Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21996 del 30/07/2021

Cassazione civile sez. III, 30/07/2021, (ud. 20/01/2021, dep. 30/07/2021), n.21996

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberto – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 32865-2019 proposto da:

B.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VARRONE 9,

presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO VANNICELLI, rappresentato e

difeso dagli avvocati LUIGI ROBOL, CLAUDIO ROBOL per procura

speciale in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO TERRITORIALE INTERNAZIONALE DELL’INTERNO RICONOSCIMENTO

COMMISSIONE PROTEZIONE;

– intimati –

avverso la sentenza n. 988/2019 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 13/03/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

20/01/2021 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

Rilevato che:

1. B.R., cittadina ucraina di etnia russa, il 7 novembre 2019 ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza n. 988/2019 emessa dalla Corte d’appello di Venezia e pubblicata in data 13 marzo 2019.

2. Il Ministero dell’interno ha depositato tardivamente una comunicazione con la quale si è dichiarato disponibile alla partecipazione alla discussione orale.

3. Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale non partecipata.

4. La ricorrente, secondo la sua ricostruzione dei fatti, ha fatto ingresso in Italia nel 2015, entrando in Italia con il figlio di pochi anni con permesso Schenghen in quanto proveniente dalla Polonia, ricongiungendosi alla madre e ai fratelli già trasferitisi in Italia, formalizzando una domanda di protezione internazionale per la situazione di violenza che interessa il suo paese d’origine e per il timore di persecuzioni poste in essere in Ucraina nei confronti delle persone di etnia russia, nonché dell’avversione degli ucraini per i militari russi, quali il marito della signora (la cui famiglia è originaria di Arkangelsk, mentre lei è nata e cresciuta a Frankivsk).

5. La domanda veniva respinta. Il diniego della Commissione veniva impugnato, lamentando che non fosse stata considerata né la appartenenza della signora al gruppo etnico russo discriminato e perseguitato, né l’appartenenza di suo marito alle forze armate. Veniva inoltre messa in luce l’esistenza di gravi ragioni umanitarie stante la situazione di conflitto dell’Ucraina.

6. Il Tribunale respingeva le censure.

7. L’atto d’appello insisteva sulla ostilità nei confronti della minoranza etnica russa (rilevante per lo status di rifugiato o, in subordine, della concessione della protezione sussidiaria o dell’umanitaria, stante anche la presenza di figli minori).

8. La Corte d’appello confermava il diniego della protezione internazionale, rilevando che l’appellante non avesse allegato valide ragioni a fondamento del riconoscimento della protezione sussidiaria o dello status di rifugiato), che non sussistesse pericolo per il rimpatrio, che le fonti sulla situazione ucraina non rivelassero discriminazioni verso la minoranza russa, che il ricorso fosse manifestamente infondato e che quindi dovesse essere revocato il beneficio del gratuito patrocinio.

9. La ricorrente propone tre motivi di ricorso, tutti volti a contestare la legittimità della sentenza laddove le ha negato il riconoscimento del diritto quanto meno alla protezione umanitaria.

Con il primo motivo di ricorso, è dedotta la violazione ex art. 360 comma 1, n. 3, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32 comma 3, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1, lett. h bis. Si contesta che non sia stata tenuta in conto l’interpretazione per cui fra i motivi umanitari rientri l’essere madre sola, sul territorio, di minori (e’ citata la sent. n. 15466/2014, pag. 7 del ricorso), né la littera legis dell’art. 2 cit., che definisce espressamente i genitori singoli con figli minori quali persone vulnerabili, nonostante la genitorialità di un minore fosse stata più volte rimarcata. Viene sottolineato anche come il minore in questione sia cresciuto in Italia, ove la madre si è peraltro ben inserita anche lavorativamente. Si fa riferimento al diritto al mantenimento della situazione stabile che si è venuta a costituire, anche a tutela del bambino.

Con il secondo motivo di riscorso, si lamenta la violazione ex art. 360 comma 1, n. 5, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14. Il motivo, nella sua breve illustrazione, denuncia la sussistenza della omessa considerazione di un fatto decisivo – ove il fatto sia stato effettivamente non considerato – consistente nell’essere la ricorrente particolarmente vulnerabile in quanto madre sola di un minore, ove non si ritenesse, in accoglimento del primo motivo, che la corte d’appello sia incorsa in violazione di legge sul punto, avendo ritenuto che esso non rilevasse al fine di fondare il riconoscimento della protezione umanitaria.

Con il terzo motivo di ricorso, si lamenta la violazione ex art. 360 comma 1, n. 3, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 comma 6. La sentenza d’appello dovrebbe essere riformata in quanto non ha valutato la situazione di integrazione della ricorrente, lavoratrice professionista, affermando che ai fini della protezione umanitaria sia necessaria la “dimostrazione di una effettiva e irreversibile integrazione nel tessuto sociale e culturale del paese ospitante”. Questa pretesa sarebbe, secondo la ricorrente, eccessiva anche logicamente, e priva di fondamento normativo.

Il primo motivo è fondato, ed anche il terzo.

La protezione umanitaria è una categoria aperta, volta a tutelare una serie allargata di situazioni che ricadono all’interno dell’accertamento di una condizione di vulnerabilità in capo al richiedente, condotta secondo i parametri più volte indicati da questa Corte.

Inoltre, la legge indica anche, non ai fini di creare una elencazione tassativa di ipotesi, ma come indici di vulnerabilità dei quali non si può legittimamente non tener alcun conto, alcune situazioni particolari che vengono prevalutate come indicative, nella generalità dei casi, di una vulnerabilità personale. Tra queste, la condizione dei minori, dei minori non accompagnati, del migrante che viaggi come genitore singolo con il figlio minore, ed altre. In tutti questi casi, non sì considera a priori esaurita la valutazione di vulnerabilità, ma si impone al giudice di tenere in conto l’esistenza di un fattore che di quella vulnerabilità costituisce un indicatore non trascurabile.

Nel caso di specie, la corte d’appello, di quell’indicatore non ha tenuto alcun conto, benché esso appaia chiaramente enunciato nella prima parte della sentenza. La lettura del testo complessivo evidenzia una prima parte della sentenza, che contiene una ricostruzione che dà conto con esattezza della vicenda processuale e personale della ricorrente, ed anche della inconsistenza dei suoi denunciati timori di essere sottoposta a trattamenti inumani o degradanti, non avendo la stessa denunciato altro che l’ostilità della popolazione ucraina per l’etnia russa, e una seconda parte, del tutto generica, in cui non esiste più, nemmeno ai fini della valutazione comparativa necessaria ai fini del decidere sul diritto alla protezione umanitaria, alcun riferimento alla storia della ricorrente (tant’e’ che si parla sempre, nella seconda metà della sentenza de “il” ricorrente), né esiste una valutazione tarata sulla persona e sulle sue effettive condizioni di vulnerabilità e sul suo percorso personale di integrazione.

Questa valutazione dovrà quindi essere compiuta, in accoglimento del primo motivo.

Il secondo motivo è infondato, non sussistendo il vizio di motivazione lamentato, ma piuttosto la violazione di legge sopra indicata.

Vi è anche la necessità di aggiungere che è effettivamente errata in diritto, come rilevato dalla ricorrente con il terzo motivo, l’evocazione della necessità della dimostrazione di una effettiva ed “irreversibile” integrazione nel tessuto sociale e culturale del paese ospitante: la giurisprudenza della corte si è assestata al momento su un giudizio di comparazione tra un percorso di integrazione che deve attestare un inserimento nel tessuto sociale, senza la definitività della irreversibilità, e la situazione nella quale andrebbe a reinserirsi il richiedente nel paese di origine, sotto il profilo della tutela dei diritti fondamentali.

Il primo e il terzo motivo devono essere accolti, rigettato il secondo. La sentenza è cassata e la causa rinviata alla Corte d’Appello di Venezia in diversa composizione, che deciderà anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Accoglie il primo e il terzo motivo, rigetta il secondo, cassa e rinvia anche per le spese alla Corte d’Appello di Venezia in diversa composizione.

Così deciso nella camera di consiglio della Corte di cassazione il 20 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 30 luglio 2021

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