Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21996 del 03/09/2019

Cassazione civile sez. III, 03/09/2019, (ud. 25/06/2019, dep. 03/09/2019), n.21996

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11937-2017 proposto da:

DEUTSCHE BAHN AG, in persona di ULRICH WEBER nella qualità di Membro

del Consiglio Direttivo, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

VENTIQUATTRO MAGGIO 43, presso lo studio dell’avvocato ANDREA

GIARDINA, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati

MONICA CURCURUTO, ANDREA BERNAVA;

– ricorrente –

contro

REGIONE STEREA’ ELLADA, in persona del legale rappresentante p.t.

K.B. persona giuridica la quale ha sostituito la Prefettura

AUTOGESTIONE REGIONALE DI VOIOTIA, elettivamente domiciliata in

ROMA, CIRCONVALLAZIONE TRIONFALE 1/A, presso lo studio dell’avvocato

CLAUDIO GIANGIACOMO, rappresentata e difesa dall’avvocato JOACHIM

LAU;

– controricorrente –

e contro

RETE FERROVIARIA ITALIANA SPA (OMISSIS), TRENITALIA SPA (OMISSIS);

– intimati –

avverso la sentenza n. 5228/2017 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il

15/03/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/06/2019 dal Consigliere Dott. FRANCO DE STEFANO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SOLDI Anna Maria che ha concluso per il rigetto;

udito l’Avvocato MONICA CURCURUTO e ANDREA BERNAVA;

udito l’Avvocato LAU JOACHIM;

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Deutsche Bahn Aktiengesellschaft (d’ora in avanti anche solo DB AG) ricorre, affidandosi ad un articolato motivo e con atto notificato il 15-16/05/2017, per la cassazione della sentenza del 15/03/2017 del Tribunale di Roma, addotta come notificata a mezzo p.e.c. il 28/03/2017, con cui è stata accolta l’opposizione ai sensi dell’art. 617 c.p.c. – iscritta al n. 79588/12 r.g.a.c.c. proposta dalla Autogestione Regionale di Voiotia (Beozia, Repubblica ellenica) contro il provvedimento del 30/11/2012 con cui il g.e. aveva dichiarato improcedibile il pignoramento presso terzi – iscritto al n. 1371/10 r.g.e. – intentato da quest’ultima nei confronti dei debitori Deutsche Bahn e dei terzi suoi debitori Trenitalia spa e Rete Ferroviaria italiana spa.

2. Il processo esecutivo era fondato, quanto a sorte capitale e relativi accessori, sulla sentenza di condanna da parte del Tribunale di Livadia (Repubblica ellenica) del 30/10/1997 (e confermata dalla Corte suprema ellenica – Apeioc Mayoc o Areopago – con sentenza 04/05/2000, n. 11/2000) nei confronti dello Stato tedesco per il risarcimento dei danni derivati dall’eccidio di Distomo, perpetrato dalla Wehrmacht ai danni di oltre 300 (secondo il testo della sentenza azionata; in altri atti, non meno di 218) civili il 10/06/1944, nonchè sulla sentenza della Corte di cassazione ellenica per le spese di lite, per almeno Euro 49.631.369,04 oltre accessori e spese successivi, rese esecutive in Italia con provvedimenti definitivi della Corte di appello di Firenze, oggetto di ricorso per cassazione comunque respinto.

3. In particolare, l’ordinanza oggetto di opposizione aveva dichiarato l’improcedibilità del pignoramento presso terzi ricavando dall’obbligo dello Stato italiano di conformarsi alla sentenza 03/02/2012 della Corte internazionale di Giustizia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite un divieto dell’azione esecutiva per l’illegittimità del riconoscimento delle sentenze elleniche azionate, reputato in violazione dell’immunità spettante alla Germania per gli atti compiuti iure imperii, benchè implicanti gravi violazioni dei diritti dell’uomo e del diritto internazionale dei conflitti armati perpetrate dalle sue forze armate in tempo di guerra sul territorio dello Stato del foro.

4. La sopravvenuta sentenza n. 238 del 2014 della Corte costituzionale italiana aveva peraltro dichiarato l’illegittimità costituzionale, per insanabile contrasto con il controlimite interno degli artt. 2 e 24 della nostra Carta fondamentale, sia dell’intervenuta norma di recepimento di quella sentenza (l’art. 3 della L. 14 gennaio 2013, n. 5, che imponeva al giudice italiano, davanti al quale pendesse una controversia relativa alle condotte da quella contemplata, di rilevare anche di ufficio ed in ogni stato e grado il difetto di giurisdizione) che della legge di ratifica dell’adesione dell’Italia all’O.N.U. (L. 17 agosto 1957, n. 848, art. 1 (Esecuzione dello Statuto delle Nazioni Unite, firmato a San Francisco il 26 giugno 1945)), limitatamente all’esecuzione data all’art. 94 della Carta delle Nazioni Unite, esclusivamente nella parte in cui obbliga il giudice italiano ad adeguarsi alla pronuncia della Corte internazionale di giustizia (CIG) del 3 febbraio 2012, che gli impone di negare la propria giurisdizione in riferimento ad atti di uno Stato straniero che consistano in crimini di guerra e contro l’umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona.

5. E, sulla base di tale pronuncia, ampiamente riportata, ma espressamente condivisa pure una precedente sentenza dello stesso Tribunale in analogo senso (ed oggetto di separato ricorso per cassazione, iscritto al n. 18613/15 r.g.), il giudice capitolino ha ritenuto venuto meno il divieto processuale di azione esecutiva posto ad esclusivo fondamento della dichiarata improcedibilità e si è, quindi, limitato ad annullare l’opposta ordinanza.

6. Al ricorso della DB AG resiste con controricorso la Regione Stereà Ellada (Grecia centrale), addotta la propria successione alla Autogestione regionale di Voiotia, mentre non espletano attività difensiva in questa sede le intimate Trenitalia spa e Rete Ferroviaria Italiana spa; e, per la pubblica udienza del 25/06/2019, entrambe le parti depositano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Va preliminarmente verificata la ritualità delle procure ad litem della ricorrente e della controricorrente, conferite ognuna all’estero: rispettivamente, nella Repubblica federale di Germania e nella Repubblica ellenica.

2. Al riguardo, deve dapprima notarsi che resta irrilevante che possa o meno applicarsi la L. 24 aprile 1990, n. 106 (ratifica ed esecuzione della convenzione relativa alla soppressione della legalizzazione di atti negli Stati membri delle Comunità Europee, firmata a Bruxelles il 25 maggio 1987) in difetto di ratifica da parte del numero minimo di Stati e comunque dell’applicabilità nei rapporti bilaterali ai sensi del suo art. 6 (per difetto ora di reciprocità, ora di ratifica): invero, troverebbero applicazione agli atti formati in Germania la Convenzione di Roma del 7 giugno 1969 (ratificata con L. 12 aprile 1973, n. 176) e, se non altro, a quelli formati in Grecia la Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961 (ratificata con L. 20 dicembre 1966, n. 1253).

3. Ne consegue l’applicazione della giurisprudenza di legittimità sul punto maturata, a mente della quale la procura speciale alle liti rilasciata all’estero, sia pur esente dall’onere di legalizzazione da parte dell’autorità consolare italiana, nonchè dalla cd. “apostille”, in conformità alla Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961, ovvero ad apposita convenzione bilaterale, è nulla, agli effetti della L. n. 218 del 1995, art. 12, ove non sia allegata la sua traduzione e quella relativa all’attività certificativa svolta dal notaio afferente all’attestazione che la firma è stata apposta in sua presenza da persona di cui egli abbia accertato l’identità, applicandosi agli atti prodromici al processo il principio generale della necessaria traduzione in lingua italiana a mezzo di esperto (Cass. ord. 04/04/2018, n. 8174, ove ulteriori riferimenti; Cass. 29/05/2015, n. 11165).

4. Tanto comporta che la procura speciale ad litem – per il presente giudizio di legittimità – della ricorrente DB AG è rituale, perchè accompagnata da rituale traduzione dalla lingua tedesca a quella italiana e correttamente asseverata; ma a contraria conclusione deve pervenirsi per la procura speciale ad litem della controricorrente, siccome non accompagnata da alcuna valida e completa traduzione sui decisivi passaggi sopra ricordati, rimanendo articolata su di un modulo corrispondente a quello per la “apostille”, lacunoso e incompleto di dati essenziali sull’identità dei soggetti coinvolti e sulle attività di certificazione espletate, privo di traduzione ritualmente asseverata, come del resto indirettamente confermato dalla descrizione dei documenti prodotti in allegato al ricorso contenuta in quest’ultimo e nella nota di deposito: con la conclusione che, neppure essendo sanabile (non applicandosi l’art. 182 c.p.c. al giudizio di legittimità; per tutte, oltre alle già citate: Cass. Sez. U. 13/06/2014, n. 13431) il conseguente vizio formale, l’intera attività difensiva svolta a nome della controricorrente Regione Stereà Ellada è da qualificarsi inammissibile.

5. Può così esaminarsi il ricorso della DB AG, articolato su di un unitario motivo, rubricato: “violazione di legge. Art. 112 c.p.c. “corrispondenza tra chiesto e pronunciato” art. 113 c.p.c. “pronuncia secondo diritto”. Art. 115 c.p.c. “disponibilità delle prove”. Art. 116 c.p.c. “valutazione delle prove”. Violazione degli artt. 6 e 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Violazione dell’Articolo 1 del Protocollo Aggiuntivo alla Convenzione. Artt. 91 e 92 c.p.c. “condanna alle spese””; in estrema sintesi dolendosi non essere stati neppure presi in considerazione i motivi di contestazione svolti da essa pretesa debitrice, opposta, nel corso dell’opposizione avverso la declaratoria di improcedibilità, ma pure deducendo l’ingiustizia della condanna alle spese, essendo stata definita la controversia in base ad un fatto sopravvenuto, cioè la sentenza della Corte Cost. n. 238/14.

6. Il motivo – al di là dell’eterogeneità delle norme richiamate e finanche degli oggetti delle censure formulate – involge in via principale, sostanzialmente o complessivamente considerato, sotto diversi angoli visuali l’omessa pronuncia sul merito delle contestazioni dell’odierna ricorrente all’esecuzione dichiarata improcedibile con l’ordinanza l’opposizione avverso la quale è stata definita con la qui opposta sentenza; e censura pure, sia pur senza differenziazione adeguata dell’esposizione della doglianza dal coacervo indistinto dell’unitario motivo di impugnazione, la condanna alle spese di lite.

7. La prima e complessiva doglianza è inammissibile: e non solo per le carenze dei requisiti di contenuto-forma del ricorso, dinanzi cioè alla sua estrema lacunosità sulla precisa sede processuale in cui le tesi qui lamentate come non esaminate sarebbero state sottoposte (tempestivamente, cioè entro venti giorni dalla conoscibilità dell’atto) al giudice dell’opposizione agli atti esecutivi conclusa con la qui gravata sentenza, nè per la non configurabilità di violazioni degli artt. 113,115 e 116 c.p.c. in caso di prospettata omessa pronuncia (le prime sussistendo quando sia stato deciso in applicazione di norme diverse da quelle di diritto, le seconde quando si sia deciso su prove non dedotte dalle parti o assunte di ufficio al di fuori dei limiti consentiti e le terze quando il giudice di merito disattenda il principio di libera valutazione in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime).

8. Le doglianze su cui la ricorrente lamenta una mancata pronuncia involgono infatti la dedotta carenza di qualità di debitore, soprattutto per la propria estraneità sia al titolo esecutivo azionato (pronunciato contro la Repubblica federale di Germania) che al rapporto debitorio ivi consacrato: ciò che, anche per un momento ammessa (ma lasciando impregiudicata la relativa questione) la stessa proponibilità della contestazione in seno all’opposizione agli atti esecutivi contro l’ordinanza di improcedibilità dell’esecuzione dispiegata dalla procedente ed ammesso pure – ma non concesso che tale dispiegamento sia in concreto e ritualmente avvenuto nella specie, avrebbe però integrato, con ogni evidenza, un’opposizione all’esecuzione, regolata dagli artt. 615 c.p.c. e segg., visto che involgeva lo stesso diritto del procedere di agire in via esecutiva nei confronti dell’opponente; con la conseguenza che pure la mancata pronuncia su tale domanda era soggetta al regime impugnatorio previsto per l’opposizione all’esecuzione e, pertanto, all’appello e non al ricorso per cassazione.

9. La conseguente inammissibilità del presente ricorso preclude, ovviamente, in radice la possibilità per questa Corte di valutare la stessa configurabilità di un’omissione o meno di pronuncia e, a maggior ragione, l’ammissibilità ed il merito delle doglianze dell’odierna ricorrente circa la sua legittima qualificabilità quale debitrice esecutata per un titolo formatosi nei confronti dello Stato tedesco: e nessuna violazione può allora apprezzarsi in riferimento ad alcuno dei parametri anche sovranazionali invocati, la verifica della cui operatività presuppone pur sempre la corretta formulazione del dovuto mezzo di gravame secondo le norme di rito.

10. Nè può fondatamente sostenersi che l’immanente necessità di verificare tanto l’esistenza originaria quanto la persistenza di un valido titolo esecutivo, che incombe prioritariamente al giudice dell’esecuzione ed a certe condizioni – soprattutto nel rispetto del principio della domanda e quindi con preclusione di deduzioni successive di fatti già noti – anche a quello dell’opposizione ad esecuzione, implichi la deducibilità senza limiti di ogni relativa questione in qualsiasi opposizione esecutiva correlata al processo che si vorrebbe fondato su quel titolo.

11. E’ ben vero (da ultimo, v. Cass. 11 dicembre 2018, n. 31955) che l’esistenza di un titolo esecutivo costituisce la condizione necessaria dell’esercizio dell’azione esecutiva, sicchè la sua esistenza, indipendentemente dalla posizione delle parti, dev’essere sempre verificata d’ufficio dal giudice (Cass. 07/02/2000, n. 1337) e che, mentre il giudice dell’esecuzione ha il potere e dovere di verificare, con un accertamento che esaurisce la sua efficacia nel processo esecutivo, non solo la presenza del titolo esecutivo nel momento in cui l’azione esecutiva è sperimentata, ma anche la sua permanente validità ed efficacia in tutto il corso del procedimento coattivo, in sede di opposizione all’esecuzione l’accertamento dell’idoneità del titolo a legittimare l’azione esecutiva si pone, esattamente in questa stessa logica, come preliminare (Cass. 28/07/2011, n. 16610); ed è anche vero che pure il giudice dell’opposizione è tenuto a compiere anche d’ufficio la verifica sull’esistenza del titolo esecutivo azionato, potendo rilevarne sia l’inesistenza originaria sia la sua sopravvenuta caducazione, dal momento che, entrambe, determinano l’illegittimità ab origine dell’esecuzione forzata (Cass. 19/05/2011, n. 11021; Cass. 29/11/2004, n. 22430).

12. Peraltro, non è men vero che l’ambito di tale ufficiosa verifica è limitato – per la peculiarità della causa di cognizione in cui si risolve ogni opposizione esecutiva, funzionalmente collegata al processo esecutivo – all’esistenza ed alla persistenza del titolo, non estendendosi pure all’altra questione della sua valida estensibilità all’esecutato e dovendosi questa far valere con i mezzi di reazione apprestati dall’ordinamento in favore della parte; e, d’altro lato, anche nel giudizio di opposizione esecutiva vige il principio della domanda (per tutte: Cass. 28/07/2011, n. 16541), con conseguente inammissibilità di motivi nuovi (per tutte: Cass. ord. 09/06/2014, n. 12981; Cass. 07/08/2013, n. 18761), soprattutto nell’opposizione agli atti esecutivi, dove la loro proposizione è soggetta al rigoroso termine decadenziale di venti giorni dalla conoscenza dell’atto.

13. Tanto – da un lato – esclude che, nella presente opposizione agli atti esecutivi, che ha ad oggetto esclusivamente l’ordinanza di chiusura anticipata del processo esecutivo per ritenuto divieto di azione esecutiva in base a titolo di condanna per crimini di guerra, potesse di ufficio rilevarsi una questione sulla valida estensibilità del titolo all’esecutato e – dall’altro lato – preclude la deducibilità di questa nella presente sede oltre il termine di venti giorni dalla conoscenza del provvedimento comunque impugnato (per altro e cioè per la contestazione del ritenuto divieto dell’azione esecutiva).

14. L’inammissibilità del ricorso non esime, per l’unicità della fattispecie, dal rilievo che l’opposizione agli atti esecutivi definita con la qui gravata pronuncia sarebbe stata comunque da accogliere – con conseguente finale correttezza del dispositivo di quest’ultima – per una ragione dirimente, in quanto inficiata da un serio errore di diritto.

15. La sentenza della Corte internazionale di Giustizia non vincola direttamente, siccome resa in una controversia tra soggetti di diritto internazionale quali due Stati sovrani (quali la Repubblica federale tedesca e la Repubblica italiana, con intervento volontario di un terzo, la Repubblica ellenica), nè i soggetti, nè gli organi, tra cui quelli giurisdizionali, di cittadinanza di uno di quelli, essendo gli uni e gli altri assoggettati soltanto alle norme di diritto interno o nazionale: tant’è vero che è stata necessaria una legge di recepimento, ma appunto intervenuta solo in tempo successivo all’ordinanza del giudice dell’esecuzione, la quale però, al suo art. 3 (finchè non è stato caducato dalla richiamata sentenza della Consulta), imponeva solamente il rilievo del difetto di giurisdizione (perfino ove maturate al riguardo le preclusioni) al giudice davanti al quale pendeva la controversia (introducendo poi pure una nuova fattispecie di revocazione al comma 2), cioè al solo giudice della cognizione.

16. L’esigenza, avvertita dal legislatore nazionale, di adeguarsi sic et simpliciter al dictum della Corte internazionale ha così almeno evitato di infrangere principi generali del processo esecutivo e soprattutto quelli, dirimenti nella fattispecie, della istituzionale sussistenza della giurisdizione del giudice dell’esecuzione dinanzi ad un titolo esecutivo e della necessaria insensibilità del processo esecutivo alle vicende del titolo stesso.

17. La combinazione di tali due principi comporta che nessuna procedura esecutiva può mai essere dichiarata improcedibile per un, quand’anche sopravvenuto, difetto di giurisdizione del giudice che ha pronunciato il titolo esecutivo giudiziale su cui essa si fonda, in costanza di validità di quest’ultimo: e, pertanto, neppure nel contesto del tutto particolare – se non unico – di un’esecuzione forzata in base a sentenza di condanna al risarcimento di danni da crimini di guerra, nonostante una pronuncia della Corte internazionale di Giustizia dell’O.N.U. sull’illegittimità degli atti in violazione dell’immunità dello Stato estero.

18. Ed invero non solo la sentenza della Corte internazionale di Giustizia, ma neppure la sopra menzionata norma nazionale del suo recepimento, nella sua concreta formulazione liberamente adottata dal legislatore nazionale, poteva avere efficacia diretta sul procedimento esecutivo legittimamente azionato in base al titolo altrettanto legittimamente dichiarato esecutivo in Italia in forza di provvedimento giurisdizionale non (ancora) attinto da censura od inficiato nelle sedi sue proprie; ma soprattutto il difetto di giurisdizione, sia pure sub specie di declaratoria di improcedibilità, non poteva essere dichiarato dal giudice dell’esecuzione – come del resto avrebbe successivamente riconosciuto la stessa lettera della L. n. 5 del 2013, art. 3, che imponeva la declinatoria di giurisdizione al giudice della controversia e quindi di un giudizio di cognizione, essendo notorio che il processo esecutivo non è una controversia poichè nel processo esecutivo non può mai venire in considerazione alcuna questione di giurisdizione.

19. Infatti (Cass. Sez. U. 26/10/2000, n. 1139), “a seguito della nuova formulazione dell’art. 367 c.p.c., così come introdotta dalla L. n. 353 del 1990, art. 61, il disposto dell’art. 41 c.p.c. deve essere interpretato nel senso dell’inammissibilità del regolamento di giurisdizione proposto in pendenza di un processo di esecuzione, dovendo l’ambito di applicazione del detto rimedio processuale ritenersi circoscritto entro i confini del processo di cognizione”; “pur costituendo, difatti, l’esecuzione forzata uno degli aspetti della tutela giurisdizionale dei diritti (poichè il processo esecutivo si svolge dinanzi ad un giudice dotato del potere di realizzare coattivamente il diritto della parte istante, e poichè detto giudice è tenuto pure sempre a verificare d’ufficio l’esistenza o meno della propria giurisdizione), la lettura del combinato disposto dei citati artt. 41 e 367 del codice di rito postula, oggi, il necessario abbandono dell’interpretazione estensiva della norma dettata in tema di regolamento di giurisdizione, e la collocazione del rimedio processuale de quo nell’alveo di quel solo processo (quello, appunto, di cognizione) nel quale pare legittimo il riferimento ad una decisione di merito di primo grado avente natura di sentenza, e ad organi quali il giudice istruttore ed il collegio (cui spetta, ex art. 367 nuovo testo, il potere di decidere sulla sospensione del procedimento), laddove, nel processo esecutivo, manca sia uno sviluppo per gradi, sia la pronuncia di decisioni aventi natura di sentenza, sia un organo giurisdizionale designato ex lege come giudice istruttore, parlando la legge, viceversa, di giudice dell’esecuzione” (conformi, tra molte: Cass. Sez. U. ord. 30/09/2005, n. 19172; Cass. Sez. U. ord. 08/03/2006, n. 4912; Cass. Sez. U. ord. 07/07/2009, n. 15855; Cass. Sez. U. ord. 20/09/2017, n. 21855): principio esteso anche alle opposizioni esecutive (Cass. Sez. U. ord. 13/12/2007, n. 26109; Cass. Sez. U. ord. 27/05/2008, n. 13633; Cass. Sez. U. ord. 19/05/2016, n. 10320).

20. In altri termini, tutte le questioni concernenti il problema se esista o meno un titolo esecutivo, o se questo sia stato correttamente o meno azionato contro il debitore, o se il credito sia o meno liquido ed esigibile, o se se il bene sia pignorabile o meno, o se il giudice avesse o meno la giurisdizione sulla controversia definita col titolo esecutivo possono riguardare soltanto la legittimità dell’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., ma non la giurisdizione del giudice dell’esecuzione, la quale è attribuita sempre e comunque a quest’ultimo nell’esecuzione forzata, qualunque ne sia l’origine (in tal senso v. già le remote Cass. Sez. U. 7631/93 e 12060/93, benchè riferite, in particolare, all’espropriazione per crediti pecuniari): e tanto perchè presupposto – necessario e sufficiente – del processo di esecuzione civile è l’esistenza di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile, senza che possano venire in rilievo profili cognitori (da ultimo e fra molte: Cass. Sez. U. 07/01/2016, n. 65).

21. In questo contesto, in applicazione dei generali principi per i quali del processo esecutivo idoneo ed unico fondamento è il titolo esecutivo ed ogni questione relativa al titolo di formazione giudiziale è riservata al giudice della cognizione per l’istituzionale separatezza tra giudizio di cognizione e processo esecutivo (su cui, fra tutte, v. Cass. 17/02/2011, n. 3850, ovvero anche Cass. Sez. U. 23/01/2015, n. 1238, nonchè Cass. ord. 21/09/17, n. 21954), non solo non vi è alcuna questione di giurisdizione in senso tecnico in merito al processo esecutivo in sè e per sè solo considerato, involgendo semmai le contestazioni del titolo anche giudiziale,non la giurisdizione ma la legittimità dell’azione esecutiva, tra cui ogni mutamento come quello, del tutto eccezionale, verificatosi nella specie con la nota sentenza della Corte internazionale di Giustizia e la successiva L. n. 5 del 2013 – delle condizioni di legittimità del titolo, va fatto previamente valere nelle sedi cognitive proprie a tanto deputate (come, nella specie, l’eccezionale rimedio di una revocazione ad hoc, almeno nel breve tempo in cui è stata in vigore).

22. Ne consegue che, qualunque fosse lo stato della normativa al momento della pronuncia di improcedibilità, ciò che vincolava il giudice dell’esecuzione era solamente il titolo esecutivo ritualmente reso tale in forza di provvedimenti giurisdizionali (quali quelli di delibazione della sentenza straniera) che ancora non erano stati, nè aggrediti nè tanto meno inficiati, sicchè l’improcedibilità non avrebbe potuto essere dichiarata per vicende eventuali dei titoli stessi, da attivarsi ed esaurirsi in separata sede cognitiva; e tanto in applicazione del seguente principio di diritto: “in caso di titolo esecutivo giudiziale, costituendo questo di per sè solo presupposto necessario e sufficiente del processo esecutivo, non possono in questo direttamente venire in considerazione, nè spiegare alcuna efficacia, fatti o vicende successivi relativi alla proponibilità dell’azione conclusa col titolo, quand’anche per difetto di giurisdizione in capo al giudice che ha emesso il titolo, finchè questo non sia stato riformato nelle sedi cognitive proprie ancora eventualmente esperibili”.

23. D’altra parte, l’immunità dalla giurisdizione civile degli Stati esteri per atti iure imperii costituisce una prerogativa (e non un diritto) riconosciuta da norme consuetudinarie internazionali, la cui operatività od applicabilità in Italia è comunque preclusa nel nostro ordinamento, a seguito della sentenza della Corte Cost. n. 238 del 2014, per i delicta imperii, per quei crimini, cioè, compiuti in violazione di norme internazionali di ius cogens, siccome lesivi di valori universali che trascendono gli interessi delle singole comunità statali (in tali espressi termini: Cass. Sez. U. 29/07/2016, n. 15812; Cass. Sez. U. 28/10/2015, n. 21946).

24. Ne discende che i giudici italiani, sia quelli investiti del giudizio di cognizione che quelli incaricati dell’esecuzione dei titoli giudiziali legittimamente formati in base alle regole di rito, hanno il dovere istituzionale, in ineludibile ossequio all’assetto normativo determinato dalla sentenza n. 238 del 2014 della Consulta, di negare ogni esenzione da quella giurisdizione sulla responsabilità altrove riconosciuta che fosse invocata davanti a loro, tanto nella sede propria del giudizio di cognizione o di delibazione della sentenza straniera, quanto nella sede – per quanto, come detto, scorretta od impropria, quivi non rilevando quella questione, nè riverberandosene alcun effetto – dell’esecuzione forzata fondata su questa.

25. Superfluo è precisare che ogni altra questione – a cominciare da quelle dispiegate, a quanto pare, anche in separata sede proprio dall’odierna ricorrente, ma comprese pure quelle in tema di pignorabilità dei beni (ciò che attiene evidentemente ad un momento diverso dalla giurisdizione sul merito della pretesa consacrata nel titolo) – resta impregiudicata.

26. Infine, la doglianza sulla condanna alle spese è inammissibile per manifesta infondatezza della pretesa ad una compensazione di quelle, non avendo giammai la parte un diritto per essere questa scelta rimessa alla valutazione discrezionale del giudice.

27. Il ricorso va quindi dichiarato inammissibile e, quanto alle spese del presente giudizio di legittimità, la vista inammissibilità della procura speciale ad litem della controricorrente preclude la possibilità di considerare ritualmente svolta alcuna attività difensiva in questa sede in suo nome e quindi di liquidare alcunchè a suo favore: ciò che esime dal valutare se, in ogni caso, l’unicità della vicenda – e la conseguente novità di ogni questione qui agitata – possa integrare un idoneo presupposto per un’integrale compensazione, alla stregua dell’art. 92 c.p.c. nel testo oggi applicabile.

28. Infine, va dato atto – mancando la possibilità di valutazioni discrezionali (tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra le innumerevoli altre successive: Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) della sussistenza dei presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione: norma in forza della quale il giudice dell’impugnazione è vincolato, pronunziando il provvedimento che definisce quest’ultima, a dare atto della sussistenza dei presupposti (reiezione integrale in rito o nel merito) per il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione proposta, a norma del comma 1-bis del detto art. 1

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, come modif. dalla L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso rispettivamente proposto, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 25 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 settembre 2019

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