Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22005 del 11/09/2018

Cassazione civile sez. VI, 11/09/2018, (ud. 15/06/2018, dep. 11/09/2018), n.22005

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17200-2017 proposto da:

S.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA IPPONIO

8, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO FERRI, rappresentato e

difeso da se medesimo;

– ricorrente –

contro

CAMERA DI COMMERCIO INDUSTRIA AGRICOLTURA E ARTIGIANATO DI FROSINONE,

in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA DI VILLA SACCHETTI 9, presso lo studio

dell’avvocato ULISSE COREA, che la rappresenta e difende unitamente

agli avvocati GINO SCACCIA, FRANCESCO SAVERIO MARINI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 13/2017 del TRIBUNALE di CASSINO, depositata

il 5/1/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 15/6/2018 dal Consigliere Dott. ALDO CARRATO.

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

Con sentenza n. 1109/2008, il Giudice di Pace di Cassino confermava l’efficacia del decreto ingiuntivo n. 14/2007ottenuto dall’avv. S.G. per il pagamento di prestazioni professionali e opposto dalla Camera di commercio, industria, agricoltura e artigianato di Frosinone.

La CCIAA di Frosinone impugnava la predetta sentenza contestando la nullità del contratto di patrocinio, a causa della mancanza del necessario requisito della forma scritta, e ritenendo inidoneo l’esclusivo conferimento della procura generale alle liti per confermare la validità di tale rapporto contrattuale. L’avv. S. contestava tali deduzioni, sottolineando che la validità del contratto era suffragata da una consolidata giurisprudenza in materia, ma il Tribunale di Cassino, con sentenza n. 767/2012, accoglieva l’appello della CCIAA Frosinone e revocava il decreto ingiuntivo.

Contro la pronuncia d’appello l’avv. S.G. proponeva ricorso per cassazione.

All’esito del giudizio di legittimità, con ordinanza n. 10667/2015, questa Corte accoglieva il ricorso principale e cassava la sentenza con rinvio al Tribunale di Cassino in diversa composizione, affermando il principio di diritto secondo cui “in tema di contratti della P.A., che devono essere stipulati ad substantiam per iscritto, il requisito della forma del contratto di patrocinio è soddisfatto con il rilascio al difensore, a mezzo di atto pubblico, di procura generale alle liti ai sensi dell’art. 83 c.p.c., qualora sia puntualmente fissato l’ambito delle controversie per le quali opera la procura stessa (nella specie: “tutte le cause attive e passive promosse e da promuoversi, innanzi a qualsiasi Autorità Giudiziaria, esclusa la Suprema Corte di Cassazione, aventi ad oggetto il solo recupero dei crediti della stessa Camera di commercio mandante”, con espressa autorizzazione, a tal fine, di intraprendere azioni esecutive, intervenire in quelle da altri inibiate e dare loro impulso)”.

Ritualmente riassunto il processo ex art. 392 c.p.c. il Tribunale di Cassino, con la sentenza n. 13/2017, affermata la validità del contratto di patrocinio intercorso tra l’avv. S.G. e la CCIAA Frosinone, confermava il decreto ingiuntivo in questione, rigettava ogni altra richiesta e compensava le spese, disattendendo così la richiesta dell’avv. S. di porle interamente a carico della parte avversa, dal momento che ricorrevano gravi ed eccezionali ragioni idonee a legittimare il giudice a compensare le spese ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, così come formulato ante riforma del 2014.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’avv. S.G. riferito ad un unico motivo, con cui ha -testualmente – dedotto la “violazione o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 91 e 92, comma 2 – come modificato dal D.Lgs. (rectius: D.L.) 12 settembre 2014, n. 132, art. 13, comma 1, conv. con modif. in L. n. 162 del 2014 – art. 118 disp. att. c.p.c., comma 2, art. 132c.p.c., comma 2 n. 4, artt. 24 e 111 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”.

Sostiene il ricorrente che il legislatore ha reso applicabile il nuovo art. 92 c.p.c., comma 2, a tutti i procedimenti introdotti dopo il trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della legge di conversione del D.L. n. 132 del 2014 e che, pertanto, la norma andrebbe logicamente applicata anche al giudizio di rinvio di cui se ne contesta l’esito. Dal momento che in questa vicenda non si ravvisano ipotesi di soccombenza reciproca, o di assoluta novità della questione, nè di mutamento giurisprudenziale sulle questioni dirimenti, il giudice del rinvio avrebbe – secondo l’avviso del ricorrente – fatto errata applicazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2; la stessa norma, peraltro, sarebbe stata falsamente applicata anche laddove fosse stata considerata nella sua vecchia formulazione, poichè nel caso di specie non sussisterebbero situazioni “gravi ed eccezionali”. Tutto ciò lederebbe, da ultimo, il diritto di difesa, costituzionalmente garantito, giacchè la compensazione delle spese non troverebbe alcun fondamento in questo caso, stante l’esito vittorioso del professionista nei vari gradi del processo.

Ha resistito con controricorso la Camera di commercio, industria, agricoltura e artigianato di Frosinone.

Su proposta del relatore, il quale riteneva che il complesso motivo prospettato con il ricorso potesse essere ritenuto manifestamente infondato, con la conseguente definibilità nelle forme dell’art. 380-bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio, in prossimità della quale è stata depositata memoria dall’avvocato ricorrente, costituito in proprio. Rileva il collegio che il ricorso deve essere respinto, in tal senso trovando conferma la proposta già formulata dal relatore ai sensi del citato art. 380-bis c.p.c..

Per quanto concerne la doglianza relativa alla violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., va anzitutto ribadito quanto asserito dallo stesso ricorrente, e cioè che la nuova formulazione dell’art. 92 c.p.c. (oltretutto recentemente incisa dalla sentenza di illegittimità costituzionale n. 77 del 2018) trova applicazione ai procedimenti introdotti dal 10 dicembre 2014, tra i quali, tuttavia, non rientra quello in esame, instaurato, al contrario, con l’opposizione a decreto ingiuntivo nel 2007 davanti al giudice di pace di Cassino.

Osserva, poi, il collegio che, all’interno dei giudizi di impugnazione, si distinguono due momenti, definiti rescindente e rescissorio; nell’ambito dell’appello tende a confondersi l’esatta scansione temporale dei due giudizi, mentre nel ricorso per cassazione è più marcato il confine tra la fase di annullamento della sentenza ritenuta viziata e quella afferente alla pronuncia che sostituisce la prima, soprattutto nel caso in cui i due giudizi non si esauriscano contemporaneamente in sede di legittimità, ma si svolgano davanti a giudici diversi: a quest’ultimo caso va ricondotto il giudizio di rinvio, che rappresenta la fase rescissoria successiva a quella rescindente, svoltasi davanti al giudice di legittimità.

Pertanto quando si parla di “autonomia del giudizio di rinvio”, lo si deve fare con esclusivo riferimento all’autonomia della fase dell’intero giudizio, ragion per cui il procedimento nell’ambito del quale si svolge il giudizio di rinvio resta unico e il suo momento iniziale, tornando al caso di specie, non può che fissarsi nel momento in cui venne notificato il decreto opposto (ai sensi dell’art. 643 c.p.c., u.c.). A conclusione di tali considerazioni sembra opportuno ricordare quanto affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 19701/2010 (orientamento univocamente confermato in seguito: cfr., da ultimo, Cass. S.U. n. 11844/2016 e Cass. n. 10213/2017, ord.) secondo cui il giudizio di rinvio conseguente a cassazione, pur dotato di autonomia, non dà vita ad un nuovo ed ulteriore procedimento, ma rappresenta una fase ulteriore di quello originario da ritenersi unico ed unitario.

In applicazione di questo percorso logico-giuridico è stato, di recente, statuito, in termini (v. Cass. n. 1301/2017), che “il procedimento che si svolge a seguito di cassazione con rinvio rappresenta una fase ulteriore di quello originario, da ritenersi unico ed unitario, sicchè, ove intenda compensare le spese processuali, il giudice “ad quem” deve applicare la disciplina vigente alla data di notificazione dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado e non di quello in riassunzione. (Nel caso di specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, in sede di rinvio, aveva provveduto alla compensazione delle spese processuali per “giusti motivi”, osservando che, poichè l’atto di citazione introduttivo del giudizio di prime cure era stato notificato il 22 maggio 1991, dovesse trovare applicazione la disciplina antecedente alla novella apportata dalla L. n. 263 del 2005 e non quella, diversa, vigente al momento della notifica dell’atto di riassunzione, intervenuta il successivo 8 luglio 2010).

Da ciò consegue che, al processo iniziato prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 132 del 2014, conv. dalla L. n. 162 del 2014, si applica il testo dell’art. 92 c.p.c. vigente ratione temporis, che – peraltro – non corrisponde, con riferimento al caso in esame, nemmeno a quello richiamato dal giudice del rinvio, ma addirittura a quello in vigore a seguito della riforma di cui al D.L. n. 35 del 2005, conv., con modif., nella L. n. 80 del 2005, applicabile ai giudizi introdotti in primo grado dopo il primo marzo 2006, che prevedeva, con una valutazione ancor più discrezionale da parte dell’autorità giudiziaria, che la decisione circa la compensazione dovesse essere (meramente) supportata da “giusti motivi esplicitamente indicati nella motivazione”.

Ne deriva che una volta esclusa la dedotta violazione di legge, avendo il giudice del rinvio fatto espressamente riferimento alle ragioni in base alle quali ha ritenuto di dover compensare le spese dell’intero giudizio, poichè trattasi di decisione che è a sua volta espressione di un potere discrezionale conferito al giudice dalla legge, la stessa deve considerarsi incensurabile in sede di legittimità, risultando sorretta da ragioni del tutto logiche e non tali, quindi, da inficiare per la loro inconsistenza lo stesso processo formativo della volontà decisionale espressa sul punto (v., ex multis, Cass. n. 16162/2004 e Cass. n. 20457/2011).

Come questa Corte ha avuto modo più volte di affermare, il sindacato della Corte di cassazione sulla regolamentazione delle spese di lite, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri motivi (Cass. n. 24502/2017). Ovviamente il giudice è tenuto ad indicare esplicitamente nella motivazione del provvedimento le ragioni che si pongono alla base di tale scelta (Cass. n. 4521/2017), ma nel caso di specie il requisito de quo risulta essere stato pacificamente soddisfatto, avendo il giudice di rinvio fatto esplicito riferimento ad una pluralità di ragioni – supportate dai connotati della gravità e dell’eccezionalità -giustificative della disposta compensazione totale delle spese.

Ciò esclude, infine, l’asserita violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), art. 118 disp. att. c.p.c. e, di conseguenza, degli artt. 24 e 111 Cost., attesa l’impossibilità di riscontrare una deficienza dell’iter argomentativo del giudice di merito tale da sfociare in un’anomalia consistente nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, essendosi esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. Cass. S.U. 8053/2014 e, da ultimo, Cass. n. 23940/2017).

Nè appare possibile proficuamente convertire il motivo proposto in una censura direttamente rivolta nei confronti dell’adeguatezza della motivazione, atteso che il ricorso risulta proposto avverso sentenza depositata in epoca successiva all’1 settembre 2012 (data, questa, rilevante anche con riguardo alle decisioni adottate a seguito di giudizio di rinvio: cfr. Cass. n. 26654/2014 e Cass. n. 10693/2016), che ha limitato la deducibilità in sede di legittimità di censure alla motivazione della sentenza gravata, essendo – ora – ammissibile la deduzione del solo omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che abbia costituito oggetto di discussione fra le parti (e ciò anche a tacere della circostanza che, pure in base alla pregressa formulazione dello stesso n. 5) dell’art. 360 c.p.c., comma 1 il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sarebbe sussistito – così da ultimo Cass. 2963/2018 – solo qualora il giudice di merito non avesse tenuto conto alcuno delle inferenze logiche che avrebbero potuto essere desunte dagli elementi dimostrativi addotti in giudizio ed indicati nel ricorso con autosufficiente ricostruzione, e si fosse limitato ad addurre l’esistenza di giusti motivi, senza compiere una analitica considerazione delle risultanze processuali, ipotesi che sicuramente non ricorre nel caso in esame).

Alla stregua delle argomentazioni complessivamente svolte il ricorso deve, quindi, essere rigettato, con conseguente condanna del soccombente ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese della presente fase di legittimità, che si liquidano nei sensi di cui in dispositivo.

Sussistono, inoltre, le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1- quater al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 – dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato parti a quello dovuto per l’impugnazione integralmente rigettata.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 650,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre al contributo forfettario nella misura del 15%, alle spese generali e agli altri accessori sulle voci come per legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1,comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Sesta civile – 2 della Corte di cassazione, il 15 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 11 settembre 2018

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