Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2203 del 30/01/2020

Cassazione civile sez. II, 30/01/2020, (ud. 10/10/2019, dep. 30/01/2020), n.2203

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. GRASSO Gianluca – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. CARBONE Enrico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28187-2015 proposto da:

S.L.E., I.D., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA ATTILIO REGOLO 12/D SC. A INT., presso lo studio

dell’avvocato RINALDO FAZI, rappresentati e difesi dall’avvocato

GIUSEPPE ERAMO;

– ricorrenti –

contro

R.J., R.A., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE

REGINA MARGHERITA 290, presso lo studio dell’avvocato ROSALBA

GENOVESE, rappresentati e difesi dall’avvocato GIANCARLO RODI;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 7825/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 29/12/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/10/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MISTRI corrado, che ha concluso per il rigetto del primo motivo,

l’inammissibilità ed in subordine il rigetto dei restanti motivi

del ricorso;

udito l’Avvocato Giancarlo Rodi, difensore dei resistenti, che ha

chiesto il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

I.D. e S.L.E. citarono in giudizio R.A. e R.J., chiedendo che i convenuti fossero condannati al ripristino dello stato dei luoghi, così da eliminare gli ostacoli da quest’ultimi frapposto al libero esercizio della servitù di passaggio goduta dai primi, costituita, con atto pubblico del 9/6/1986, dalle germane M.V. (dante causa degli attori) e I.M.L. e da R.A.. Gli attori soggiungevano che la servitù di cui si discute era stata modificata con scrittura privata del 24/12/1996, stipulata da I.D. e R.A.. Di quest’ultimo negozio, con il quale era stata disposta permuta dei terreni e modifica della strada, senza la partecipazione di S.E.M., comproprietaria del fondo dominante, e del proprietario della particella n. (OMISSIS), era stata chiesto l’annullamento o la risoluzione, per inadempimento del R., oltre al risarcimento del danno.

Il Tribunale di Cassino rigettò la domanda e la Corte d’appello di Roma, con la sentenza di cui in epigrafe, disattese l’impugnazione avanzata dal I. e dalla S..

Avverso quest’ultima decisione gli appellanti avanzano ricorso per cassazione sulla base di tre motivi. Gli intimati resistono con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo i ricorrenti denunziano violazione degli artt. 112 e 346 c.p.c., assumendo che la Corte di Roma aveva illegittimamente statuito a riguardo della domanda con la quale gli appellanti avevano denunziato l’invalidità del negozio del 1996 per non avere partecipato allo stesso la S. e R.J., nonchè a riguardo di “una presunta prescrizione del diritto derivante dall’art. 184 c.c.” non eccepita dalla controparte.

In particolare, assumono i ricorrenti, che la Corte territoriale aveva statuito sulla domanda attorea diretta alla declaratoria di nullità e inefficacia della scrittura del 24/12/1996, nonchè su quella subordinata di risoluzione per inadempimento, rigettandole, senza considerare che le predette domande in larga parte non avrebbero dovuto essere esaminate, avendo gli appellanti “di fatto rinunciato all’impugnazione della parte della sentenza relativa alla mancata partecipazione alla scrittura del 24.12.96 delle Sig.re S.L.E. e R.J.”.

1.1. La doglianza è, all’evidenza, inammissibile.

In via prioritaria deve rilevarsi che l’opera d’interpretazione della domanda, e, di conseguenza, delle intervenute rinunzie, è di esclusivo dominio del giudice del merito e, pertanto, non sindacabile in questa sede, siccome più volte ribadito (cfr., ex multis, Sez. 2, n. 20718, 13/8/2018).

Peraltro, deve escludersi esservi stata univoca rinunzia per il mero fatto che in seno alle riportate conclusioni dell’atto d’appello fosse stato scritto: “ritenuta altresì l’inefficacia e/o la nullità della scrittura privata redatta il 24.12.1996 per vizio del consenso degli altri proprietari dei fondi oggetto di servitù, in particolare del terzo estraneo proprietario della particella n. (OMISSIS), in ogni caso dichiarare la risoluzione per inadempimento del R.”. Invero, la frase finale, si apre con un argomento di rinforzo (“in ogni caso”) che non implica l’abbandono delle invalidità prospettate per prime (inefficacia e nullità).

Inoltre, i ricorrenti non esplicitano in che consista l’interesse alla doglianza a riguardo di un profilo di soccombenza non impugnato.

Nessuna statuizione si registra in ordine alla prescrizione, ma solo un mero passaggio argomentativo, sicuramente privo della capacità di formare giudicato. Sul punto, la motivazione della sentenza d’appello, alle pagg. 5 e 6, non lascia il residuato di dubbio alcuno. Si afferma, infatti, il difetto di legittimazione attiva “a far valere il preteso vizio derivante dalla mancata partecipazione della comproprietaria dei fondi dovendo la predetta ritenersi legittimata, in via esclusiva, a chiedere, nei confronti del marito e dell’eventuale terzo, l’annullamento dell’atto dispositivo dei beni ricompresi nella comunione legale tra coniugi, a norma di quanto previsto dall’art. 184 c.c.”. Qualche periodo dopo, viene soggiunto che “l’annullamento dell’atto dispositivo riguardante i predetti beni per mancato consenso della comproprietaria S. doveva necessariamente essere chiesto dalla predetta nei confronti del coniuge e degli altri contraenti, nel termine di cui all’art. 184 c.c. ovverosia entro l’anno dalla conoscenza dell’atto discendendo dalla mancata proposizione dell’azione costitutiva la prescrizione del relativo diritto”.

Di conseguenza, non può seriamente dubitarsi che l’unica ratio decidendi si fonda sulla constatazione che il solo soggetto legittimato a far valere la speciale causa di annullabilità è il coniuge, che nella specie non consta aver esercitato un tal diritto. La specificazione che l’esercizio debba manifestarsi nel rispetto del termine prescrizionale, certamente superflua, non assume alcun rilievo decisorio.

2. Con il secondo motivo i ricorrenti prospettano “omesso esame ed errata valutazione di circostanze, oggetto di contraddittorio, decisive ai del giudizio”, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Con la doglianza in esame i ricorrenti promiscuamente lamentano che:

– avevano sin dal primo grado allegato che il convenuto aveva ostruito l’ultimo tratto del percorso e che nonostante l’accordo del 1996 tali ostruzioni erano restate inalterate, stante che il R., rimasto inadempiente al negozio del 1996, piuttosto che eliminare gli ostacoli, ne aveva creati di nuovi;

– di conseguenza non risultava comprensibile l’affermazione della sentenza impugnata, secondo la quale non sarebbe stato “meglio specificato” l’inadempimento del convenuto;

– gli appellanti avevano provato l’assunto;

– la Corte di Roma aveva illogicamente scartato le risultanze della CTU svolta in primo grado, dalle quali emergevano le ragioni degli esponenti;

– il contratto del 1986 avrebbe dovuto essere interpretato alla luce di quello intervenuto un decennio dopo;

– il fatto che lo I. fosse stato presente allo svolgimento dei lavori non garantiva che gli stessi fossero stati effettuati nel rispetto dei patti.

2.1. La doglianza è inammissibile per il convergere di più autonome ragioni:

a) in primo luogo (a voler sorvolare sull’intrinseca e insanabile contraddizione della doglianza, con la quale si deduce, a un tempo, l’omesso e l’erroneo esame), la doglianza risulta priva di specificità sotto il profilo dell’autosufficienza, non essendo stati versati in atti gli invocati contratti del 1986 e del 1996;

b) in secondo luogo, è palese la richiesta d’un inammissibile riesame delle emergenze di causa, peraltro, sulla base di una ricostruzione approssimativa e lacunosa;

c) in terzo luogo la critica, ancora con palese difetto di specificità, invoca conclusioni della consulenza tecnica non messe a disposizione della Corte.

3. Con il terzo motivo i ricorrenti lamentano violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e artt. 1362 c.c. e segg., artt. 1367 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto, la sentenza:

– non aveva tenuto conto del principio di non contestazione, negando che con la scrittura del 1996 non si fosse statuito “alcun diritto reale su fondi altrui”;

– aveva utilizzato il materiale probatorio offerto dalle parti in maniera “incoerente e avulsa dalle allegazioni difensive proposte nel corso del giudizio de riesame”;

– aveva violato l’art. 1367 c.c., non comprendendosi “in quale altro modo, se non nel senso della imposizione di una servitù di transito sulla particella (OMISSIS), debba essere interpretato l’inciso” negoziale riassunto nella comparsa di costituzione della controparte, trascritta in ricorso (pagg. 17 e 18); concordando in tal senso i termini del contraddittorio di cui ai precedenti giudizi fra le parti;

3.1. Anche l’ultimo motivo condivide il destino d’inammissibilità degli altri.

Il principio di non contestazione viene evocato fuori luogo.

Con il principio in parola si afferma che la parte chiamata resistere all’altrui domanda, presa posizione sull’azionata pretesa, deve contestare, sia pure attraverso la proposizione di una ricostruzione, in tutto o in parte, alternativa, la narrazione fattuale di chi la domanda propone (cfr., ex multis, Sez. 5, n. 31619, 6/12/2018; Sez. 3, n. 3022, 8/2/2018). Cosa diversa costituisce la valutazione di quei fatti, sulla quale il convenuto non ha l’onere di controbattere all’avverse tesi (conf., Sez. 6, n. 30744, 21/12/2017).

Inoltre, l’apprezzamento della non contestazione è territorio esclusivo del giudice del merito (conf., ex multis, da ultimo, Sez. 6, n. 3680, 7/2/2019).

In disparte, dalle espressioni riportate in ricorso, che i ricorrenti assumono di aver estrapolato dalla comparsa di risposta del 1997 della controparte, non si ricava il “riconoscimento” dell’anelato diritto reale, senza contare che il diritto reale esiste o meno, senza che assuma rilievo un eventuale riconoscimento e financo confessione (Cass. nn. 10163/2011, 20198/2004, 9489/2000, 6024 cit.).

La lamentela concernente il vaglio probatorio, già inammissibile in astratto, in quanto tesa al riesame del merito, in concreto pecca, inoltre, d’irriducibile aspecificità, sotto il profilo del difetto di autosufficienza.

Non meno impluasibile deve ritenersi l’addotta violazione dell’art. 1367 c.c. Attraverso una retorica domanda indiretta i ricorrenti, piuttosto che spiegare le specifiche ragioni per le quali la Corte locale avrebbe proceduto a una interpretazione tale da frustrare l’esigenza di conservazione del contratto, delegano alla Corte di legittimità l’indagine ermeneutica.

La vicenda, come sovente, resta confinata negli apprezzamenti di merito, non bastando, come più volte chiarito in questa sede, la enunciazione della pretesa violazione di legge in relazione al risultato interpretativo favorevole, disatteso dal giudice del merito, occorrendo individuare, con puntualità, il canone ermeneutico violato correlato al materiale probatorio acquisito; in quanto, “l’opera dell’interprete, mirando a determinare una realtà storica ed obiettiva, qual è la volontà delle parti espressa nel contratto, è tipico accertamento in fatto istituzionalmente riservato al giudice del merito, censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali d’ermeneutica contrattuale posti dagli artt. 1362 c.c. e ss., oltre che per vizi di motivazione nell’applicazione di essi: pertanto, onde far valere una violazione sotto entrambi i due cennati profili (il secondo, ovviamente, sotto il regime del vecchio testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5), il ricorrente per cassazione deve, non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito siasi discostato dai canoni legali assuntivamente violati o questi abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti; di conseguenza, ai fini dell’ammissibilità del motivo di ricorso sotto tale profilo prospettato, non può essere considerata idonea – anche ammesso ma non concesso lo si possa fare implicitamente – la mera critica del convincimento, cui quel giudice sia pervenuto, operata, come nella specie, mediante la mera ed apodittica contrapposizione d’una difforme interpretazione a quella desumibile dalla motivazione della sentenza impugnata, trattandosi d’argomentazioni che riportano semplicemente al merito della controversia, il cui riesame non è consentito in sede di legittimità (ex pluribus, da ultimo, Cass. 9.8.04 n. 15381, 23.7.04 n. 13839, 21.7.04 n. 13579. 16.3.04 n. 5359, 19.1.04n. 753)” (Sez. 2, n. 18587, 29/10/2012; si veda anche, per la ricchezza di richiami, Sez. 6-3, n. 2988, 7/2/2013).

4. Le spese legali seguono la soccombenza e possono liquidarsi siccome in dispositivo in favore del controricorrente, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonchè delle attività svolte.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

PQM

rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese legali in favore dei resistenti, che liquida in Euro 3.300,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 10 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 30 gennaio 2020

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