Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22019 del 31/10/2016


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Cassazione civile sez. II, 31/10/2016, (ud. 13/09/2016, dep. 31/10/2016), n.22019

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – rel. Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 23011/2012 proposto da:

L.R., (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

GIOLITTI 202, presso lo studio dell’avvocato CIAVARELLA DOMENICO,

rappresentata difesa dall’avvocato FRANCESCO RACANELLI;

– ricorrente –

contro

A.V., I.C.C., elettivamente domiciliati

in ROMA, VIA MUZIO CLEMENTE N. 9, presso lo studio dell’avvocato

GIUSEPPE RAGUSO, rappresentati e difesi dall’avvocato ANTONIO

CAGGIANO;

I.N., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COSSERIA N. 1,

presso lo studio dell’avvocato ALFREDO PLACIDI, rappresentato e

difeso dall’avvocato FRANCESCO MONACO;

– controricorrenti –

e contro

L.R., L.A., L.G., L.A.,

LO.AN.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 762/2012 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 28/06/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/09/2016 dal Consigliere Dott. LORENZO ORILIA;

udito l’Avvocato RACANELLI Francesco, difensore della ricorrente che

si riporta agli atti depositati e chiede l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato MONACO Francesco, difensore dei resistenti I. +

1, che si riporta agli atti depositati;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per l’inammissibilità in sub

rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1 Con atto 13.6.1989 L.R. convenne davanti al Tribunale di Bari i fratelli D., R. e A. chiedendo lo scioglimento della comunione su alcuni beni lasciati dalla defunta madre C.A. (libretto di risparmio di Lire 6.987.758, BOT per Lire 30.000.000 nonchè fondo rustico con pertinenziali fabbricati in (OMISSIS) riportato in catasto al fol. (OMISSIS), p.lla (OMISSIS) precedentemente donato dalla madre in favore dei convenuti senza dispensa di collazione.

L.A., costituitosi nel giudizio, aderì alla domanda di divisione, precisando però che: 1) bene donato non poteva costituire oggetto di collazione in difetto di prova della lesione della quota di legittima riservata all’attrice; in ogni caso chiese che la collazione operasse solo sulla parte eventualmente eccedente la disponibile.

Gli altri due convenuti L.D. e R., costituituisi anch’essi, richiamarono un accordo divisionale transattivo riguardante l’asse ereditario paterno, la cui esecuzione, a loro dire, era stata ostacolata dall’attrice sulla base di un asserito inadempimento degli altri coeredi. Proposero quindi domanda riconvenzionale di divisione dell’intero asse ereditario.

A seguito della morte del convenuto L.D., il processo venne interrotto e poi riassunto nei confronti degli eredi Lo.An., L.G. e A..

A tale giudizio venne quindi riunito quello promosso contro tutti gli eredi L. con atto (OMISSIS) (RG. 6722/9C) da I.N. (erede universale della moglie L.G., sorella premorta dei L.), ed avente ad oggetto l’esecuzione in forma specifica degli obblighi nascenti dalla scrittura privata del (OMISSIS) con cui le parti avevano concordato le modalità di divisione dell’eredità paterna ( L.G.) e materna ( C.A.). In tale giudizio, con sentenza parziale del 19.4.1994 n. 4000 il Tribunale, respinte le prime tre domande del Iacobbe, rimise la causa sul ruolo per istruire la domanda sub 4 con cui l’attore aveva in subordine chiesto lo scioglimento della comunione dei beni relitti da C.A..

Il processo subì un’altra interruzione dovuta alla morte di I.N. e venne successivamente riassunto dai suoi eredi I.N. e l’omonimo I.N. (nato nel (OMISSIS)). Si costituì altresì A.V., nominato legatario dal predetto I.N..

2 Il Tribunale di Bari con sentenza 3087 del 13.5.2009 dispose lo scioglimento della comunione ereditaria conseguente alla successione di Anna Cassano attribuendo ai coeredi i beni secondo il progetto divisionale predisposto dal CTU con rispettivi conguagli e compensazione integrale delle spese tra le parti.

Tale decisione, impugnata da L.R., è stata confermata con sentenza 762/12 dalla Corte d’Appello di Bari e l’appellante è stata condannata al pagamento delle spese di lite.

Nel rigettare il gravame, la Corte pugliese ha osservato, per quanto di stretto interesse in questa sede:

– che con la riunione dei procedimenti il contraddittorio doveva ritenersi assolutamente integro essendo presenti le parti comproprietarie interessate allo scioglimento della comunione di tutti beni relitti;

che appariva infondata l’eccezione di violazione del giudica:Io rappresentato dalla sentenza n. 1819/1987 relativa allo scioglimento della comunione dei beni relitti da L.G..

3 La pronuncia è stata impugnata per cassazione da L.R. con tre motivi.

Resistono gli eredi di I.N. ( C. e N.) nonchè con separato, ma identico controricorso, il legatario A.V..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 Col primo motivo di ricorso viene dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, la nullità del procedimento per violazione degli artt. 102, 110 e 274 c.p.c., nonchè l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Partendo dal generale principio della autonomia dei giudizi pur dopo la riunione degli stessi, la L. rileva che il giudizio da lei promosso nel (OMISSIS) contro i fratelli aveva uno specifico oggetto (divisione solo di alcuni beni relitti dalla madre C.A., il libretto di risparmio, i titoli e un terreno) per cui il Tribunale non doveva procedere alla divisione di tutto l’asse ereditario di L.G. e della C.. Rileva che rispetto a tali beni Nicola Iacobbe (marito di L.G. deceduta il (OMISSIS) prima della madre C.A. non aveva alcun diritto nè era stato convenuto in giudizio, per cui deve ritenersi nulla tutta l’attività processuale svolta. Ritiene irrilevante la riunione del procedimento proposto dal I. dopo la sentenza parziale n. 4000/1994 che aveva rigettato le domande n. 1, 2 e 3 lasciando ferma solo la domanda sub 4 (avente ad oggetto la attribuzione ex art. 720 c.c., della quota di L.R. e liquidazione in danaro della sua quota, ma non di divisione dei beni ereditari. Osserva che L.R. non aveva mai notificato nè coltivato la domanda riconvenzionale spiegata nel giudizio principale n. 3459/89 e che comunque essa non aveva proposto tale domanda nei confronti del I. avendogli in precedenza ceduto ogni diritto successorio relativo alla sorella. Secondo la ricorrente, avrebbe pertanto errato la Corte d’Appello a ritenere che la riconvenzionale di L.R. fosse idonea a consentire la divisione di tutti i beni delle eredità di L.G. e di C.G.. Deduce quindi la nullità del giudizio di appello e di quello di primo grado, chiedendo la trasmissione degli atti ad altro giudice di primo grado.

Il motivo è infondato.

In tema di riunione di procedimenti relativi a cause connesse, il principio generale di autonomia dei giudizi, per cui la riunione non altera la posizione delle parti in ciascuno di essi, nè gli atti e le statuizioni riferiti ad un processo si ripercuotono sull’altro solo perchè riunito al primo, è un principio suscettibile di temperamento, onde evitare un inutile aggravio degli oneri processuali, purchè non ne risulti vulnerato il diritto di difesa (v. Sez. 3, Sentenza n. 9440 del 11/06/2012 Rv. 622677; Sez. 3, Sentenza n. 15383 del 13/07/2011 Rv. 618791).

Ed è appena il caso di osservare come il principio di diritto sopra riportato trovi ragione di attuazione anche nella vicenda in esame, stante l’avvenuto coinvolgimento, nei giudizi riuniti, di tutti gli eredi L., ossia quelli di G. (deceduto il (OMISSIS)), quelli della figlia G. (deceduta il (OMISSIS)) e quelli di C.A. (coniuge di G., deceduta a sua volta il (OMISSIS)) il che consentiva la piena conoscenza dell’attività processuale svolta dalle altre parti in ciascuno dei diversi giudizi e la possibilità di difendersi adeguatamente nel merito dalle doglianze e dalle richieste da esse avanzate.

Non merita pertanto censura la sentenza impugnata che, attraverso un tipico apprezzamento in fatto adeguatamente esplicitato (v. pag. 5), ha ravvisato la partecipazione di tutte le parti interessate e ritenuto corretto lo scioglimento della comunione “su tutti i beni relitti” in presenza di una domanda riconvenzionale di divisione (avanzata da L.A.) nonchè di una autonoma domanda di scioglimento della comunione proposta da I.N. coniuge superstite di L.G. e acquirente dei diritti spettanti agli altri eredi del coniuge premorto (cioè ai fratelli di G., ad eccezione però di R.), tra cui anche i diritti relativi all’eredità della madre C.A. che a sua volta aveva ereditato, pro quota, dalla figlia (v. sentenza impugnata a pag. 3; v. altresì ricorso ove a pag. 11 si afferma testualmente che ” I.N. aveva liquidato la quota spettante agli altri cognati L.D., L.A. e L.R., della eredità della moglie e sorella L.G. loro spettante quali eredi della madre C.A.”).

Le critiche sull’interpretazione delle domande neppure colgono nel segno: è noto che l’interpretazione della domanda e l’apprezzamento della sua ampiezza, oltre che del suo contenuto, costituiscono, anche nel giudizio di appello, ai fini della individuazione del “devolutum”, un tipico apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, e, pertanto, insindacabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo dell’esistenza, sufficienza e logicità della motivazione (v. Sez. 3, Sentenza n. 19475 del 06/10/2005 Rv. 584775; Sez. 2, Sentenza n. 3678 del 14/04/1999 Rv. 525342).

Nel caso in esame, il ricorso si limita a contrapporre una diversa ricostruzione del contenuto delle domande, ma omette di evidenziare profili di illogicità, oppure di assenza o insufficienza della motivazione che invece, come si è visto, appare del tutto congrua.

2 Col secondo motivo, la L. deduce ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, violazione dell’art. 2909 c.c., nonchè l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione. Secondo la tesi della ricorrente la Corte d’Appello avrebbe dovuto tener presente il giudicato rappresentato dalla sentenza del Tribunale di Bari n. 1819/1987 con cui si stabiliva che l’eredità di L.G. andasse divisa tra i figli R., D., R., A. e G. secondo le quote previste dall’ing. Camporeale in apposito progetto divisionale, restando invece immutata la posizione di Anna C., coniuge del de cuius e titolare solo del diritto di usufrutto. Rileva però che la scrittura privata sottoscritta il (OMISSIS) (contenente una diversa ripartizione dell’asse) era stata annullata dal Tribunale di Bari con la sentenza 4000/1994 e pertanto i giudici avrebbero dovuto tener presenti le statuizioni della citata sentenza 1819/1989, “non avendo nessun rilievo, rispetto al chiaro dettato dell’art. 2909 c.c., la circostanza che nessuno degli interessati abbia mai posto in esecuzione la sentenza o che in separato giudizio L.R. abbia promosso richieste incompatibili con il progetto di divisione”.

IL motivo è inammissibile.

Innanzitutto, lo è per difetto di autosufficienza (art. 366 c.p.c., n. 6): per giurisprudenza costante di questa Corte, al fine di ritenere integrato il requisito della cosiddetta autosufficienza del motivo di ricorso per cassazione, quando esso concerna la valutazione da parte del giudice di merito di atti processuali o di documenti, è necessario specificare la sede in cui nel fascicolo d’ufficio o in quelli di parte essi siano rinvenibili, sicchè, in mancanza, il ricorso è inammissibile per l’omessa osservanza del disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 22607 del 24/10/2014 Rv. 633219; Sez. 3, Sentenza n. 8569 del 09/04/2013 Rv. 625839; Sez. U, Sentenza n. 22726 del 03/11/2011 Rv. 619317).

Nella fattispecie all’esame del Collegio, l’atto processuale costituente il perno su cui ruota la censura (cioè la sentenza del Tribunale di Bari n. 1819/1987 di cui si invoca l’autorità di giudicato) risulta solo genericamente menzionato quanto al contenuto (v. pag. 15 ricorso, ove si dà atto solo della individuazione dei coeredi e del richiamo ad un non meglio specificato progetto dell’ing. C.); inoltre, manca nel ricorso la benchè minima indicazione dei dati utili al reperimento della sentenza negli atti del processo e non rientra certo tra i compiti del giudice di legittimità l’attività di ricerca del documento negli atti del processo.

Il motivo è però inammissibile anche sotto altro profilo:

Sempre secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza (v. tra le tante, Sez. L, Sentenza n. 3386 del 11/02/2011 Rv. 615988; Sez. 6 – L, Ordinanza n. 22753 del 03/11/2011 Rv. 619427; Sez. L, Sentenza n. 4293 del 04/03/2016 Rv. 639158; Sez. U, Sentenza n. 7931 del 29/03/2013 Rv. 625631).

Ebbene, nel caso di specie, tra le varie rationes decidendi utilizzate dalla Corte di merito per respingere l’eccezione di giudicato figura l’affermazione – del tutto autonoma e logicamente sufficiente a sorreggere la motivazione – secondo cui “il lungo tempo trascorso e il sopravvenuto decesso di C.A. avevano reso oggettivamente impossibile la sua attuazione così come argomentato dal CTU nella relazione peritale” (v. pag. 5 sentenza).

Ebbene, tale passaggio argomentativo, imperniato sulla oggettiva impossibilità di esecuzione di quella sentenza, non risulta censurato (v. pagg. 14 e ss. del ricorso) e ciò in applicazione del citato principio rende inammissibili per difetto di interesse le censure relative alle altre argomentazioni.

3 Col terzo ed ultimo motivo si denunzia infine, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5 e art. 91 c.p.c., la violazione dei principi in materia di liquidazione delle spese legali nonchè il difetto di motivazione, sostenendosi che la Corte d’Appello non solo ha disatteso le censure sulla regolamentazione delle spese del primo grado di giudizio, ma addirittura ha addebitato alla ricorrente a titolo di sanzione la somma di Euro 8.000,00 per ogni parte costituita in appello, somma di gran lunga superiore a quanto previsto dalla legge che ha abolito le tariffe forensi. Rileva inoltre la ricorrente che la liquidazione effettuata con correzione a penna sembra più una sanzione irrogata alla parte petulante che una condanna alle spese, dichiarando di non comprendere come, a fronte di una attività limitata alla sola costituzione e precisazione delle conclusioni, possa essere stata liquidata una simile somma. Ribadisce infine che nessuna motivazione viene data in ordine alla censura relativa alla regolamentazione delle spese di primo grado.

Anche questo motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza sotto ogni profilo (art. 366 c.p.c., n. 4).

Partendo dall’ultimo rilievo (assenza di motivazione sulla censura relativa alla regolamentazione delle spese del giudizio di primo grado), ben vedere la L., più che un difetto di motivazione, denunzia in sostanza l’omessa pronunzia su un motivo di appello, considerato che come si desume dallo stesso ricorso pag. 9) – l’ultima censura mossa alla statuizione del Tribunale, distinta con la lettera riguardava proprio “l’erroneità delle statuizioni in ordine alle spese”: il vizio avrebbe dovuto essere veicolato nello schema dell’art. 112 c.p.c. e non nel difetto di motivazione.

Tuttavia, pur volendo ritenere sostanzialmente dedotto il vizio di omessa pronuncia, va considerato che, come più volte affermato da questa Corte anche a sezioni unite, affinchè possa utilmente dedursi in sede di legittimità un tale vizio, necessario, da un lato, che al giudice di merito fossero state rivolte una domanda o un’eccezione autonomamente apprezzabili e, dall’altro, che tali domande o eccezioni siano state riportate puntualmente, nei loro esatti termini, nel ricorso per cassazione, per il principio dell’autosufficienza, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo o del verbale di udienza nei quali le une o le altre erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primo luogo, la ritualità e la tempestività e, in secondo luogo, la decisività(v. tra le varie, Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 5344 del 04/03/2013 Rv. 625408; Sez. U, Sentenza n. 15781 del 28/07/2005 Rv. 58309).

Nel caso che ci occupa, il ricorso, pur contenendo l’indicazione della sede in cui la doglianza era stata proposta (atto di appello, sub D), omette assolutamente di riportare il contenuto della censura sulle spese (che, peraltro, il Tribunale aveva interamente compensato).

Per il resto, va osservato che il ricorso non censura l’addebito in via esclusiva delle spese di lite, ma solo l’entità della liquidazione, denunziando addirittura il superamento di quanto previsto dalla legge che ha abolito le tariffe forensi.

Ebbene, secondo un generalissimo principio – oggi ribadito da questo Collegio – il superamento, da parte del giudice, dei limiti minimi e massimi della tariffa forense nella liquidazione delle spese giudiziali configura un vizio “in iudicando” e, pertanto, per l’ammissibilità della censura, è necessario che nel ricorso per cassazione siano specificati i singoli conteggi contestati e le corrispondenti voci della tariffa professionale violate, al fine di consentire alla Corte il controllo di legittimità, senza dover espletare un’ammissibile indagine sugli atti di causa (tra le varie, Sez. 1, Sentenza n. 22983 del 29/10/2014 Rv. 632686; Sez. 3, Sentenza n. 15172 del 10/10/2003 Rv. 567404).

Nel caso specie, tale onere di specificazione non risulta adempiuto e pertanto la sentenza si sottrae alla censura.

In conclusione l’impugnazione va respinta e le ulteriori spese relative al giudizio di legittimità vanno poste a carico della parte soccombente.

PQM

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare le spese del giudizio di legittimità che si liquidano, in favore di ciascuna parte processuale, in Euro 4.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 13 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2016

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