Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22016 del 13/10/2020

Cassazione civile sez. trib., 13/10/2020, (ud. 28/01/2020, dep. 13/10/2020), n.22016

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 22134-2012 proposto da:

RABAGLIO & C SRL, in persona dell’Amministratore Unico,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA F. PAOLUCCI DE CALBOLI 1,

presso lo studio dell’avvocato STEFANIA CIASCHI, rappresentato e

difeso dall’avvocato GIOVANNI GALLI, giusta procura in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE DI VARESE, in persona del

Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la

rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

AMMINISTRAZIONE FINANZE STATO AGENZIA ENTRATE;

– intimata –

avverso la sentenza n. 18/2012 della COMM.TRIB.REG. della Lombardia,

depositata il 08/03/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

28/01/2020 dal Consigliere Dott. ROSARIA MARIA CASTORINA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ZENO IMMACOLATA che ha concluso per l’accoglimento per quanto di

ragione dei motivi sesto o settimo di ricorso;

udito per il ricorrente l’Avvocato GALLI che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso;

udito per il controricorrente l’Avvocato GAROFOLI che ha chiesto il

rigetto del ricorso.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

Rabaglio & C. s.r.l. esercente l’attività di commercio di autovetture nuove ed usate, ricambi ed accessori e gestione dell’autofficina per la riparazione delle auto, impugnava un avviso di accertamento notificato dall’Agenzia delle Entrate, con il quale venivano ripresi a tassazione maggiori redditi, per un importo complessivo di Euro49.000,00 ai fini IRPEG, IVA e IRAP, per l’anno d’imposta 2003, scaturenti dalle risultanze istruttore derivate dalla verifica fiscale eseguita dalla Guardia di Finanza di Gallarate, su segnalazione della Guardia di Finanza di Monza a conclusione delle indagini penali effettuate nei confronti della ditta individuale “Erremme di M.R.”.

Dall’indagine eseguita i militari verbalizzanti avevano riscontrato il coinvolgimento delle imprese verificate in un sistema di false fatturazioni finalizzato all’evasione dell’iva negli acquisti intracomunitari. Più precisamente l’operazione, che serviva a nazionalizzare la merce acquistata da soggetti coinvolti, tra i quali la Rabaglio s.r.l. da fornitori intracomunitari, ai fini della loro imponibilità all’imposta sul valore aggiunto, si realizzava per il tramite dell’intermediazione della Erremme, ditta cartiera risultata inesistente e il cui titolare era risultato un evasore totale, non avendo mai presentato nessuna dichiarazione dei redditi e ai fini Iva.

La contribuente impugnava l’avviso davanti la Commissione Tributaria Provinciale di Varese, la quale, con sentenza n. 128/04/2009 accoglieva il ricorso.

Proposto appello dall’Agenzia delle Entrate, la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia con sentenza n. 18/05/12 depositata in data 8.3.2012 lo accoglieva sul presupposto che, a fronte della legittima contestazione di fatture fittizie, spettava alla società accertata provare il contrario, circostanza nemmeno tentata.

Avvero la sentenza di appello Rabaglio & c. s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione, affidando il suo mezzo a tredici motivi, illustrati con memoria.

L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo la contribuente deduce violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 1 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e conseguente nullità della sentenza e del procedimento di appello in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Lamenta che la CTR non aveva ritenuto inammissibile l’appello ad onta della mancata indicazione dei motivi specifici di impugnazione.

2. Con il secondo motivo la contribuente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 329 c.p.c., comma 2 e art. 346 c.p.c. e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 56 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e conseguente nullità della sentenza e del procedimento in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4. Deduce che l’Agenzia delle Entrate nulla aveva eccepito o dedotto con riferimento alla parte dell’avviso di accertamento relativo alle imposte Irpeg e Irap, prestando acquiescenza sul punto.

3. Con il quarto motivo la contribuente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 346 e 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 per essere la sentenza della CTR viziata di ultrapetizione per avere accolto la domanda in relazione ad IRPEG e Irap nonostante l’acquiescenza dell’Agenzia sul punto.

Le censure sono suscettibili di trattazione congiunta.

Esse non sono fondate.

Questa Corte ha più volte affermato che nel processo tributario la riproposizione a supporto dell’appello delle ragioni inizialmente poste a fondamento dell’impugnazione del provvedimento impositivo (per il contribuente) ovvero della dedotta legittimità dell’accertamento (per l’Amministrazione finanziaria), in contrapposizione alle argomentazioni adottate dal giudice di primo grado, assolve l’onere di impugnazione specifica imposto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53 quando il dissenso investa la decisione nella sua interezza e, comunque, ove dall’atto di gravame, interpretato nel suo complesso, le ragioni di censura siano ricavabili, seppur per implicito, in termini inequivoci (Cass. 32954/2018). Tale principio è stato più volte applicato quando l’Amministrazione finanziaria si limiti a ribadire e riproporre in appello le stesse ragioni e argomentazioni poste a sostegno della legittimità del proprio operato in quanto considerate dalla stessa idonee a sostenere la legittimità dell’avviso di accertamento annullato (tra le molte, v. Cass. n. 1200 del 22/1/2016; Cass. n. 16163 del 3/8/2016; Cass. n. 7639 del 22/03/2017; Cass. n. 9937 del 20/04/2018; Cass. n. 11061 del 11/05/2018): il dissenso, infatti, può legittimamente investire la decisione nella sua interezza, sostanziandosi proprio nelle argomentazioni che suffragavano la domanda o la pretesa rimasta disattesa; inoltre, non occorrendo “l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la i redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado” (Sez. U, n. 27199/2017).

La CTR ha ritenuto ammissibile l’appello “per il motivo illustrato inerente la carenza di motivazione della sentenza appellata in ordine alle ragioni dell’avviso e la loro fondatezza sulla base di elementi certamente univoci a far ritenere fittizie le 5 fatture di vendita di auto nuove dalla Erremme alla Rabaglio”.

Inoltre, la CTR ha osservato che non poteva considerarsi avvenuta alcuna acquiescenza dell’amministrazione in relazione ad Irpeg ed Irap in quanto tutte le imposte sono dipendenti dallo stesso avviso di accertamento poichè l’ufficio, con l’atto di appello, aveva affermato la legittimità del proprio operato idonea a sostenere la legittimità dell’avviso di accertamento nella sua interezza.

4.Con il terzo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e conseguente nullità della sentenza e del procedimento di appello in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Lamenta che la CTR aveva ritenuto un onere di impugnazione anche della parte totalmente vittoriosa in primo grado nella parte in cui la Commissione Provinciale non aveva esaminato il mancato riconoscimento dei costi a fronte dei quali erano risultati ricavi.

5. Con il sesto motivo la ricorrente deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Evidenzia che la CTR aveva erroneamente ritenuto che la CTP avesse trascurato di valutare le operazioni in contestazione sia con riferimento alle imposte dirette che con riferimento alla deducibilità dell’Iva.

Le censure sono suscettibili di trattazione congiunta. Esse sono inammissibili per carenza di interesse.

Sebbene il passaggio motivazionale appaia contorto, la CTR non ha affermato l’esistenza di un obbligo di impugnativa della parte totalmente vittoriosa in primo grado, ma che l’unico gravame da esaminare era l’appello dell’ufficio con il quale era stata impugnata la decisione del primo giudice e affermata la legittimità dell’avviso di accertamento e della intera ripresa a tassazione, traendone la conseguenza che andava preso in esame l’avviso nella sua interezza.

6 Con il quinto motivo deduce violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2 e art. 7, comma 4 e art. 2733 c.c., artt. 228 e 229 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto l’Agenzia aveva “confessato” l’esistenza, l’effettività e la inerenza delle transazioni commerciali limitando la pretesa fiscale solo all’Iva.

La censura non è fondata.

Dalla lettura degli atti processuali, trascritti per l’autosufficienza dalla ricorrente si evince che l’Ufficio ha solo evidenziato, che trattandosi di operazioni soggettivamente inesistenti, non era in contestazione l’effettività delle transazioni commerciali, ma in nessun atto ha ammesso l’inerenza dei costi.

7. Con il settimo motivo si deduce la violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 4 e comunque dell’art. 109, comma 4, stesso D.P.R. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 per non aver la CTR riconosciuto la deducibilità di costi che possiedono tutti i requisiti di effettività, di certezza, di inerenza richiesti dalla norma e riconosciuti dalla stessa Agenzia.

Nelle memorie la contribuente ha invocato l’applicazione del D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1.

La censura è fondata.

7.1.E’ incontestato in atti e ribadito dalla stessa Agenzia delle Entrate che oggetto del giudizio è la ripresa a tassazione su fatture emesse per operazioni soggettivamente inesistenti sicchè l’effettività dei pagamento e delle consegne non è un fatto controverso.

7.2. Il D.L. n. 16 del 2012, art. 8 sostituendo della L. n. 537 deel 1993, il comma 4 bis ha reso possibile, a determinate condizioni, la deducibilità di costi collegati a reati, con esclusione però dei costi e delle spese “direttamente utilizzati” per il compimento di attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale. In particolare, della L. n. 537 del 1993, nuovo art. 14, comma 4 bis dopo il D.L. n. 16 del 2012, prevede che “nella determinazione dei redditi di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi…. non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 424 c.p.p. ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 c.p.p. fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 157 c.p.. Qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell’art. 530 c.p.p. ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 c.p.p. fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla causa di estinzione indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell’art. 529 c.p.p., compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi”. Al D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 2 si prevede che “ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi”. Sul punto va osservato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di imposte sui redditi, e con riguardo ad operazioni oggettivamente inesistenti, grava sul contribuente l’onere di provare la fittizietà di componenti positivi che, ai sensi del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 2, convertito, con modificazioni, dalla L. 26 aprile 2012, n. 44, ove direttamente afferenti a spese o ad altri componenti negativi relativi a beni e servizi non effettivamente scambiati o prestati, non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi (Cass., 20 novembre 2013, n. 25967). Del D.L. n. 16 del 2012, art. 8, il comma 3 poi, detta la disciplina transitoria, con effetto retroattivo delle norme se più favorevoli al contribuente (” le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano, in luogo di quanto disposto dalla L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4 bis previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore degli stessi commi 1 e 2, ove più favorevoli, tenuto conto anche degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che provvedimenti emessi in base al citato comma 4 bis previgente non si siano resi definitivi”), con rilievo anche d’ufficio da parte del giudice (Cass., 661/2014; Cass., 26461/2014; Cass., 19617/2018).

Pertanto, l’indeducibilità sostanziale dei costi opera solo per i costi inerenti l’acquisto di beni e servizi direttamente utilizzati per la commissione di delitti non colposi; sicchè non è sufficiente per escludere la deducibilità dei costi che gli stessi afferiscano genericamente alla commissione del reato doloso, ma è necessario che siano stati sopportati per acquisire beni direttamente utilizzati per la commissione di reati dolosi.

7.3. Il D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, non concerne i costi relativi ad operazioni in tutto o in parte inesistenti, mentre trova applicazione per i costi relativi a fatture soggettivamente inesistenti, in quanto in tale seconda ipotesi il costo riportato in fattura è effettivo e, di regola, non è utilizzato per la commissione di alcun reato.

Pertanto, per questa Corte, a norma della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4-bis, nella formulazione introdotta dal D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, (conv. in-C. n. 44 del 2012), poichè nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente “al fine di commettere il reato”, bensì per essere commercializzati, non è sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, dell’acquirente in operazioni fatturate da un soggetto diverso dall’effettivo venditore per escludere la deducibilità, ai fini delle imposte dirette, dei costi relativi a siffatte operazioni anche ove ricorrano i presupposti di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109 (Cass., 30 ottobre 2018, n. 27566; Cass., 24426/2013; Cass. 13803/2014; Cass. 10167/2012; Cass. 12503/2013; Cass.25249/2016; Cass. 16528/2018; Cass. 32587/2019). Ne consegue, dunque, che ai soggetti coinvolti nelle frodi carosello non è più contestabile, in relazione alla novella, la deducibilità dei costi, in quanto i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente “al fine di commettere il reato”, ma, salvo prova contraria, per essere commercializzati e venduti (Cass., 27566/2018). Pertanto, nel caso in esame, poichè è pacifico che le operazioni sono state effettivamente compiute, sicchè non ricorre l’ipotesi delle operazioni oggettivamente inesistenti, risulta del tutto irrilevante, limitatamente ai fini delle imposte dirette, l’accertamento della consapevolezza o meno della frode da parte della contribuente.

7.4. Nella specie non osta all’applicazione della norma la circostanza che il ricorrente ne abbia fatto richiamo solo nella memoria e non anche nel ricorso introduttivo, notificato successivamente all’introduzione della norma stessa.

Il ricorrente ha fondato il suo motivo sulla violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 4 e comunque dello stesso D.P.R., art. 109, comma 4. Tale censura non può che essere esaminata alla luce dell’ius superveniens in quanto la Corte di cassazione deve applicare il principio iura novit curia (in linea generale, cfr. Cass. SU 27 ottobre 2016, n. 21691 la quale ha affermato che la violazione di legge non richiede necessariamente un errore imputabile al giudice, ma è un dato oggettivo che sussiste tutte le volte in cui vi è contrasto tra il provvedimento giurisdizionale e una norma di diritto applicabile ratione temporis al rapporto dedotto in giudizio).

7.5.Osserva la Corte che ciò che definisce la vicenda è il fatto che la domanda (recte il motivo di ricorso) tendeva al riconoscimento di uno specifico bene della vita – la deducibilità di costi aventi i requisiti di effettività, di certezza, di inerenza richiesti dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 4 e dall’art. 109, comma 4, stesso D.P.R. conseguente alla applicazione del regime giuridico stabilito dalle norme richiamate. Nella specie, dunque è inequivoca, nella formulazione del motivo di ricorso, la domanda del riconoscimento del presupposto per la deduzione dei costi alla stregua, ovviamente, del regime giuridico vigente complessivamente indicato.

E’ appena il caso di osservare che la mancata indicazione della norma appena introdotta non toglie la circostanza fondamentale costituita dalla domanda di corretta applicazione di un regime giuridico. Domanda, va da sè, strutturalmente diversa da quella che allega una specifica violazione di legge, la quale, invece, presuppone l’indicazione della norma violata.

7.6. Bisogna, pertanto, affermare il seguente principio di diritto: “si applica l’ius superveniens di cui il ricorrente non abbia fatto menzione nel ricorso introduttivo, sebbene notificato successivamente all’introduzione della norma, laddove il motivo di ricorso censura la corretta definizione di un regime giuridico che necessariamente presuppone l’applicazione della norma sopravvenuta”.

Nella specie il giudice di appello non poteva fare applicazione della norma, di successiva introduzione e non ha accertato che si tratti di costi in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza e determinabilità oppure di costi relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo. A tanto provvederà il giudice di rinvio. Che si atterrà al principio di diritto sopra affermato.

8. Con l’ottavo motivo la ricorrente deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e conseguente nullità della sentenza in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

9. Con il decimo motivo la ricorrente deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Con entrambi i motivi lamenta che la CTR aveva affermato erroneamente che di fronte alla legittima contestazione di fatture fittizie, spettava alla società provare il contrario e non aveva motivato adeguatamente sulla partecipazione della Rabaglio alla frode.

Le censure sono suscettibili di trattazione congiunta. Esse non sono fondate.

Rappresenta principio ormai consolidato di questa Corte quello per cui, ove vengano contestate al contribuente operazioni soggettivamente inesistenti, l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente mentre, ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, nè la regolarità della contabilità e dei pagamenti, nè la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (cfr., da ultimo, Cass. 9588/2019; Cass., Sez. 5, 20.4.2018, n. 9851, Rv. 647837-01).

Tali principi risultano essere stati correttamente applicati dalla C.T.R. la quale non ha solo affermato che, a fronte della semplice contestazione dell’indebita detrazione I.V.A. relativamente ad operazioni soggettivamente inesistenti, spettava al contribuente provare la legittimità e la correttezza della detrazione, ma ricostruendo la vicenda e motivando adeguatamente sul punto, ha accertato che la contribuente era consapevole che l’operazione si inseriva in una evasione di imposta, affermando che la ricorrente aveva acquistato le auto nuove dalla Erremme, rivendendole pochi giorni dopo come “usate”, ad un prezzo leggermente superiore nell’imponibile, oltre Iva, ai destinatari finali: “è indubitabile che tutta l’operazione dall’introduzione nel territorio nazionale, per come avvenuta, convince che si sia operato per erodere l’Iva, tramite l’impresa intermediaria, insolvente, col beneplacito delle ditte effettivamente importatrici, che non l’hanno pagata, pur portandola a credito in detrazione”.

10. Con il nono motivo la ricorrente deduce violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, dell’art. 112 c.p.c., degli artt. 24 e 111 Cost. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 per violazione della corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

11. Con l’undicesimo motivo la ricorrente deduce violazione dell’art. 2729 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e conseguente nullità della sentenza.

Con entrambi i motivi lamenta che la CTR non aveva rilevato che l’Agenzia aveva mutato la domanda laddove aveva dedotto che il M.R. era un uomo di paglia e il regista era un altro soggetto, tale B.C., indicato solo in sede di appello il cui ruolo era rimasto privo di prova.

Le censure sono suscettibili di trattazione congiunta. Esse sono inammissibili.

La pronuncia della CTR non ha alcun riguardo al ruolo svolto da B.C. nell’operazione di evasione; quest’ultimo viene solo nominativamente indicato in un passaggio della sentenza come soggetto denunziato per il reato di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 8 per come riferito dall’Agenzia nelle sue difese.

12 Con il dodicesimo motivo la ricorrente deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e conseguente nullità della sentenza.

13 Con il tredicesimo motivo la ricorrente deduce omessa motivazione della sentenza circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Con entrambi i motivi deduce che non essendo contestato che la Rabaglio s.r.l. aveva pagato l’Iva lo stesso aveva maturato il diritto alla detrazione. La Ctr non aveva motivato sul punto.

Le censure, suscettibili di trattazione congiunta, non sono fondate.

Il principio di neutralità che governa il sistema dell’iva richiede che l’imposta sia versata a chi ha eseguito operazioni imponibili, perchè la compensi con l’imposta a sua volta corrisposta per l’acquisto di beni e servizi, di guisa che l’erario acquisisce, ad ogni passaggio del ciclo produttivo- distributivo, soltanto l’eventuale differenza tra l’imposta sulle operazioni attive e quella sugli acquisti, ossia l’importo maturato a debito dal soggetto passivo obbligato, nella periodica sommatoria di Iva a credito ed a debito (fra varie, vedi, in particolare, Cass. 14 dicembre 2012, n. 23074 e Cass. 13 marzo 2013, n. 6229). Il versamento dell’iva ad un soggetto che non sia la genuina controparte, aprendo la strada ad un indebito recupero dell’imposta, mina, con effetti dirompenti, il meccanismo di compensazione tra iva a valle ed iva a monte. Sul punto, la giurisprudenza comunitaria insiste sulla necessità, ai fini della configurabilità del diritto di detrazione, di un nesso diretto tra operazioni a valle ed operazioni a monte (tra le più recenti, Corte giust. 21 febbraio 2013, C-104/12, Wolfram Becker, punto 19; Corte giust. 6 settembre 2012, C-496/11, Portugal Telecom SGPS, punto 36); ed anche la giurisprudenza di questa Corte segnala che, in caso di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, pur essendo i beni o il servizio effettivamente entrati nella disponibilità dell’impresa utilizzatrice, la falsa indicazione di uno dei soggetti del rapporto determina l’evasione del tributo relativo alla diversa operazione, effettivamente realizzata da altri soggetti.

Come evidenziato la CTR ha ritenuto la sussistenza della falsa fatturazione e che la contribuente era consapevole che l’operazione si inseriva in una evasione di imposta. Tanto basta al fine della indetraibilità dell’Iva.

Il ricorso deve essere, pertanto accolto limitatamente al settimo motivo e la sentenza cassata con rinvio alla CTR della Lombardia, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il settimo motivo di ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla CTR della Lombardia, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 28 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 ottobre 2020

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