Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22015 del 13/10/2020

Cassazione civile sez. trib., 13/10/2020, (ud. 28/01/2020, dep. 13/10/2020), n.22015

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7920-2012 proposto da:

F.A., elettivamente domiciliato in ROMA VIA F. PAULUCCI DE’

CALBOLI 9, presso lo studio dell’avvocato PIERO SANDULLI,

rappresentato e difeso dall’avvocato MASSIMO BASILAVECCHIA, giusta

procura in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 93/2011 della COMM.TRIB.REG. dell’Abruzzo,

depositata il 03/10/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

28/01/2020 dal Consigliere Dott. ROSARIA MARIA CASTORINA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ZENO IMMACOLATA che ha concluso per l’accoglimento per quanto di

ragione dal primo al quarto motivo di ricorso con l’assorbimento del

quinto e del sesto motivo;

udito per il ricorrente l’Avvocato BASILAVECCHIA che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso;

udito per il controricorrente l’Avvocato GAROFOLI che ha chiesto il

rigetto del ricorso.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

L’Agenzia delle Entrate notificava a F.A. un avviso di accertamento sulla dichiarazione dei redditi presentata per l’anno di imposta 2005 a seguito di una attività di controllo derivata dalla richiesta di rimborso del credito IVA di Euro30.000,00 avanzata dal contribuente con mod. VR.

Il controllo evidenziava alcune anomalie contabili relative a 5 fatture contenenti dati incompleti od errati.

Quatto delle fatture risultavano emesse dalla ditta Maglieria Old Sweater il cui numero di partita Iva era composto di 12 cifre anzicchè di 11. In particolare nella fattura n. (OMISSIS) risultava aggiunto ologrofamente il nominativo di ” D.N.”, intestatario di una partita Iva coincidente con quella della società formalmente emittente, ad eccezione di un numero mancante; inoltre l’importo complessivo delle fatture pari a Euro 115.932,00 non appariva conciliabile con il volume di affari di Euro 39.237.00 dichiarato dalla ditta D.N..

La quinta fattura risultava emessa dalla società Almoral s.r.l. in fallimento che aveva omesso di presentare il Mod Unico SC per il 2005.

Sul presupposto che le fatture erano state emesse per operazioni soggettivamente inesistenti l’ufficio contestava al ricorrente l’indebita deduzione di Euro 96.610,00 ai fini Irpef e Irap (importo derivante dalla somma degli imponibili delle fatture contestate), l’indebita detrazione dell’Iva pari a Euro 19.322,00 e irrogava le sanzioni.

L’avviso di accertamento veniva impugnato davanti la Commissione Provinciale di Teramo, la quale con sentenza n. 53/10 accoglieva parzialmente il ricorso, riconoscendo fondato, nell’atto di accertamento, il solo rilievo relativo alla fattura n. (OMISSIS).

Dopo la sentenza di primo grado veniva archiviato il procedimento penale a carico del contribuente.

Contro la decisione della Commissione provinciale proponeva appello principale il contribuente e appello incidentale l’Agenzia delle Entrate.

La Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo, con sentenza n. 93/2/11, accoglieva totalmente l’appello incidentale dell’Ufficio rigettando, nella sua interezza, il ricorso proposto dal contribuente sul presupposto che non vi fosse prova dell’esistenza delle operazioni contestate.

Avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale F.A. propone ricorso per cassazione affidato a sei motivi, illustrati con memoria.

Resiste l’Agenzia delle Entrate con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo il ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 violazione dell’art. 115 c.p.c. per omessa rilevazione di fatti non contestati dall’amministrazione in primo grado, ma solo in appello. In particolare lamenta che dovevano essere date per non contestate le circostanze, relative ai documenti prodotti dal contribuente, fatte oggetto, nel corso del giudizio di primo grado, solo di una contestazione generica.

La censura non è fondata.

Non è revocabile in dubbio che il principio di non contestazione, di cui all’art. 115 c.p.c., comma 1, si applichi anche nel processo tributario, ma, attesa l’indisponibilità dei diritti controversi, esso riguarda esclusivamente i profili probatori del fatto non contestato, e semprechè il giudice, in base alle risultanze ritualmente assunte nel processo, non ritenga di escluderne l’esistenza (Cass. n. 1384/2016; Cass. 2015 n. 2196; Cass. n. 13834/2014).

Nella specie, come riscontrabile dagli stessi stralci degli scritti difensivi delle parti, l’Ente impositore ha sempre negato l’esistenza delle operazioni contestate non ritenendone provati dal contribuente i presupposti.

Questa Corte (Cass. civ., 6 febbraio 2015, n. 2196) ha precisato, in primo luogo, che la non contestazione, assurta dopo la novellazione dell’art. 115 c.p.c., a principio generale del processo, e come tale suscettibile di essere applicato anche nel giudizio tributario, seppure al netto della specificità dettata dalla non disponibilità dei diritti controversi nel processo de quo, concerne esclusivamente il piano (probatorio) dell’acquisizione del fatto non contestato, ove il giudice non sia in grado di escluderne l’esistenza in base alle risultanze ritualmente assunte nel processo.

Inoltre, va considerato che il principio di non contestazione, trova qui comunque un limite strutturale insito nel fatto che l’avviso di accertamento (o di rettifica) non è l’atto introduttivo del processo quanto piuttosto l’oggetto (immediato), per lo meno nei casi in cui venga in questione la pretesa fiscale in esso riportata, sicchè la cognizione del giudice è limitata dai profili che siano stati contestati col ricorso, e anche laddove, in base al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 23 l’attenzione sia rivolta (come nella specie) alle difese dell’amministrazione pubblica resistente, e si intenda sottolineare che la parte resistente deve all’atto della costituzione in giudizio esporre “le sue difese prendendo posizione sui motivi dedotti dal ricorrente”, indicando “le prove di cui intende valersi” e proponendo “altresì le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio”, non per questo può trascurarsi che l’amministrazione fonda la pretesa su un atto preesistente al processo, nel quale i fatti costitutivi sono stati già allegati in modo ovviamente difforme da quanto dal contribuente ritenuto.

Ne consegue che l’onere di completezza della linea di difesa, che in concreto si desume dal suddetto art. 23, per quanto interpretato in coerenza col principio di non contestazione oggi desumibile dall’art. 115 c.p.c., non può essere considerato come base per affermare esistente, in capo all’amministrazione, un onere aggiuntivo di allegazione rispetto a quanto già dedotto nell’atto impositivo; sicchè, in definitiva, con riferimento alla fattispecie, è nell’atto impositivo che va ricondotta l’affermazione, da parte dell’Agenzia delle Entrate, della inesistenza delle operazioni e della contestazione della documentazione relativa alle fatture contestate.

2. Con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56 e della L. n. 212 del 2000, art. 7 nonchè dell’art. 101 c.p.c. e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57. Il ricorrente lamenta che la CTR non aveva rilevato che la motivazione dell’avviso non specificava se ricorreva una ipotesi di inesistenza soggettiva o oggettiva della fatturazione di acquisto e aveva rigettato il ricorso non sulla base delle motivazioni contenute nell’atto impugnato, ma di quelle integrative e/o modificative formulate.

La censura non è fondata.

Il motivo non si profila autosufficiente per non essere stato riportato lo stralcio dell’atto processuale da cui si desume la consistenza della censura e la sua puntuale rappresentazione.

In base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., nel giudizio tributario, qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo del vizio di motivazione nel giudizio sulla congruità della motivazione dell’avviso di accertamento, è necessario che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto avviso, che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi, al fine di consentire la verifica della censura esclusivamente mediante l’esame del ricorso (Cass. 16147/2017).

In ogni caso, secondo il costante insegnamento di questa Corte, l’avviso di accertamento, costituente l’atto con il quale l’Amministrazione esercita la propria pretesa tributaria nei confronti del contribuente, soddisfa l’obbligo di motivazione, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56 ogni qualvolta l’Amministrazione abbia posto il contribuente medesimo in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, di contestarne efficacemente l'”an” ed il “quantum debeatur” (Cass. 27800/2019), circostanza nella specie certamente avvenuta.

3. Con il terzo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione degli artt. 6, 7, 10 e 12 dello statuto del contribuente, L. n. 212 del 2000, in materia di contraddittorio amministrativo anticipato, lamentando che la CTR aveva ritenuto non obbligatorio il contraddittorio nel genere di accertamenti oggetto di causa, anche alla luce della giurisprudenza comunitaria.

La censura non è fondata anche se deve essere corretta la motivazione della sentenza della CTR.

Le Sezioni Unite di questa Corte (sentenza 9 dicembre 2015 n. 24823), hanno affermato per i controlli c.d. a tavolino che “In tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, non sussiste per l’Amministrazione finanziaria alcun obbligo di contraddittorio endoprocedimentale per gli accertamenti ai fini Irpeg ed Irap, assoggettati esclusivamente alla normativa nazionale, vertendosi in ambito di indagini cd. “a tavolino””. La medesima decisione ha inoltre sancito la necessità di operare, per i tributi armonizzati, una “prova di resistenza” ai fini della valutazione del rispetto del contraddittorio endoprocedimentale, in determinati casi: “In tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto purchè il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa, esclusivamente per i tributi “armonizzati”, mentre, per quelli “non armonizzati”, non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicchè esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito”.

Nella specie, si osservi che i riscontri sulla cui base l’ufficio nega la rilevanza delle fatture di acquisto originano dall’esame di una documentazione prodotta dalla ditta ricorrente con una richiesta di rimborso.

Il ricorrente censura la mancata attivazione del contraddittorio endoprocedimentale, ma in nessuno degli atti processuali, trascritti nella parte di interesse dallo stesso contribuente, riferisce quali elementi rilevanti avrebbe potuto fornire in sede di contraddittorio. Del tutto apodittica appare l’affermazione che l’esito del giudizio sarebbe stato diverso se gli stessi dati forniti unilateralmente dal ricorrente nel processo fossero stati oggetto di verifica “collaborativa” nel corso dell’istruttoria predibattimentale. La CTR ha, peraltro, non solo affermato che le anomalie formali deponevano univocamente per una “non reale esistenza delle operazioni di acquisto”, ma ha anche esaminato la documentazione integrativa prodotta dal contribuente affermando che “la documentazione integrativa dimostrerebbe unicamente che il contribuente potrebbe aver intrattenuto rapporti commerciali con l’estero, giammai che la merce di cui alle dette fatture abbia costituito l’oggetto della effettiva commercializzazione che si ricava dalla fatturazione”.

4. Con il quarto motivo, a sua volta articolato i due motivi, il ricorrente deduce, in via subordinata rispetto al terzo, violazione dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 per erronea applicazione dell’onere della prova, nonchè omessa motivazione su circostanza decisive e controverse, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Lamenta che la CTR non aveva ritenuto l’impossibilità di fornire la prova negativa della non inesistenza dell’operazione e della estraneità del contribuente e lamenta la mancata valutazione della documentazione in entrata della merce, il trasporto della stessa, il pagamento dell’acquisto e della rivendita e della prestazione di servizi fruita.

La censura non è fondata.

Nell’avviso è stato contestato, tra l’altro, quanto a quattro delle cinque fatture oggetto di accertamento, che nelle fatture emesse dalla ditta Maglieria Old Sweater il numero di partita Iva non risultava corretto in quanto composto da 12 cifre, anzicchè da 11. Nella fattura n. (OMISSIS), inoltre risultava aggiunto a penna il nominativo di ” D.N.” che dai dati presenti in anagrafe tributaria risultava intestatario di una partita Iva n. (OMISSIS) coincidente in toto (ad eccezione di una cifra mancante) con quella della società formalmente emittente Maglieria Old Sweater. Nella quinta fattura mancava la data di emissione.

Della regolarità formale delle fatture un imprenditore minimamente attrezzato è in grado di avvedersi.

Questa Corte ha affermato che, in tema di distribuzione dell’onere della prova, nel caso in cui l’Amministrazione finanziaria contesti la deducibilità di costi indicati in fattura (in quanto, ad esempio, ritenuti relativi ad operazioni oggettivamente inesistenti), va, affermato il principio secondo il quale la fattura – di regola, salva l’ipotesi di contabilità inattendibile – è documento idoneo a rappresentare un costo dell’impresa, come si evince dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 21, purchè, però, sia redatta in conformità ai requisiti di forma e contenuto ivi prescritti (cfr. art. 226 della Direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto) (tra le altre, Cass. nn. 5748 del 2010 – secondo la quale l’omessa indicazione nelle fatture dei dati prescritti dal citato art. 21 integra quelle gravi irregolarità che, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, legittimano il ricorso all’accertamento induttivo del reddito imponibile, 9108 del 2012, 24426 del 2013).

Ne deriva che l’irregolarità della fattura, nel senso anzidetto, fa venir meno la presunzione della verità di quanto in essa rappresentato e la rende inidonea a costituire titolo per il contribuente ai fini del diritto alla deduzione del costo relativo: ben può, in definitiva, l’Amministrazione limitarsi a contestare l’effettività di operazioni indicate in fatture irregolari e ritenere, pertanto, indeducibili i costi nelle stesse indicati (Cass. 21446/2014).

La CTR ha fatto corretta applicazione di tale principio, affermando che le anomalie formali deponevano univocamente per una “non reale esistenza delle operazioni di acquisto”. Quanto alla documentazione integrativa prodotta dal ricorrente la CTR ha affermato che “gli ulteriori allegati del F. non contribuiscono in alcun modo a colmare quelle lacune probatorie e o anomalie iniziali: tutto volendo ammettere la documentazione integrativa dimostrerebbe unicamente che il contribuente potrebbe aver intrattenuto rapporti commerciali con l’estero, giammai che la merce di cui alle dette fatture abbia costituito l’oggetto della effettiva commercializzazione che si ricava dalla fatturazione di cui sopra”.

Le censure motivazionali non conferiscono al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda, bensì la sola facoltà di controllare – sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale – le argomentazioni svolte dal giudice di merito, cui “spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge” (ex multis, Cass. n. 742/2015).

Di conseguenza, il preteso vizio di motivazione “può dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame dei punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione” (ex multis, Cass. n. 8718/2005). Inoltre, l’omissione o insufficienza della motivazione resta integrata solo a fronte di una totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero di una palese illogicità del tessuto argomentativo, ma non anche per eventuali divergenze valutative sul significato attribuito dal giudice agli elementi delibati, non essendo il giudizio per cassazione un terzo grado di merito (Cass. S.U. n. 24148/2013; Cass. n. 12779/2015 e n. 12799/2014).

Del resto, esercitandosi l’ufficio motivazionale su un percorso argomentativo che presuppone, in ragione della natura presuntiva dell’accertamento, la selezione del materiale indiziario e quindi la valutazione degli elementi provvisti della necessaria concludenza probatoria, il riesame di essi che si richiede laddove non siano evidenziabili vizi logici, costituisce accertamento di merito che esula notoriamente dai limiti del controllo di logicità della motivazione affidato a questa Corte.

La CTR ha dato conto di avere esaminato gli elementi forniti ed ha effettuato una adeguata disamina della realtà fattuale, rendendo, così, possibile il controllo sulla logicità del ragionamento sviluppato per giungere alla rassegnata decisione.

5. Con il quinto motivo il ricorrente deduce, in via subordinata, la violazione del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, commi da 1 a 3 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 chiedendo l’applicazione del ius superveniens.

Il rilievo è fondato.

Il D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 2, come convertito nella L. 26 aprile 2012, n. 44, costituente ius superveniens applicabile alla controversia in forza del successivo comma 3 – a tenore del quale “le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano, in luogo di quanto disposto dalla L. 24 dicembre 1997, n. 537, art. 15, comma 4 bis, previgente (“Nella determinazione dei redditi di cui all’art. 6, tuir, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti”), anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore degli stessi commi 1 e 2, ove più favorevoli…” -, ha infatti stabilito che, “ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi”, ed ha previsto “in tal caso” l’applicazione di una sanzione amministrativa. In ipotesi siffatte grava pertanto sul contribuente l’onere di provare che i componenti positivi, che si duole abbiano nell’accertamento concorso alla formazione del reddito, siano anch’essi fittizi perchè ricavi “correlati”, vale a dire “direttamente afferenti” a spese o ad altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati”. (Cass. 21189/2014; 27821/2013; 25967/2013).

All’accertamento conseguente provvederà il giudice di rinvio.

6.Con il sesto motivo il ricorrente deduce in via ulteriormente subordinata, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 l’omessa pronuncia sui motivi sollevati in primo grado e in appello su profili sanzionatori. Lamenta che la CTR non aveva pronunciato sulla domanda subordinata di annullamento della parte sanzionatoria dell’atto.

La censura è inammissibile.

La CTR ha accolto “per intero il gravame incidentale dell’Agenzia delle Entrate, con reiezione conseguente di tutte le ragioni dell’impugnazione principale”. Non vi è stata, dunque, alcuna omessa pronuncia, avendo la CTR rigettato nella sua interezza il ricorso proposto dal contribuente.

Deve essere conseguentemente accolto il quinto motivo di ricorso, nei termini di cui in motivazione e la sentenza cassata con rinvio alla CTR dell’Abruzzo in diversa composizione anche per le spese del presente giudizio di legittimità.

PQM

Accoglie il quinto motivo di ricorso nei sensi di cui in motivazione, rigettati gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla CTR dell’Abruzzo in diversa composizione anche per le spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 28 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 ottobre 2020

 

 

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