Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22009 del 31/10/2016


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Cassazione civile sez. II, 31/10/2016, (ud. 24/06/2016, dep. 31/10/2016), n.22009

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Presidente –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16490/2012 proposto da:

P.L.C., P.O., elettivamente domiciliati in ROMA,

PIAZZA VESCOVIO 21, presso lo studio dell’avvocato TOMMASO

MANFEROCE, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato

MARIAROSA BALLADORE;

– ricorrenti –

contro

PE.MA.PA., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L.

MANCINELLI 65, presso lo studio dell’avvocato ENRICO MOSCATI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato GABRIELE CIPOLLONE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1153/2011 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 12/05/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

24/06/2016 dal Consigliere Dott. MASSIMO FALABELLA;

udito l’Avvocato MOSCATI Enrico, difensore del resistente che ha

chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SALVATO Luigi, che ha concluso per il rigetto 1 motivo accoglimento

3 motivo, assorbiti restanti motivi del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 24 settembre 1998 P.L.C. e O., premettendo di essere nipoti, e quindi eredi, in rappresentazione del padre F. ed assieme alla zia P.B., del defunto P.C., esponevano che quest’ultimo aveva alienato alla nipote Pe.Ma.Pa. un fabbricato destinato a civile abitazione in data (OMISSIS) con l’impegno, da parte di essa Pe., di mantenerlo fornendogli vitto, alloggio, vestiario, medicinali e assistenza personale; nel contratto concluso si era attribuito al bene immobile un valore di Lire 73.500.000 mentre le prestazioni da fornirsi erano state stimate in Lire 12.240.000 annue. Convenivano così in giudizio Pe.Ma.Pa. e P.B. rilevando che il de cuius aveva raggiunto ormai l’età di settantanove anni e risultava affetto da una emiparesi sinistra con fibrillazione atriale e conseguente lesione ischemica; assumevano altresì che in epoca successiva alla cessione il vitaliziato aveva continuato a comportarsi come se il bene fosse di sua proprietà e che all’epoca della stipula il valore del bene ceduto oscillava tra Lire 100.000.000 e Lire 140.000.000; deducevano che il contratto doveva ritenersi nullo a norma degli artt. 1872 e 1418 c.c., per difetto di causa, apparendo evidente che al momento della stipula del negozio il predetto P.C. sarebbe sopravvissuto ancora per pochi anni; chiedevano altresì l’annullamento del contratto a norma dell’art. 428 c.c., rilevando che lo stesso era stato concluso dal vitaliziato in una transitoria situazione di incapacità di intendere e di volere: ciò di cui Pe.Ma.Pa. era evidentemente al corrente, in considerazione dello stretto rapporto di parentela col predetto.

Si costituivano in giudizio entrambe le convenute; Pe.Ma.Pa. assumendo la piena validità del contratto concluso e P.B. asserendo di essere totalmente estranea alla controversia. Quest’ultima in corso di causa rinunciava all’eredità e il giudice di prime cure, dando atto della rinuncia agli atti degli istanti e dell’accettazione dell’interessata, dichiarava estinto il giudizio con riguardo alle domande svolte nei confronti di quest’ultima.

Il Tribunale di Rovigo accoglieva la domanda di declaratoria della nullità del contratto e, accertato che gli attori, quali coeredi di P.C., erano comproprietari dell’immobile oggetto del contratto stesso, condannava Pe.Ma.Pa. al rilascio del bene.

Interposto gravame, la Corte di appello di Venezia, con sentenza pubblicata il 12 maggio 2011, riformava la pronuncia del Tribunale, rigettando sia la domanda di accertamento della nullità, sia quella di condanna al rilascio dell’immobile; rigettava altresì l’appello incidentale diretto all’annullamento del contratto di vitalizio alimentare.

Contro quest’ultima decisione ricorrono per cassazione i P., che hanno proposto un’impugnazione articolata in sette motivi. Resiste con controricorso Pe., che ha depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo si denuncia la nullità della sentenza impugnata del giudizio di appello per nullità o inesistenza dell’atto di citazione introduttivo della fase di gravame, siccome carente della sottoscrizione delle copie notificate. Rilevano i ricorrenti che le copie dell’atto di citazione di appello loro notificato non recavano la firma in originale del difensore ma solo la mera riproduzione fotostatica di una sottoscrizione.

Il motivo è infondato.

La mancanza di sottoscrizione del difensore abilitato a rappresentare la parte in giudizio nella copia notificata della citazione non incide sulla validità di questa se è sottoscritto l’originale e la copia notificata fornisca alla controparte sufficienti elementi per acquisire la certezza della sua rituale provenienza da quel difensore (per tutte: Cass. 13 aprile 1999, n. 3620; Cass. 7 dicembre 1994, n. 10491; il principio pacifico e si trova naturalmente espresso anche in sentenze della Corte non massimate: cfr. ad es. Cass. 5 agosto 2013, n. 18649). Nel caso in esame, l’originale della citazione in appello conteneva la sottoscrizione del difensore (riprodotta nella copia fotostatica consegnata ai notificandi, come precisato in ricorso, a pag. 16) e, avendo riguardo al tenore complessivo dell’atto, non poteva sorgere alcun dubbio quanto alla provenienza di esso dai professionisti poi costituitisi in giudizio.

Il secondo motivo lamenta la nullità della sentenza impugnata, oltre che del giudizio di secondo grado, per il difetto di integrazione del contraddittorio nei confronti della litisconsorte processuale P.B.. Rilevano in sintesi i ricorrenti che il provvedimento con cui il Tribunale aveva dichiarato l’estinzione del giudizio nei confronti della predetta convenuta era affetto da nullità, sia in quanto il difensore di questa non aveva il potere di accettare la rinuncia, sia in quanto la pronuncia di estinzione del giudizio avrebbe dovuto essere resa con sentenza.

L’error in procedendo dedotto non concerne il difetto di integrità del contraddittorio, giacchè la questione sottoposta all’esame della S.C. attiene ai vizi da cui sarebbe affetto il provvedimento con cui il Tribunale dichiarò l’estinzione (parziale) del procedimento. Solo attraverso l’esame di detta questione potrebbe affermarsi che il giudizio si sia svolto senza una delle parti che vi avrebbero dovuto partecipare (siccome indebitamente estromessa). In sè considerato, il fatto che la convenuta fosse succeduta al nonno, non assume invece alcun rilievo ai fini che qui interessano: avendo P.B. rinunciato all’eredità, è escluso – come è evidente – che la stessa possa considerarsi litisconsorte necessario nel presente giudizio.

Ciò precisato, l’ordinanza di rinuncia agli atti emessa dal Tribunale non è sindacabile nella presente sede, in quanto avrebbe dovuto essere oggetto di autonoma impugnazione avanti al giudice del merito. Infatti, la pronuncia di estinzione del giudizio ex art. 306 c.p.c., ha natura sostanziale di sentenza e, come tale, è appellabile anche se emessa in forma di ordinanza, quando l’organo investito dalla decisione della causa abbia, per l’oggetto del giudizio, struttura monocratica; diversamente, conserva la sua natura di ordinanza reclamabile ai sensi dell’art. 308 c.p.c., comma 1, se emanata dal giudice istruttore nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione collegiale: onde non può essere altrimenti impugnata se non con quel rimedio espressamente previsto (Cass. 10 ottobre 2006, n. 21707).

Il motivo va quindi disatteso.

La terza censura investe, ancora, la sentenza impugnata per una nullità del giudizio di secondo grado e della pronuncia stessa. E’ denunciato il difetto di integrazione del contraddittorio nei confronti del litisconsorte necessario Pe.Gi.. Si assume che, a seguito dell’intervenuta rinuncia all’eredità da parte di P.B., il contraddittorio avrebbe dovuto essere esteso ai figli di essa che succedevano per rappresentazione: pertanto il suddetto Pe.Gi., figlio della convenuta, avrebbe dovuto partecipare al giudizio in veste di parte necessaria.

Nemmeno sul punto la sentenza deve essere cassata.

La qualità di chiamato all’eredità, per rappresentazione, di Pe.Gi. non sufficiente per affermare che il contraddittorio dovesse essere integrato nei confronti del medesimo, in mancanza di una evidenza della sua accettazione dell’eredità. Questa S.C. è venuta affermando, da tempo, che chi assuma la non integrità del contraddittorio deve darne la prova, indicando le persone che dovrebbero essere citate quali litisconsorti necessari e dimostrando i presupposti di fatto che giustificano l’integrazione, come l’esistenza di altri successibili e l’accettazione dell’eredità da parte loro (cfr. le risalenti Cass. 11 febbraio 1978, n. 619 e Cass. 14 dicembre 1994, n. 10682): ove, poi, l’eccezione di difetto di contraddittorio venga denunciata in sede di legittimità, la Corte di cassazione deve limitare la propria indagine all’esame degli atti acquisiti al giudizio di merito (Cass. 11 febbraio 1978, n. 619 cit.). Nella specie, il ricorso per cassazione non indica quanto sia stato dedotto e dimostrato, nei precedenti gradi di merito, in ordine alla nominata accettazione.

Col quarto motivo è denunciata insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio: la sussistenza dell’alea contrattuale relativamente al contratto di vitalizio sotto il profilo della probabile durata della vita del vitaliziato, in relazione all’età e alle condizioni di salute di questo. Osservano i ricorrenti che la pronuncia impugnata si baserebbe su una apodittica condivisione delle conclusioni del consulente tecnico, senza l’enunciazione di alcuna argomentazione atta a sorreggere la censura del ragionamento logico giuridico seguito dal giudice di prima istanza, il quale si era discostato dalla consulenza medico-legale, facendo proprie le opposte conclusioni del consulente tecnico di parte.

Il motivo va disatteso, in quanto mira a una inammissibile revisione dell’accertamento di fatto compiuto dalla Corte di merito.

Questa ha recepito le indicazioni offerte dalla consulenza tecnica d’ufficio secondo cui, con riferimento alle condizioni di salute di P.C., non vi erano “indicazioni tali da permettere di pensare ad una sua sopravvivenza ben limitata nel tempo” e ha aggiunto che le risultanze della detta consulenza apparivano sorrette da adeguata motivazione e da argomentazioni logicamente corrette e quindi condivisibili, anche perchè confermate dalla relazione suppletiva che aveva preso in esame le osservazioni critiche del consulente di parte.

Nè appare concludente il richiamo delle diverse deduzioni svolte dall’esperto nominato dagli odierni ricorrenti. Infatti, avendo particolarmente riguardo al vizio motivazionale, la contestazione dell’esattezza delle conclusioni dell’espleta consulenza mediante la pura e semplice contrapposizione ad esse delle diverse valutazioni espresse dal consulente tecnico di parte non serve, di per sè, ad evidenziare alcun errore delle prime – con conseguente insufficienze della motivazione della sentenza che ad esse si sia limitata a riferirsi ma solo la diversità dei giudizi formulati dagli esperti (Cass. 28 marzo 2006, n. 7078; Cass. 12 agosto 1994, n. 7392).

Per quel che concerne, infine, l’asserita condivisione, da parte del c.t.u., delle conclusioni del consulente di parte, essa si basa su un breve stralcio della relazione suppletiva del consulente, che, avulsa dal contesto cui inerisce, potrebbe non assumere rilievo decisivo ai fini che qui interessano, visto che ciò che assume importanza, nella presente sede, è l’adesione, da parte del giudice del merito, al giudizio finale espresso dal perito sul tema della concreta speranza di vita del de cuius. In tal senso, il richiamo, contenuto nel ricorso, del suddetto brano dell’elaborato peritale appare carente di autosufficienza, dal momento che il ricorso per cassazione deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito: i ricorrenti, per consentire alla Corte un compiuto apprezzamento del lamentato deficit motivazionale, attraverso l’esatta ponderazione dell’affermazione che avrebbe espresso il c.t.u. con riguardo al tema che qui interessa, avrebbero dovuto riprodurre il contenuto integrale dell’elaborato peritale, ovvero riassumerne il contenuto, indicando, poi, in quale parte di quell’atto processuale il consulente si era espresso nei termini indicati.

Col quinto motivo ci si duole di un vizio di ultrapetizione. La Corte di Venezia avrebbe reso una pronuncia esorbitante dal motivo di appello fatto valere da Pe.Ma.Pa., dal momento che quest’ultima aveva censurato il ragionamento del giudice di primo grado con riguardo all’omesso accertamento del valore delle prestazioni alimentari: profilo, questo, che i ricorrenti odierni avevano dedotto costituire oggetto di un eccezione nuova, non proponibile nella fase di gravame. La stessa Corte non aveva esaminato la doglianza sollevata dall’appellante, oggi controricorrente, ma aveva indebitamente sottoposto ad esame il ragionamento logico giuridico del Tribunale con riguardo al divario esistente tra il valore delle prestazioni rispettivamente assunte dalle parti.

La censura non ha fondamento.

Il giudice dell’impugnazione ha negato che alla data della stipula del contratto potesse escludersi che questo avesse carattere aleatorio: in altri termini ha ritenuto che l’alea era connaturata al negozio. Del problema del valore della prestazione alimentare promessa la sentenza impugnata, invece, non si occupa. E’ evidente, tuttavia, che la censura vertente sulla contestata alea del vitalizio investisse il giudice distrettuale dell’esame della questione relativa al rapporto esistente tra le due prestazioni dedotte in contratto.

Il sesto motivo racchiude due censure, una per violazione e falsa applicazione dell’art. 1872 c.c. e l’altra per insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, e cioè la sussistenza dell’alea contrattuale in relazione al contratto concluso, sotto il profilo dell’asserito divario delle obbligazioni assunte dalle parti avendo riguardo all’età e alle condizioni di salute del vitaliziato. La Corte di appello aveva impropriamente attribuito rilievo alle condizioni delle parti, non esperte del mercato immobiliare e al mancato ricorso a una stima dell’immobile nel periodo antecedente la conclusione del contratto per verificare l’esistenza, al momento del perfezionamento del negozio, dell’alea: laddove l’art. 1872 c.c., imponeva di verificare l’incertezza oggettiva iniziale tra il valore complessivo delle prestazioni dovute dalla vitaliziante e quello del cespite immobiliare, che ne costituiva corrispettivo. In conseguenza, l’indagine non poteva prescindere dal dato oggettivo dell’effettivo valore del bene ceduto, risultando non decisive le ragioni che avevano portato le parti a indicarne uno diverso e inferiore. In realtà, l’indagine andava condotta operando una valutazione prognostica che tenesse conto, da un lato, dell’effettivo valore del bene ceduto e, dall’altro, dell’entità della prestazione assunta dalla controricorrente in relazione alla probabile durata della vita del beneficiato.

Il motivo merita accoglimento.

Il contratto atipico di cosiddetto “vitalizio alimentare”, autonomo e distinto da quello, nominato, di rendita vitalizia di cui all’art. 1872 c.c., senz’altro configurabile in base al principio dell’autonomia contrattuale di cui all’art. 1322 c.c.: i due negozi, omogenei quanto al profilo della aleatorietà, si differenziano perchè, mentre nella rendita alimentare le obbligazioni dedotte nel rapporto hanno ad oggetto prestazioni assistenziali di dare prevalentemente fungibili, nel vitalizio alimentare le obbligazioni contrattuali hanno come contenuto prestazioni (di fare e dare) di carattere accentuatamente spirituale e, in ragione di ciò, eseguibili unicamente da un vitalizzante specificatamente individuato alla luce delle qualità personali proprie di questo (cfr. ad es.: Cass. 5 maggio 2010, n. 10859; Cass. 29 maggio 2000, n. 7033; Cass. 8 settembre 1998, n. 8854).

In termini generali, un contratto è aleatorio quando una parte assume il rischio di un evento futuro e incerto che incide sul contenuto del suo diritto o della sua prestazione.

Il vitalizio alimentare ha certamente natura aleatoria, al pari del contratto tipico di rendita vitalizia: l’alea è precisamente correlata a un duplice fattore di incertezza, costituito dalla durata della vita del vitalizio e dalla variabilità’ e discontinuità delle prestazioni in rapporto al suo stato di bisogno e di salute (Cass. 12 febbraio 1998, n. 1502); ciò ha portato questa Corte ad affermare che nel vitalizio alimentare l’alea è più marcata rispetto al contratto di rendita vitalizia configurato dall’art. 1872 c.c., in quanto le prestazioni non sono predeterminate nel loro ammontare, ma variano, giorno per giorno, secondo i bisogni, anche in ragione dell’età e della salute del beneficiario (Cass. 9 ottobre 1996, n. 8825, richiamata in motivazione da Cass. 19 luglio 2011, n. 15848).

Nel vitalizio alimentare, o contratto atipico di mantenimento, l’individuazione dell’aleatorietà postula la comparazione delle prestazioni sulla base di dati omogenei – quali la capitalizzazione della rendita reale del bene-capitale trasferito e la capitalizzazione delle rendite e delle utilità periodiche dovute nel complesso dal vitaliziante – secondo un giudizio di presumibile equivalenza o di palese sproporzione da impostarsi con riferimento al momento di conclusione del contratto ed al grado ed ai limiti di obiettiva incertezza, sussistenti a detta epoca, in ordine alla durata della vita ed alle esigenze assistenziali del vitaliziato (Cass. 19 luglio 2011, n. 15848; Cass. 24 giugno 2009, n. 14796).

Tutto ciò implica che il giudice del merito abbia il compito di apprezzare il rapporto di proporzione tra il valore della prestazione assistenziale e il valore del cespite trasferito al vitaliziante.

La Corte di appello ha mancato di effettuare detto accertamento sulla base del dato oggettivo costituito dal valore del bene risultante dalla disposta consulenza tecnica; si è soffermata, invece, sull’elemento, non significativo, della non elevata differenza tra il detto valore e quello riportato nel contratto e sulla circostanza, pure non rilevante, per cui la stima ivi indicata fosse il frutto di un errore inconsapevole da parte della vitaliziante cessionaria.

All’opposto, essa avrebbe dovuto verificare se il rapporto tra il valore calcolato dal c.t.u. e quello delle prestazioni promesse al vitaliziato si risolvesse in termini di tendenziale equivalenza o di evidente sproporzione.

Il settimo motivo concerne la violazione e falsa applicazione dell’art. 428 c.c., nonchè l’insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, dato dall’asserita incapacità di intendere di volere di P.C. al momento da sottoscrizione del contratto di vitalizio. Sottolineano i ricorrenti che, una volta accertata la totale incapacità di un soggetto in due determinati periodi, prossimi nel tempo, per il periodo intermedio la sussistenza dell’incapacità è assistita da una presunzione relativa, sicchè si determina un’inversione dell’onere della prova, nel senso che ciò che deve essere dimostrato, da chi vi abbia interesse, è che il soggetto abbia agito in una fase di lucido intervallo. Nella circostanza, doveva essere considerato che il vitaliziato aveva affermato in un’occasione che intendeva predisporre la dichiarazione dei redditi relativamente all’immobile di sua proprietà e, in un altro, che intendeva cedere il terreno al nipote: siffatti momenti di assenza di lucidità, dovevano quindi orientare la Corte di merito nel senso di escludere la capacità naturale del soggetto al momento del perfezionamento del negozio. Erroneamente, poi, il giudice del gravame aveva giudicato tali condotte come semplici dimenticanze. Inoltre, la consulenza tecnica di parte aveva bene evidenziato, secondo i ricorrenti, come, in base agli accertamenti medici, all’epoca della conclusione del contratto le condizioni di P.C. non si erano stabilizzate e che quindi il (OMISSIS) egli era incapace di intendere di volere, posto che i segni dell’ictus che aveva colpito lo stesso dovevano ritenersi allora presenti e che un esame specialistico aveva mostrato nel periodo anche segni di atrofia cerebrale.

La censura non è fondata.

L’insussistenza dell’incapacità naturale è stata motivata in modo congruo ed esauriente dalla Corte veneta, la quale ha fatto proprie le risultanze della consulenza tecnica medica: questa – sulla scorta della documentazione clinica redatta dal medico curante – aveva evidenziato, che nei ripetuti controlli settimanali successivi all’episodio di ischemia e alla dimissione dall’ospedale, le condizioni psichiche di P.C. erano perfettamente normali, apparendo lo stesso “sempre lucido, attento, deambulante, capace di esprimere idee e apprezzamenti”. Tali rilievi sono stati ritenuti assorbenti: e così non poteva non essere, in quanto i medesimi danno puntuale ragione del generale stato di salute del de cuius e portano ad escludere che al tempo del perfezionamento del contratto egli fosse menomato nelle facoltà cognitive e volitive.

Non compete ovviamente alla Corte procedere a un nuovo apprezzamento delle risultanze di causa: infatti, il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. 4 novembre 2013 n. 24679; Cass. 16 novembre 2011, n. 27197; Cass. 6 aprile 2011, n. 7921; Cass. 21 settembre 2006, n. 20455; Cass. 4 aprile 2006, n. 7846; Cass. 9 settembre 2004, n. 18134; Cass. 7 febbraio 2004, n. 2357).

In conclusione, va accolto il sesto motivo, mentre gli altri devono essere respinti. La sentenza cassata, con conseguente rinvio della causa ad altra sezione della Corte di appello di Venezia anche per le spese.

P.Q.M.

La Corte:

accoglie il sesto motivo, rigetta gli altri; cassa con riferimento al motivo accolto e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Venezia anche per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 24 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2016

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