, tale valutazione, di stretto merito, è adeguatamente motivata, e, perciò stesso, sottratta al sindacato di questa Corte.

2.2. – Anche l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno da perdita di chances esigeva la prova, anche presuntiva, della ricorrenza di elementi oggettivi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità e non di mera potenzialità, anche semplicemente in considerazione dell’id quod plerumque accidit, l’esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile connesso al mancato sfruttamento di una favorevole opportunità (confr. Cass. civ. 11 maggio 2010, n. 11353). Epperò, nel caso in esame, la stessa Corte distrettuale ha chiarito con valutazione di fatto non censurabile nel giudizio di legittimità, perchè razionalmente condivisibile, che, neppure, il danno da perdita di chances era stato dimostrato. Infatti, la Corte distrettuale ha avuto modo di rilevare “(…) l’assenza di alcun elemento da cui desumere i margini di guadagno e, dunque, la convenienza di penetrazione in un certo territorio non consentono neppure di liquidare il danno asseritamente derivante dalla mancata promozione da parte del concessionario (….)”.

3.- Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia, sull’ammissibilità della richiesta di CTU e sulla tempestività della produzione effettuata da Sintea con la memoria ex art. 183 c.p.c., comma 6, n. 3: violazione e falsa applicazione dell’art. 183 c.p.c., commi 6 e 8 e art. 194 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

a) Secondo la ricorrente, la Corte distrettuale, diversamente da quanto aveva ritenuto il Tribunale, avrebbe errato nel ritenere tardiva la produzione documentale perchè, la domanda risarcitoria formulata da Sintea nel corso del giudizio faceva riferimento non al mancato profitto, ma al mancato fatturato per tutta la durata del contratto, lasciando al Giudice il potere di provvedere ad una valutazione, comunque, equitativa e, facendo istanza, in alternativa, per una CTU finalizzata alla quantificazione del danno. Tuttavia, la produzione della documentazione di cui si dice sarebbe stata necessitata a seguito della produzione in giudizio da parte di Ambios dei bilanci Sintea relativi agli esercizi 2003, 2004, 2005 e 2006 al fine di evidenziare che le ragioni che avevano determinato la chiusura in perdita e/o con utile di esercizio esiguo, erano dovute a rilevanti investimenti effettuati dalla società in detti esercizi.

b) Sintea lamenta ancora che la Corte di Appello, pur avendo ritenuto non provata l’esistenza stessa del danno avrebbe, comunque, dovuto disporre una CTU ai fini della quantificazione del danno.

3.1. – Il motivo, articolato, come è evidente, su due profili è infondato sotto entrambi i profili.

a) Va qui premesso, che ai sensi dell’art. 183 c.p.c., comma 6, se richiesto dalle parti, il giudice concede “1) un termine di ulteriori trenta giorni per il deposito di memorie limitate alle sole precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte; 2) un termine di ulteriori trenta giorni per replicare alle domande ed eccezioni nuove, o modificate dall’altra parte, per proporre eccezioni, che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime e per l’indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali; 3) un termine di ulteriori venti giorni per le sole indicazioni di prova contraria”. La memoria, ex art. 183 c.p.c., comma 6, n. 3, è funzionale, dunque, alle sole indicazioni di prova contraria rispetto alle indicazioni istruttorie contenute nella seconda memoria.

Ora, nel caso in esame, come emerge dalla sentenza impugnata, la documentazione depositata con la memoria di cui dell’art. 183 c.p.c., comma 6, integrava gli estremi di una prova diretta del danno e non, invece, quelli di prove dirette a fondare un qualsiasi accertamento sull’esistenza del danno lamentato. Afferma, al riguardo, la sentenza impugnata “(…) e che documentazione probante fosse possibile produrre è desumibile anche dalle stesse tardive produzioni effettuate dall’appellata (…)”. Sicchè, appare, corretto, ritenere che la produzione documentale effettuata da Sintea, con la terza memoria ex art. 183 c.p.c., fosse ritenuta tardiva perchè, essendo prova diretta avrebbe dovuto essere prodotta, al più tardi, con la seconda memoria ex art. 183 c.p.c., comma 6.

b) A sua volta, non ha ragion d’essere la censura relativa al mancato espletamento di una CTU perchè è principio affermato da questa Corte in più occasioni, quello secondo cui: “(…) La consulenza tecnica d’ufficio, il cui scopo è quello di aiutare il giudice nella valutazione degli elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che comportino specifiche conoscenze tecniche, non può essere disposta al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume ed è, quindi, legittimamente negata dal giudice, qualora la parte tenda con esso a supplire la deficienza delle proprie allegazioni o di prove, ovvero, a compiere un’indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati (….)” (Cass. n. 11359 del 31/07/2002). Pertanto, correttamente, la Corte distrettuale ha escluso qualsiasi CTU avendo verificato la totale assenza di documentazione. Infatti, come afferma la Corte distrettuale, che si richiama per condividerla “(…) un’eventuale CTU, in particolare, avrebbe richiesto la tempestiva produzione di documentazione contabile utile per un accertamento di tali dati (…)”.

4.- Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia l’illegittimità della sentenza impugnata per violazione o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Secondo la ricorrente, considerato l’esito complessivo del giudizio dovrebbe ritenersi assolutamente irragionevole ed illecita, per violazione dell’art. 91 c.p.c., la disposta compensazione integrale di entrambi i gradi del giudizio. Piuttosto, la Corte di Appello, al massimo, avrebbe potuto disporre una compensazione solo parziale delle spese legali.

4.1. – Il motivo è infondato.

E’ principio pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che, in caso di accoglimento parziale del gravame, il giudice di appello può compensare, in tutto o in parte, le spese, ma, non anche, porle, per il residuo, a carico della parte risultata, comunque, vittoriosa, sebbene in misura inferiore a quella stabilita in primo grado, posto che il principio della soccombenza va applicato tenendo conto dell’esito complessivo della lite.

Ora, nel caso in esame, la Corte distrettuale ha correttamente applicato tale principio, avendo accertato una reciproca soccombenza. Infatti, come afferma la sentenza impugnata, “(….) valutato l’esito complessivo della lite, rilevato che le domande della convenuta pur avendo trovato accoglimento per la parte relativa all’accertata risoluzione del contratto, sono state poi rigettate con riferimento alla rilevante questione concernente il risarcimento del danno, considerata la soccombenza anche dell’attrice, attuale appellata, in relazione alle domande proposte, appare equo disporre l’integrale compensazione tra le parti delle spese di entrambi i gradi del giudizio”. E’ questa una valutazione, coerente con i principi di diritto in materia di liquidazione di spese processuali, che, tuttavia, non trova una specifica smentita nelle osservazioni della ricorrente la quale tralascia di valutare complessivamente l’esito del giudizio e si limita a parcellizzare singole fasi dello stesso.

5. – Con il quinto motivo la ricorrente lamenta illegittimità della sentenza in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, per omessa insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Secondo la ricorrente, la sentenza impugnata presenterebbe diversi profili di contraddittorietà e precisamente:

a) sarebbe contraddittoria nella parte in cui accerta e riconosce l’inadempimento contrattuale posto in essere da Ambios, dichiarando, conseguentemente, la risoluzione dei contratti e, dall’altro afferma che Sintea non avrebbe provato l’esistenza del danno. Piuttosto, la Corte di Appello avrebbe dovuto riconoscere l’esistenza del danno come conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento contrattuale di Ambios e della conseguente risoluzione dei contratti.

b) sarebbe contraddittoria, altresì, perchè subordina alla previa preliminare produzione documentale, che, per altro, avrebbe avuto luogo, e, quindi, alla preliminare prova dell’ammontare del danno, sia il potere del Giudice di procedere ad una liquidazione equitativa del danno che l’ammissibilità della richiesta di CTU.

5.1. – Il motivo rimane assorbito dai motivi precedenti, posto che le questioni qui prospettate sono state ampiamente esaminate con l’esame dei primi due motivi del ricorso.

In definitiva, il ricorso principale va rigettato.

B.- Ricorso incidentale condizionato

all’accoglimento del ricorso principale.

6.- Il rigetto del ricorso principale esime questa Corte dall’esaminare il ricorso incidentale condizionato con il quale la Ambios lamenta:

a) con il primo motivo, sul capo di sentenza che ha affermato la sussistenza dei presupposti per la risoluzione dei contratti: violazione e/o falsa applicazione delle norme di diritto sull’interpretazione dei contratti (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 1362 c.c.).

b) con il secondo motivo, lamenta sul capo della sentenza che ha affermato la correttezza della procedura adottata da Sintea per la risoluzione dei contratti: violazione e/o falsa applicazione delle norme di diritto sulla autonomia contrattuale e sulla risoluzione (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 1322,1453 e 1456 c.c. e segg.) contraddittorietà e vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5);

c) con il terzo motivo, lamenta sul capo di sentenza che ha respinto la domanda di risarcimento formulata da Ambios violazione e/o falsa applicazione delle norme di diritto sulla disponibilità e valutazione delle prove (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 115-116 c.p.c.). Omessa motivazione su un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5).

In definitiva, va rigettato il ricorso principale e dichiarato assorbito il ricorso incidentale. La ricorrente principale, in ragione del principio di soccombenza va condannato a rimborsare a parte controricorrente le spese del presente giudizio di cassazione, che vengono liquidate con il dispositivo. Il Collegio dà atto che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale; condanna la parte ricorrente principale a rimborsare alla parte controricorrente, le spese del presente giudizio di cassazione che liquida, per ciascuna parte, in Euro 10.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% del compenso ed accessori come per legge; dà atto che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento da parte della ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile di questa Corte di Cassazione, il 27 marzo 2018.

Depositato in Cancelleria il 11 settembre 2018

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