Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21988 del 31/10/2016

Cassazione civile sez. lav., 31/10/2016, (ud. 22/06/2016, dep. 31/10/2016), n.21988

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3593-2011 proposto da:

I.N.P.D.A.P. – ISTUTITO NAZIONALE DI PREVUDENZA PER I DIFENDENTI

DELL’AMMINISTRAZIONE PUBBLICA, C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

CESARE BECCARIA 29, presso lo studio dell’avvocato PAOLA MASSAFRA,

che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

O.G.R., C.F. (OMISSIS);

– intimata –

nonchè da:

O.G.R., C.F. (OMISSIS), domiciliata in ROMA,

PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI

CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato MIRCO GIOVANNI

RIZZOGLIO, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

I.N.P.D.A.P. – ISTITUTO NAZIONALE DI PREVIDENZA PER I DIFENDENTI

DELL’AMMINISTRAZIONE PUBBLICA, C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

CESARE BECCARIA 29, presso lo studio dell’avvocato PAOLA MASSAFRA,

che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 58/2010 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 27/01/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/06/2016 dal Consigliere Dott. LUCIA TRIA;

udito l’Avvocato MASSAFRA PAOLA;

udito l’Avvocato BOTTI MARIO per delega Avvocato RIZZOGLIO MIRCO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per il rigetto di entrambi i

ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- La sentenza attualmente impugnata (depositata il 27 gennaio 2010), in parziale riforma della sentenza di primo grado, accerta l’avvenuto svolgimento, da parte di O.R.G., a decorrere dal 3 dicembre 2003, di mansioni superiori da riferire alla posizione economica C1 del CCNL 1998-2001 del Comparto Enti pubblici non economici e condanna l’INPDAP a corrispondere le relative differenze retributive “con livello di inquadramento” dalla suddetta data fino al deposito del ricorso di primo grado, oltre interessi legali.

La Corte d’appello di Milano, per quel che qui interessa, precisa che:

a) diversamente da quanto affermato dal primo giudice e, in analogia con precedenti decisioni di questa Corte d’appello, va ribadito che il dipendente assegnato – come la O. all’Ufficio pensioni e all’Ufficio trattamenti di fine rapporto dell’INPDAP compete lo svolgimento di tutte le fasi dei processi (produttivi) assegnati e non solamente di “fasi o fasce di attività” all’interno dei processi medesimi;

b) pertanto, le mansioni svolte dalla O. eccedono quelle di inquadramento dell’area B e rientrano invece nell’area C posizione C1;

c) peraltro poichè il passaggio dalla posizione B2 (iniziale) alla B3 si è verificato grazie a corsi di perfezionamento e al superamento di prove selettive, il riconoscimento dell’avvenuto illegittimo svolgimento di mansioni superiori si deve far decorrere da quando la dipendente è stata inquadrata nella posizione B3 (3 dicembre 2003) e non dall’1 febbraio 2000, come richiesto.

2.- Il ricorso dell’INPDAP domanda la cassazione della sentenza per tre motivi; resiste, con controricorso, O.R.G., che propone, a sua volta, ricorso incidentale per due motivi, cui replica l’INPDAP con controricorso.

O.R.G. deposita anche memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Profili preliminari.

1.- Quanto alle argomentazioni – preliminari rispetto all’esposizione dei motivi di ricorso – svolte dall’INPDAP in merito all’ammissibilità del proprio ricorso ai sensi dell’art. 360-bis cod. proc. civ. applicabile, nella specie, “ratione temporis”, va ricordato che questa Corte ha precisato che:

a) in applicazione dell’art. 360-bis cod. proc. civ., n. 1 il ricorso deve essere rigettato per manifesta infondatezza e non dichiarato inammissibile soltanto se la sentenza impugnata risulti conforme alla giurisprudenza di legittimità e non vengono prospettati argomenti per modificarla (Cass. SU 16 settembre 2010, n. 19051), potendo il ricorso essere dichiarato inammissibile, sulla base della suddetta disposizione esclusivamente se non solo non è conforme allo schema di cui all’art. 360 cod. proc. civ. (e, per tale ragione, è inammissibile) ma le cui (inammissibili) censure sono prospettate sul presupposto della contestazione dell’interpretazione della normativa applicabile adottata dalla sentenza impugnata – conforme alla consolidata giurisprudenza di legittimità – senza però offrire elementi validi a modificare i suddetti orientamenti (Cass. 17 settembre 2012, n. 15523; Cass. 3 dicembre 2013, n. 27064);

b) d’altra parte, la “violazione dei principi regolatori del giusto processo”, di cui all’art. 360 bis c.p.c., comma 1, n. 2, non integra un nuovo motivo di ricorso accanto a quelli previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, in quanto il legislatore ha unicamente segnato le condizioni per la sua rilevanza mediante l’introduzione di uno specifico strumento con funzione di “filtro”, sicchè sarebbe contraddittorio trarne la conseguenza di ritenere ampliato il catalogo dei vizi denunciabili (vedi, per tutte: Cass. 29 ottobre 2012, n. 18551; Cass. 8 aprile 2016, n. 6905).

Ne deriva che la suddetta disposizione è ininfluente ai fini dell’ammissibilità del presente ricorso, sotto entrambi i profili considerati.

2.- E’, inoltre, da respingere l’eccezione proposta dalla controricorrente – nella memoria depositata in prossimità dell’udienza – di parziale inammissibilità del controricorso proposto ex art. 371 c.p.c., comma 4, dal ricorrente principale, che deriverebbe dal fatto che in esso sono contenute non solo argomentazioni dirette specificamente a resistere al ricorso incidentale della parte intimata ma anche argomentazioni volte a replicare al controricorso della O..

2.1.- Deve, al riguardo, essere ricordato che, in base ad un consolidato e condiviso indirizzo di questa Corte, con il controricorso previsto dall’art. 371 c.p.c., comma 4, il ricorrente principale può, resistendo al ricorso incidentale proposto dalla parte intimata, confutarne i motivi ovvero prospettare questioni rilevabili di ufficio, senza rappresentare questioni nuove ovvero dedurre nuovi mezzi di impugnazione e, negli stessi limiti, svolgere argomentazioni difensive in contrasto con quelle contenute nel controricorso al ricorso principale, purchè non ne risulti ampliato o integrato il contenuto dei motivi di ricorso, non essendo tale possibilità preclusa neppure con riguardo alle memorie illustrative depositabili successivamente, ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ. (vedi, per tutte: Cass. 20 giugno 2011, n. 13448; Cass. 23 giugno 1998, n. 6233).

2.2.- Peraltro, nella specie, l’INPDAP non ha neppure depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ. e comunque, poichè la ratio del divieto di ampliamento o integrazione del thema decidendum – che vale sia per le memorie di cui all’art. 378 cod. proc. civ. sia per il controricorso a ricorso incidentale di cui all’art. 371 c.p.c., comma 4, – è quella di tutelare il diritto di difesa della controparte, in considerazione dell’esigenza per quest’ultima di valersi di un congruo termine per esercitare la eventuale facoltà di replica, e poichè nella specie la O. non deduce che il suddetto limite sia stato violato è del tutto evidente che, l’inserimento nel controricorso in oggetto di argomentazioni che avrebbero potuto essere svolte in memoria ha attribuito alla ricorrente incidentale un termine più lungo per la replica.

Ciò significa che la O. ha prospettato tale eccezione senza avere alcun interesse concreto da far valere al riguardo e quindi sulla base di una tesi interpretativa volta a conferire rilievo a un mero formalismo non giustificato da effettive e concrete garanzie difensive che, come tale, si pone in contrasto con l’attuazione dei principi costituzionali del giusto processo e della ragionevole durata (vedi, per tutte: Cass. SU 22 settembre 2014, n. 19884).

2 – Sintesi dei motivi del ricorso principale.

3.- Il ricorso principale è articolato in tre motivi.

3.1.- Con il primo motivo si denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 4, nullità della sentenza o del procedimento in relazione alla violazione dei principi di cui all’art. 111 Cost. (e, in particolare al comma secondo), in una lettura integrata con l’art. 6 CEDU, per il rilevato contrasto insanabile fra dispositivo (compensazione delle spese del doppio grado) e motivazione (compensazione delle spese del grado).

3.2.- Con il secondo motivo si denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, anche con riferimento a disposizioni dei contratti collettivi di lavoro e di delibere INPDAP, in relazione alla violazione dei principi di cui all’art. 111 Cost. (e, in particolare al comma settimo), in una lettura integrata con l’art. 6 CEDU.

Si deduce che, diversamente da quanto affermato dalla Corte d’appello, la O. non svolgeva mansioni rientranti nell’area C, perchè le sue competenze non riguardavano tutte le “fasi del processo” con la corrispondente autonomia ma soltanto “fasi o fasce di attività” nell’ambito del processo e, quindi, ben erano state inserite dell’area B.

Di qui la non spettanza delle differenze retributive riconosciute dalla Corte territoriale.

3.3.- Con il terzo motivo si denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 5, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione alla violazione dei principi di cui all’art. 111 Cost. (e, in particolare al comma sesto), in una lettura integrata con l’art. 6 CEDU, per la mancata ammissione della prova testimoniale richiesta, che avrebbe potuto offrire dei chiarimenti sulle mansioni svolte dalla O..

3 – Sintesi dei motivi del ricorso incidentale.

4.- Il ricorso incidentale è articolato in due motivi.

4.1.- Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, del D.P.R. n. 285 del 1988, art. 13 e degli allegati A e B del CCNL 1998-2001 del Comparto Enti pubblici economici.

4.2.- Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti.

Con entrambi i motivi si contesta la statuizione con la quale la Corte territoriale – asseritamente in modo apodittico – ha limitato il periodo di riconoscimento dello svolgimento delle mansioni superiori, senza considerare che dalle risultanze processuali emergeva che le mansioni svolte anche nel periodo 1 febbraio 2000-31 marzo 2002 erano riconducibili alla categoria C, posizione economica C1 e senza spiegare per quale ragione soltanto dal momento dell’acquisizione della posizione B3 si è attribuita alla sottoscrizione del provvedimento finale in materia pensionistica carattere meramente formale, mentre per il periodo precedente si è dato a tale sottoscrizione il valore di elemento ostativo al riconoscimento del diritto azionato, nonostante la sostanziale identità dell’attività svolta dalla dipendente.

3 – Esame del ricorso principale.

5.- L’esame dei motivi di censura porta al rigetto sia del ricorso principale sia del ricorso incidentale.

6.- Il primo motivo del ricorso principale è inammissibile.

La rilevata – minima – divergenza tra dispositivo e motivazione è, nella specie assolutamente ininfluente per il raggiungimento dello scopo – di consentire l’individuazione del contenuto del “decisum” della sentenza – e, di conseguenza, ne esclude la nullità che, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 2, che è configurabile soltanto quando l’atto risulti inidoneo, appunto, al raggiungimento del suo scopo. Evenienza che, con riguardo alla suindicata divergenza, si verifica quando la difforme motivazione della sentenza evidenzi un sopravvenuto ripensamento in capo al decidente rispetto a quel che risulta nel dispositivo.

Siffatta inidoneità non si riscontra nel caso di specie, laddove si osservi che, nella parte motiva della sentenza, la Corte territoriale ha correttamente limitato la pronuncia alla attribuzione delle differenze retributive con gli interessi e che la contingenza che, per un mero “lapsus calami”, nel dispositivo si faccia seguire l’espressione “differenze retributive” dalla espressione “con livello di inquadramento” non ha alcuna valenza, visto che tutte le argomentazioni sono svolte, con chiarezza e logicità nel senso suddetto.

Ciò è anche dimostrato dal fatto che l’INPDAP – come osserva la controricorrente, non contraddetta dall’Istituto – ha dato esecuzione alla sentenza esclusivamente per le differenze retributive.

La motivazione risulta quindi saldamente ancorata ad elementi acquisiti al processo, che inequivocabilmente la sostengono, ed evidenziano come non si sia in presenza di alcun ripensamento da parte del giudice e, quindi, di un contrasto insanabile tra dispositivo e motivazione.

Nella fattispecie in esame è invece configurabile l’ipotesi legale del mero errore materiale, con la conseguenza che, da un lato, è consentito l’esperimento del relativo procedimento di correzione (art. 287 c.p.c. e ss.) e che, d’altra parte, deve qualificarsi come inammissibile l’eventuale impugnazione diretta a far valere la nullità della sentenza asseritamente dipendente dal contrasto tra dispositivo e motivazione (vedi, per tutte: Cass. 10 maggio 2011, n. 10305; Cass. 27 agosto 2007, n. 18090; Cass. 29 novembre 2002, n. 16988; Cass. 11 novembre 2001, n. 300).

7.- Anche il secondo e il terzo motivo del ricorso principale – da trattare insieme, data la loro intima connessione – sono inammissibili.

7.1. Nonostante il formale richiamo alla violazione di norme di legge, contenuto nell’intestazione del secondo motivo, tutte le censure si risolvono nella denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata per errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti e quindi finiscono con l’esprimere un mero, quanto inammissibile, dissenso rispetto alle motivate valutazioni di merito delle risultanze probatorie di causa effettuate dalla Corte d’appello, anzichè sotto il profilo della scorrettezza giuridica e della incoerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, unici vizi denunciabili in questa sede in base all’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo applicabile nella specie, “ratione temporis”, antecedente la sostituzione ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134.

Al riguardo va ricordato che, in base alla suindicata disposizione, la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al Giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, non essendo consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicchè le censure concernenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito (vedi, tra le tante: Cass. 20 gennaio 2015, n. 855; Cass. 18 ottobre 2011, n. 21486; Cass. 20 aprile 2011, n. 9043; Cass. 13 gennaio 2011, n. 313; Cass. 3 gennaio 2011, n. 37; Cass. 3 ottobre 2007, n. 20731; Cass. 21 agosto 2006, n. 18214; Cass. 16 febbraio 2006, n. 3436; Cass. 27 aprile 2005, n. 8718).

Infatti, la prospettazione da parte del ricorrente di un coordinamento dei dati acquisiti al processo asseritamente migliore o più appagante rispetto a quello adottato nella sentenza impugnata, riguarda aspetti del giudizio interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti che è proprio del giudice del merito, in base al principio del libero convincimento del giudice, sicchè la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. – apprezzabile ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella anzidetta versione, nei limiti del vizio di motivazione come ivi configurato – deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 6 marzo 2008, n. 6064; Cass. 20 giugno 2006, n. 14267; Cass. 12 febbraio 2004, n. 2707; Cass. 13 luglio 2004, n. 12912; Cass. 20 dicembre 2007, n. 26965; Cass. 18 settembre 2009, n. 20112).

Nella specie le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal Giudice di appello sono congruamente motivate e l’iter logico-argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione, sicchè la sentenza non merita alcuna delle censure formulate dal ricorrente.

7.2. A ciò può aggiungersi che le censure stesse risultano anche prospettate senza il dovuto rispetto del principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, in base al quale il ricorrente qualora proponga delle censure attinenti all’esame o alla valutazione di documenti o atti processuali è tenuto ad assolvere il duplice onere di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, e all’art. 369 c.p.c., n. 4, (vedi, per tutte: Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726).

In particolare, è “jus receptum” che, in base al suindicato principio – che va inteso alla luce del canone generale “della strumentalità delle forme processuali” – il ricorrente che denunci il difetto o l’erroneità nella valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l’onere di indicare nel ricorso specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito (trascrivendone il contenuto essenziale), fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, potendosi così ritenere assolto il duplice onere, rispettivamente previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, (a pena di inammissibilità) e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (a pena di improcedibilità del ricorso), nel rispetto del relativo scopo, che è quello di porre il Giudice di legittimità in condizione di verificare la sussistenza del vizio denunciato senza compiere generali verifiche degli atti e soprattutto sulla base di un ricorso che sia chiaro e sintetico (vedi, per tutte: Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726; Cass. 14 settembre 2012, n. 15477; Cass. 8 aprile 2013, n. 8569).

Del resto, non va dimenticato che, una specifica parte del recente – e sopravvenuto, pertanto non direttamente utilizzabile nella specie, ma comunque significativo, secondo il canone dell’interpretazione evolutiva – Protocollo d’intesa tra la Corte di Cassazione e il Consiglio Nazionale Forense in merito alle regole redazionali dei motivi di ricorso in materia civile e tributaria del 17 dicembre 2015, è stata espressamente dedicata al rispetto del suindicato principio (detto anche di autosufficienza), stabilendosi al riguardo, fra l’altro che tale rispetto, pur non comportando “un onere di trascrizione integrale nel ricorso e nel controricorso di atti o documenti ai quali negli stessi venga fatto riferimento”, tuttavia presuppone che: “1) ciascun motivo articolato nel ricorso risponda ai criteri di specificità imposti dal codice di rito; 2) nel testo di ciascun motivo che lo richieda sia indicato l’atto, il documento, il contratto o l’accordo collettivo su cui si fonda il motivo stesso (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6)), con la specifica indicazione del luogo (punto) dell’atto, del documento, del contratto o dell’accordo collettivo al quale ci si riferisce; 3) nel testo di ciascun motivo che lo richieda siano indicati il tempo (atto di citazione o ricorso originario, costituzione in giudizio, memorie difensive, ecc.) del deposito dell’atto, del documento, del contratto o dell’accordo collettivo e la fase (primo grado, secondo grado, ecc.) in cui esso è avvenuto; 4) siano allegati al ricorso (in apposito fascicoletto, che va pertanto ad aggiungersi all’allegazione del fascicolo di parte relativo ai precedenti gradi del giudizio) ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, gli atti, i documenti, il contratto o l’accordo collettivo ai quali si sia fatto riferimento nel ricorso e nel controricorso” (vedi, sul punto: Cass. 16 febbraio 2016, n. 2937).

7.3.- Nella specie l’Istituto ricorrente:

a) nel secondo motivo, contesta la statuizione della Corte milanese secondo cui la O. svolgeva mansioni rientranti nell’area C, avendo competenze che riguardavano tutte le fasi del processo produttivo con la corrispondente autonomia, ma non offre a questa Corte alcun elemento da cui desumere la eventuale scorrettezza giuridica di tale statuizione, peraltro ben motivata;

b) nel terzo motivo denuncia la mancata ammissione della prova testimoniale richiesta, sostenendo apoditticamente che tale prova avrebbe potuto offrire dei chiarimenti sulle mansioni svolte dalla O., ma anche in questo caso le censure sono proposte senza alcun congruo riferimento nè al contenuto della suddetta prova – peraltro definita dallo stesso ricorrente come soltanto chiarificatrice e non decisiva – nè alla ritualità della relativa richiesta.

4 – Esame del ricorso incidentale.

8.- Anche i due motivi del ricorso incidentale – da trattare insieme in quanto si riferiscono alla medesima questione – sono inammissibili, perchè tutte le censure con essi proposte, nonostante il formale richiamo alla violazione di norme di legge contenuto nell’intestazione del primo motivo, finiscono con l’esprimere – oltretutto, senza il dovuto rispetto del suindicato principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione – un mero, quanto inammissibile, dissenso rispetto alle motivate valutazioni di merito delle risultanze probatorie di causa effettuate dalla Corte d’appello in ordine alla valutazione delle mansioni di fatto svolte dalla O., onde limitare la decorrenza del riconoscimento della relativa riconducibilità alla categoria C, posizione economica C1, dal momento in cui la dipendente è stata inquadrata nella posizione B3 (3 dicembre 2003) a seguito della frequenza di corsi di perfezionamento e del superamento di prove selettive, anzichè dall’1 febbraio 2000, come richiesto dalla interessata.

5 – Conclusioni.

9.- In sintesi, entrambi i ricorsi vanno respinti. La soccombenza reciproca giustifica la compensazione delle spese processuali di questo giudizio di cassazione.

PQM

La Corte rigetta sia il ricorso principale sia il ricorso incidentale. Compensa, tra le parti, le spese del presente giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione lavoro, il 22 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2016

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