Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22040 del 22/09/2017

Cassazione civile, sez. III, 22/09/2017, (ud. 16/03/2017, dep.22/09/2017),  n. 22040

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Presidente –

Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15792-2015 proposto da:

A.G., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA PRATI DEGLI

STROZZI 26 (06.39721312), presso lo studio dell’avvocato FABIANA

FOIS, che la rappresenta e difende giusta procura a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

AL.AN., S.M.;

– intimati –

avverso il provvedimento n. 1476/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 18/03/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

16/03/2017 dal Consigliere Dott. ANNA MOSCARINI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ricorso ex art. 447 bis c.p.c. del 10/10/2007 i coniugi Al.An. e S.M. convennero dinanzi il Tribunale di Roma A.G. per sentir dichiarare che, a seguito del provvedimento di assegnazione della casa coniugale in favore della A. e della figlia minore G., emesso nell’ambito del procedimento di separazione consensuale tra S.M., figlio dei ricorrenti e la A., quest’ultima fosse succeduta al marito L. n. 392 del 1978, ex art. 6 nel contratto di locazione di un appartamento sito in (OMISSIS), stipulato nel 1986 e rinnovaato nel 2002 dal medesimo con i genitori, scaduto il 6 maggio 20101e che la stessa fosse condannata al rilascio dell’immobile.

L’ A. si costituì in giudizio resistendo alla domanda ed invocando, tra l’altro, la nullità del contratto di locazione, l’esistenza di un comodato gratuito con vincolo di destinazione all’uso familiare e l’accertamento del proprio diritto ad abitare la casa coniugale fino al raggiungimento dell’autonomia da parte della figlia convivente per effetto del provvedimento di omologa del verbale di separazione personale emesso in data 05/11/2004.

Acquisita la testimonianza di S.M. di aver corrisposto un canone di locazione non più di quattro volte l’anno, il Tribunale rigettò il ricorso, ritenendo insussistente la prova della locazione, anche perchè il contratto mancava di forma scritta secondo la previsione della L. n. 431 del 1998, ed esistente un comodato gratuito con vincolo di destinazione. Dichiarò inammissibile per tardività la domanda degli attori ai sensi dell’art. 1809 c.c., comma 2.

La sentenza fu impugnata in appello dai coniugi Al. e S., la A. si costituì riproponendo le proprie tesi, e richiamando la pronuncia di questa Corte (Cass., U., 21/07/2004 n.ro 13603) secondo la quale “il rapporto di comodato destinato ad assicurare che il nucleo familiare già formato o in via di formazione abbia un proprio habitat, come stabile punto di riferimento e centro di comuni interessi materiali e spirituali dei propri componenti viene in rilievo la nozione di casa familiare quale luogo degli affetti, interessi ed abitudini in cui si esprime la vita familiare …tali caratteristiche fanno sì che il soggetto che formalmente assume la qualità di comodatario riceva il bene non solo e non tanto a titolo personale, quanto piuttosto quale esponente di detta comunità”.

Sulla base di questo richiamo, la A. insistè nella tesi che il comodato sarebbe soggetto ad una scadenza implicita e connessa alla destinazione impressa e alle finalità dell’istituto, sicchè il vincolo non potrebbe considerarsi automaticamente caducato per il sopravvenire della crisi coniugale, prescindendo quella destinazione, nella sua oggettività, dall’effettiva composizione della comunità domestica.

Invocando altra giurisprudenza di questa Corte, la A. sostenne che il provvedimento di assegnazione in favore del coniuge affidatario di figli minorenni o convivente con figli maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa, non modificherebbe il contenuto del titolo di godimento sull’immobile, ma determinerebbe una concentrazione, nella persona dell’assegnatario, del titolo, con la conseguenza che il comodante dovrebbe consentire il godimento del bene per l’uso originariamente previsto nel contratto.

La Corte d’appello, con sentenza del 22/09/2010, dichiarò l’appello improcedibile per il mancato rispetto del termine di giorni dieci per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione d’udienza ex art. 435 c.p.c., comma 2 e questa Corte di Cassazione, adita dai sigg.ri Al. e S., accolse il ricorso dagli stessi presentato ritenendo che i termini indicati non fossero perentori.

Riassunto il giudizio dinanzi la Corte d’appello di Roma, i coniugi Al. e S. riproposero le stesse domande già avanzate in primo grado e rinnovate in appello, compresa una domanda subordinata di cessazione del rapporto, qualificato (a loro dire erroneamente) come comodato, per il sopraggiungere di un proprio bisogno urgente ed imprevedibile di disporre dell’abitazione.

La A. non si costituì e la Corte d’appello di Roma, con sentenza depositata il 18/03/2015, in integrale riforma della pronuncia del Tribunale di Roma, ha accolto la domanda degli appellanti, condannando la A. al rilascio dell’immobile per scadenza della locazione e alle spese dei tre gradi di giudizio.

La Corte d’Appello ha escluso la novazione del contratto ed ha ritenuto raggiunta, invece, la prova della locazione, risalente al 1986) sì che non era applicabile la norma sulla forma scritta del contratto, alla luce delle dichiarazioni di S.M., la cui incapacità a testimoniare non era stata più eccepita e del deposito di bonifici effettuati mensilmente dal 2002, recanti la causale “fitto”, effettuati anche dalla A.; ha accertato che il contratto era scaduto in data 6/5/2010 avuto riguardo alla durata legale di quattro anni decorrenti dal 7/5/2002 (data del secondo rinnovo contrattuale) e tacitamente rinnovato di altri quattro anni, e, in presenza della manifestata volontà di non procedere oltre nel rapporto, da parte dei proprietari e locatori, a mezzo di apposita disdetta per finita locazione, ha condannato la A., subentrata nella locazione a seguito del provvedimento di assegnazione della casa in sede di separazione personale, al rilascio dell’immobile. Avverso detta sentenza ricorre la A. con ricorso affidato a tre motivi illustrati da memoria.

Gli Al. e S. resistono con controricorso illustrato da memoria. Il difensore della ricorrente ha allegato, alla memoria, istanza di liquidazione delle spese a carico dello Stato.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1571 e 1587 c.c. – difetto e/o vizio di motivazione – erronea individuazione della sussistenza del contratto di locazione.

La ricorrente ritiene che la sentenza abbia illegittimamente assunto, quale base della decisione, la sola testimonianza di S.M. mentre, per configurare una locazione, avrebbe dovuto raggiungere la prova di prestazioni corrispettive, laddove, invece, nel caso in esame, mancava l’obbligo giuridico di versare un corrispettivo.

La Corte avrebbe dovuto confermare le statuizioni del Tribunale secondo il quale il comodato era provato sia dalla fase temporale in cui era sorto il rapporto – mese immediatamente precedente quello del matrimonio tra lo S. e l’ A. – sia dalla funzione del contratto ed avrebbe dovuto concludere nel senso che il termine implicito della durata del rapporto coincideva con il raggiungimento dell’indipendenza economica della figlia convivente.

Il motivo è infondato in quanto volto ad ottenere dalla Cassazione una diversa qualificazione giuridica – comodato – del contratto, ampiamente e congruamente motivata dalla Corte d’appello.

Con il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione, falsa applicazione dell’art. 246 c.p.c. in combinato disposto con l’art. 157 c.p.c. e artt. 24 e 111 Cost.

L’ A. censura il capo di sentenza che ha ritenuto l’eccezione di incapacità a testimoniare di S.M. rinunciata in conseguenza della contumacia di essa A. nel giudizio di rinvio a cui, invece, era acquisita per le pregresse fasi di merito in cui era stata formulata.

Il motivo è infondato. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, la mancata riproposizione in sede di precisazione delle conclusioni definitive, di domande ed eccezioni precedentemente sollevate, implica normalmente una presunzione di rinuncia e abbandono, anche qualora ciò avvenga nel giudizio di rinvio, in quanto se, in detto giudizio, alle parti è preclusa la possibilità di proporre nuove domande ed eccezioni, rimane una facoltà di scegliere se insistere o meno in tutte le conclusioni in precedenza rassegnate (Cass., 26/01/2007 n. 1754; Cass., 2 n. 24728 del 23/11/2011; Cass., 3, n. 1603 del 3/2/2012; Cass., 6-2, n. 10748 del 27/6/2012; Cass., 3 n. 2093 del 29/1/2013). La sentenza impugnata ha applicato correttamente questi principi, sicchè il motivo è infondato.

Con il terzo motivo l’ A. denuncia la violazione, falsa applicazione, omessa e/o illogica motivazione con riferimento agli artt. 91 – 92 c.p.c. Censura l’impugnata sentenza nella parte in cui ha ritenuto di liquidare le spese di tutti i gradi del giudizio secondo la regola della soccombenza, senza tener conto che in cassazione non aveva resistito e non si era costituita in sede di rinvio.

Il motivo è infondato in quanto la Corte d’appello ha applicato il principio della soccombenza secondo l’esito finale della lite (Cass., 3, n. 4485 del 238/3/2001: “La condanna della parte soccombente alle spese processuali, a norma dell’art. 91 c.p.c. non ha natura sanzionatoria. Essa non avviene a titolo di risarcimento dei danni (il comportamento del soccombente non è assolutamente illecito, in quanto è esercizio di un diritto), ma è conseguenza obiettiva della soccombenza. Ai relativi fini non rilevano i comportamenti neutri della parte contro cui il giudizio venga promosso, e cioè quelli che non implicano l’esclusione del dissenso nè importano l’adesione all’avversa richiesta – quali il restare inerte e non dedurre nulla in contrario all’accoglimento della domanda dell’attore – e sta di fatto che è ritenuto soccombente e merita la condanna al rimborso delle spese processuali il convenuto contumace, oppure il convenuto che, pur avendo riconosciuto la fondatezza della pretesa altrui, non abbia fatto nulla per soddisfarla, sì da rendere superfluo il ricorso all’autorità giudiziaria”).

Il difensore della A., ammessa al gratuito patrocinio, con apposita istanza chiede la liquidazione del proprio compenso ma l’istanza è irricevibile nel giudizio di Cassazione. Secondo la giurisprudenza di questa Corte infatti (Cass., 1, 25/07/2006n. 16986; l’istanza è irricevibile nel giudizio di Cassazione. Secondo la giurisprudenza di questa Corte infatti (Cass., 1, 25/07/2006n. 16986; Cass. 1, n. 13760 del 12/6/2007), in tema di patrocinio a spese dello Stato, secondo il regime del D.Lgs. 30 maggio 2002, n. 113, deve ritenersi che la competenza sulla liquidazione degli onorari al difensore officiato del gratuito patrocinio, per l’attività prestata nel giudizio di Cassazione, spetti al giudice di rinvio o a quello la cui pronuncia è divenuta irrevocabile – come nella specie – a seguito dell’esito del giudizio di legittimità ed al quale, quindi, l’interessato ha l’onere di presentare istanza, così come prevedeva la norma contenuta nella L. 30 luglio 1990, n. 217, art. 15-quattuordecies giacchè la circostanza che nel citato D.Lgs. n. 113 del 2002, art. 82 (riprodotto nel D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 82) la previsione di quella norma non sia stata espressamente riprodotta, deve ritenersi frutto di un errore in quanto, posto che, contro la liquidazione è ammessa opposizione nelle forme della L. 13 giugno 1942, n. 794 dinanzi al Tribunale o alla Corte d’appello, è inconcepibile che l’opposizione alla liquidazione effettuata dalla Corte di Cassazione possa poi eventualmente svolgersi dinanzi ai giudici di merito.

Conclusivamente il ricorso va rigettato con ogni conseguenza in ordine alle spese del giudizio di Cassazione. Si dà atto della non sussistenza dei presupposti per il raddoppio del contributo unificato.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 3.000 (oltre Euro 200 per esborsi), spese generali al 15% ed accessori di legge. Dichiara irricevibile l’istanza del difensore della ricorrente di liquidazione dei compensi per il patrocinio in cassazione a spese dello Stato. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello già versato per il ricorso.

Così deciso in Roma, il 16 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2017

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