Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21987 del 31/10/2016


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Cassazione civile sez. lav., 31/10/2016, (ud. 22/06/2016, dep. 31/10/2016), n.21987

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2111/2011 proposto da:

I.N.P.D.A.P. – ISTITUTO NAZIONALE DI PREVIDENZA PER I DIPENDENTI

DELL’AMMINISTRAZIONE PUBBLICA, C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

CESARE BECCARIA 29, presso lo studio dell’avvocato PAOLA MASSAFRA,

che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

B.M., (OMISSIS), R.M. (Ndr: testo

originale non comprensibile), S.A. (Ndr: testo

originale non comprensibile), D.C.M., (OMISSIS),

D.M., (OMISSIS), D.M.E., D.N.A.,

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA L. CARO 62, presso

lo studio dell’avvocato SIMONE CICCOTTI, che li rappresenta e

difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3034/2009 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 11/01/2010 r.g.n. 4339/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/06/2016 dal Consigliere Dott. LUCIA TRIA;

udito l’Avvocato MASSAFRA PAOLA;

udito l’Avvocato MATTEO LUIGI per Avvocato CICCOTTI SIMONE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per: Rimessione alle SS.UU. e

in subordine inammissibilità o rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- La sentenza attualmente impugnata, respingendo l’appello dell’INPDAP avverso la sentenza del Tribunale di Roma n. 10079/2004, ha confermato tale sentenza che in accoglimento del ricorso di B.M. e degli altri litisconsorti indicati in atti (PER LA SENTENZA: in epigrafe), con la quale, previa disapplicazione del provvedimento dell’INPDAP n. 1158 del 9 febbraio 2000 nella parte interessata, è stato accertato il diritto dei ricorrenti – tutti ex dipendenti del Ministero del Tesoro, inquadrati nel profilo professionale di “programmatori” e ivi assegnati a funzioni poi demandate all’INPDAP, nei cui ruoli sono stati poi trasferiti in attuazione del D.P.R. 20 febbraio 1998, n. 38, art. 11 – ad ottenere, nei ruoli dell’INPDAP e con decorrenza dall’i novembre 1999, il diritto all’inquadramento nella area C, posizione economica C1, nel profilo professionale di “programmatore-analista”, invece nell’attribuito inquadramento nell’area B, posizione economica B2, profilo professionale di “consollista”, di cui al CCNL Comparto Enti pubblici non economici 1998-2001 e al CCIE del Comparto Enti pubblici non economici, riconoscendo altresì sia il diritto alle corrispondenti differenze economiche, dall’anzidetta data fino al 21 dicembre 2000 sia il diritto al risarcimento del danno da perdita di chance per non avere potuto partecipare al concorso interno riservato al personale in C1 per la posizione C3, indetto con determinazione n. 53 del 2000.

La Corte d’appello di Roma, per quel che qui interessa, precisa che:

a) la questione da decidere è quella dell’esattezza, o meno, del primo inquadramento nei ruoli dell’INPDAP nel profilo professionale di “consollista” – area professionale B/B2 dl cui al CCNL Comparto Enti pubblici non economici 1998-2001 e al CCIE del Comparto Enti pubblici non economici – attribuito ai dipendenti dall’1 novembre 1999 fino al 21 dicembre 2000, quando hanno conseguito l’inquadramento di “programmatore-analista”, area professionale C/C1, a seguito di partecipazione alla procedura selettiva per il passaggio alla posizione superiore;

b) tale l’inquadramento è stato disposto con la delibera n. 1158 del 2000 del Consiglio di amministrazione dell’INPDAP, la quale, pertanto, va qualificata come atto di gestione del rapporto, cui si applica il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 5, che, pertanto, indubbiamente non incide sulla sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63;

c) il primo giudice ha disapplicato, pro parte, la suddetta delibera e l’INPDAP avanza dei dubbi sulla incidentalità della valutazione effettuata a tali fini dal primo giudice medesimo, assumendo che si sarebbe trattato di diretta valutazione di un atto amministrativo, in spregio delle regole sul riparto di giurisdizione;

d) nel merito, gli attuali dipendenti pubblici nella amministrazione di provenienza erano inquadrati nella 6 qualifica funzionale (confluita nell’area B del CCNL citato) e, ai sensi del D.P.R. 29 dicembre 1984, n. 1219 come modificato dai D.P.R. n. 44 del 1990, erano inquadrati nel profilo professionale di “programmatore”;

e) il primo giudice ha accertato che fin dall’1 novembre 1999 i dipendenti stessi hanno svolto di fatto mansioni proprie del profilo professionale di “collaboratore di informatica”, qualifica funzionale 7 (confluita dell’area C);

f) inoltre, per quanto riguarda l’inquadramento presso l’INPDAP si è convenuto di applicare il D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 33, con la garanzia dell’espletamento delle “medesime funzioni” svolte presso gli uffici di provenienza al momento del passaggio, con decorrenza dall’1 novembre 1999 e attribuzione della qualifica funzionale corrispondente alla posizione giuridica rivestita all’atto del trasferimento;

g) la delibera in oggetto anzichè collocare i dipendenti nel profilo di “consollista” previsto dal D.P.R. n. 285 del 1988, avrebbe dovuto tenere conto dell’avvenuto riconoscimento (ordine di servizio n. 12 del 6 giugno 2000) del profilo di “programmista” a seguito di partecipazione a concorso, peraltro corrispondente alle mansioni di fatto svolte, come accertato dal primo giudice e non specificamente contestato dall’INPDAP.

h) deve essere quindi confermato il diritto all’inquadramento nella area C, posizione economica C1, come stabilito dal primo giudice, con il conseguente diritto al risarcimento del danno da perdita di chance per non aver potuto partecipare al concorso interno riservato al personale in Cl per la posizione C3, indetto con determinazione n. 53 del 2000.

2.- Il ricorso dell’INPDAP domanda la cassazione della sentenza per tre motivi; resistono, con controricorso, B.M. e degli altri litisconsorti indicati in epigrafe, i quali depositano anche memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Profili preliminari.

1.- Quanto alle argomentazioni – preliminari rispetto all’esposizione dei motivi di ricorso – svolte dall’INPDAP in merito all’ammissibilità del proprio ricorso ai sensi dell’art. 360-bis cod. proc. civ. applicabile, nella specie, “ratione temporis”, va ricordato che questa Corte ha precisato che:

a) in applicazione dell’art. 360-bis cod. proc. civ., n. 1 il ricorso deve essere rigettato per manifesta infondatezza e non dichiarato inammissibile soltanto se la sentenza impugnata risulti conforme alla giurisprudenza di legittimità e non vengono prospettati argomenti per modificarla (Cass. SU 16 settembre 2010, n. 19051), potendo il ricorso essere dichiarato inammissibile, sulla base della suddetta disposizione esclusivamente se non solo non è conforme allo schema di cui all’art. 360 cod. proc. civ. (e, per tale ragione, è inammissibile) ma le cui (inammissibili) censure sono prospettate sul presupposto della contestazione dell’interpretazione della normativa applicabile adottata dalla sentenza impugnata – conforme alla consolidata giurisprudenza di legittimità – senza però offrire elementi validi a modificare i suddetti orientamenti (Cass. 17 settembre 2012, n. 15523; Cass. 3 dicembre 2013, n. 27064);

b) d’altra parte, la “violazione dei principi regolatori del giusto processo”, di cui all’art. 360-bis c.p.c., comma 1, n. 2, non integra un nuovo motivo di ricorso accanto a quelli previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, in quanto il legislatore ha unicamente segnato le condizioni per la sua rilevanza mediante l’introduzione di uno specifico strumento con funzione di “filtro”, sicchè sarebbe contraddittorio trarne la conseguenza di ritenere ampliato il catalogo dei vizi denunciabili (vedi, per tutte: Cass. 29 ottobre 2012, n. 18551; Cass. 8 aprile 2016, n. 6905).

Ne deriva che sulla pacifica ammissibilità del presente ricorso l’art. 360-bis cod. proc. civ. non spiega alcuna influenza, sotto entrambi i profili considerati, la.

2.- Sempre in via preliminare va respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso proposta dai controricorrenti, sull’assunto secondo cui nella specie sarebbe applicabile l’art. 366-bis cod. proc. civ., così come introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 6 – prevedente l’obbligo della formulazione dei quesiti di diritto a corredo dei motivi di ricorso – perchè il dispositivo della sentenza impugnata è stato pubblicato il 7 aprile 2009, quando la suddetta norma era ancora in vigore, mentre non rileverebbe, in senso contrario, l’avvenuta pubblicazione della sentenza stessa, con il deposito in Cancelleria, l’11 gennaio 2010, ancorchè si riconosca che da quest’ultima la data decorre il termine per l’impugnazione.

Va osservato sul punto che, diversamente da quel che sostengono i controricorrenti, il presente ricorso non è soggetto, “ratione temporis”, alle prescrizioni dell’art. 366-bis cod. proc. civ., in quanto quel che conta per la relativa vigenza non è certamente la data di pubblicazione del dispositivo della sentenza soggetta al rito del lavoro, ma in ogni caso la data di pubblicazione della sentenza stessa, che è anche quella da cui decorre il termine per proporre impugnazione e che, nella specie – come si afferma anche nel controricorso – è successiva al 4 luglio 2009, giorno di entrata in vigore della L. 18 giugno 2009, n. 69, il cui art. 47 ha abrogato il suddetto art. 366-bis cod. proc. civ., con le modalità stabilite dalle disposizioni transitorie di cui alla L. n. 69 del 2009, art. 58, comma 5, secondo cui: “le disposizioni di cui all’art. 47 si applicano alle controversie nelle quali il provvedimento impugnato con il ricorso per cassazione è stato pubblicato ovvero, nei casi in cui non sia prevista la pubblicazione, depositato successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge” (vedi, fra le tante: Cass. 17 ottobre 2011, n. 21431; Cass. 8 aprile 2011, n. 8059; Cass. 10 marzo 2011, n. 5752; Cass. 12 ottobre 2010, n. 21079; Cass. 27 settembre 2010, n. 20323; Cass. 24 marzo 2010, n. 7119).

2 – Sintesi dei motivi di ricorso.

3.- Il ricorso è articolato in tre motivi.

3.1.- Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 1, violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2,comma 1, e art. 63, in relazione ai principi di cui all’art. 111 Cost. (in particolare al comma 1), “in una lettura integrata con i regolamenti comunitari e, in primo luogo, con il Regolamento n. 44/2001”.

Si sostiene che la Corte d’appello, avrebbe affermato la propria giurisdizione sull’erroneo presupposto della configurazione della delibera dell’INPDAP n. 1158/2000 come “atto di gestione del rapporto di impiego”, anzichè come “atto amministrativo”, oltretutto richiamando un precedente di questa Corte non pertinente, rappresentato da Cass. SU 13 dicembre 2007, n. 26086.

Si aggiunge che la Corte territoriale, attraverso la suindicata qualificazione dell’atto, avrebbe superato la questione della impossibilità di procedere alla relativa disapplicazione come effettuato dal primo giudice – derivante dalla mancanza di una puntuale specificazione dei vizi dell’atto da parte degli interessati, nel ricorso introduttivo del giudizio.

3.2.- Con il secondo motivo si denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 33, come modificato dal D.P.R. n. 38 del 1998, art. 11, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, dell’art. 1226 cod. civ., anche con riferimento a disposizioni dei contratti collettivi di lavoro e di delibere INPDAP, in relazione alla violazione dei principi di cui all’art. 111 Cost. (e, in particolare al comma 7), in una lettura integrata con l’art. 6CEDU.

Si deduce che, diversamente da quanto affermato dalla Corte romana, non vi sarebbe stata alcuna violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 nè del verbale di intesa del 21 luglio 1998, perchè tale verbale garantiva il diritto all’espletamento delle medesime mansioni senza mutamento di funzioni e, peraltro, nel lavoro pubblico, vige il principio generale secondo cui la posizione del dipendente non si determina dalle mansioni svolte, ma soltanto dal titolo adeguato.

Si sostiene l’erroneità della presunta coincidenza, ritenuta nella sentenza impugnata, tra “posizione giuridica” e “profilo professionale” e si aggiunge che sarebbero incomprensibili le argomentazioni relative ai diversi profili.

Si rileva che, nella specie, i dipendenti pubblici erano formalmente inquadrati nella 6 qualifica funzionale corrispondente all’area B/B2 nel CCNL 1998-2001 e nel CCIE INPDAP 1999-2001 e si contesta, infine, la liquidazione equitativa del danno da perdita di chance a causa della mancata partecipazione alla procedura selettiva per il passaggio da C1 a C3.

3.3.- Con il terzo motivo si denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 5, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione alla violazione dei principi di cui all’art. 111 Cost. (e, in particolare al comma sesto), in una lettura integrata con l’art. 6CEDU.

Si ribadisce che la Corte romana, modificando l’impostazione del giudice di primo grado, ha qualificato la delibera n. 1158/2000 non come atto di organizzazione ma come atto di gestione del rapporto di impiego, senza alcuna motivazione e che, allo stesso modo, ha considerato a-tecnica l’espressione “posizione giuridica di appartenenza”, confermando la condanna al risarcimento dei danni, che era sfornita di prova.

3 – Esame delle censure.

4.- Deve essere, in primo luogo, dichiarata la evidente inammissibilità del primo motivo di ricorso in applicazione del consolidato e condiviso orientamento di questa Corte secondo cui si deve considerare inammissibile il motivo di ricorso per cassazione, inerente a questione di giurisdizione, che, richiamando genericamente l’art. 360 cod. proc. civ., n. 1, non abbia indicato le norme o i principi di diritto per i quali la giurisdizione non apparterrebbe, contrariamente a quanto affermato dalla Corte d’appello, al giudice ordinario, nè abbia evidenziato, nel rispetto del principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, la sussistenza in concreto dei presupposti del sostenuto difetto di giurisdizione (arg. ex Cass. SU 4 maggio 2006, n. 10220; Cass. SU 18 dicembre 2009, n. 26644).

4.1.- Infatti, benchè in tema di violazione di norme sulla giurisdizione la Corte di cassazione abbia – come è noto – il potere di riesame e di apprezzamento delle circostanze di fatto già acquisite nelle fasi pregresse, sicchè una volta introdotta la relativa questione, il relativo motivo di ricorso comporta comunque, al di là del suo specifico contenuto, un’indagine che abbia ad oggetto tutti gli elementi al riguardo rilevanti (vedi, per tutte: Cass. SU 10 novembre 1998, n. 11718), tuttavia per la rimessione degli atti al Primo Presidente di questa Corte, al fine l’eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite della Corte stessa ai sensi dell’art. 374 cod. proc. civ. non è sufficiente la mera prospettazione di un qualsiasi “dubbio” sulla giurisdizione che appaia “ictu oculi” pretestuoso o, comunque, erroneo, in quanto non fondato sui presupposti di fatto tipici delle vere e proprie questioni riguardanti la giurisdizione, che, in quanto tali, vanno sottoposte al sindacato delle Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 1, artt. 362 e 374 cod. proc. civ..

Come si è detto, la suindicata situazione si verifica, fra l’altro, non solo quando non siano esplicitate in modo esauriente le ragioni per le quali si assume che la giurisdizione non apparterrebbe al giudice ordinario (come invece ritenuto nella sentenza impugnata) ma anche quando la sussistenza in concreto dei presupposti del sostenuto difetto di giurisdizione non risulti evidenziata nel rispetto del principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione (arg. ex Cass. SU 4 maggio 2006, n. 10220; Cass. SU 18 dicembre 2009, n. 26644; Cass. SU 9 settembre 2010, n. 19255; Cass. 5 marzo 2012, n. 3419).

4.2.- Nella specie, benchè la denuncia di violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 1, sia incentrata sul presupposto della erroneità della qualificazione della delibera dell’INPDAP n. 1158/2000 come “atto di gestione del rapporto di impiego”, anzichè come “atto amministrativo”, non risulta che, con riferimento a tale atto, il ricorrente abbia assolto il duplice onere, a suo carico, previsto dall’art. 366 c.p.c., n. 6, e dall’art. 369 c.p.c., n. 4, onde consentire a questo Collegio di valutare la effettiva ricorrenza dei presupposti di una vera e propria questioni di giurisdizione (vedi, per tutte: Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726).

A ciò va aggiunto che portano, con evidenza, ad escludere la sussistenza, nella specie, dei presupposti di fatto tipici di una questione di giurisdizione: 1) il richiamo – peraltro privo di giustificazioni – dei regolamenti comunitari e, in primo luogo, del Regolamento n. 44/2001, che non ha alcuna attinenza con la presente fattispecie; 2) l’assenza di argomentazioni in merito alla prospettata – solo nella rubrica del motivo – violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2,comma 1, e art. 63, cui si accompagna la mancata considerazione della giurisprudenza di questa Corte secondo cui in tema di pubblico impiego contrattualizzato, la sopravvivenza della giurisdizione del giudice amministrativo, regolata dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 69, comma 7, costituisce, nelle intenzioni del legislatore, ipotesi assolutamente eccezionale (vedi Cass. SU 1 marzo 2012, n. 3183; Cass. SU 29 maggio 2012, n. 8520; Cass. SU 7 gennaio 2013, n. 142, nonchè: Cass. SU 23 novembre 2012, n. 20726; Cass. SU 19 maggio 2014, n. 10918; Cass. SU 17 novembre 2015, n. 23459; Cass. SU 15 marzo 2016, n. 5074).

4.3.- In sintesi, per tutte le suddette ragioni, mancano le premesse per la rimessione della causa alle Sezioni unite di questa Corte in quanto il prospettato dubbio sulla giurisdizione non è configurabile come una “questione di giurisdizione” ai sensi dell’art. 374 cod. proc. civ. (arg. ex Cass. 8 luglio 2004, n, 12561; Cass. 9 maggio 2000, n. 5885; Cass. 15 luglio 1977, n. 3185; Cass. 30 gennaio 2007, n. 1947; Cass. 16 febbraio 2010, n. 3548), sicchè la suddetta rimessione finirebbe per porsi in contrasto con i principi del “giusto processo”, tra i quali un ruolo primario va attribuito al canone della “ragionevole durata”, ai sensi dell’art. 111 Cost., commi 1 e 2, che sono alla base della disciplina della giurisdizione (da ultimo: Cass. SU 5 gennaio 2016, n. 29) e che, pur senza spiegarne le ragioni, lo stesso ricorrente invoca nella rubrica del primo motivo in oggetto.

5.- Il secondo e il terzo motivo di ricorso – da trattare insieme data la loro intima connessione – sono da accogliere, ma soltanto nei limiti di seguito esposti e con la premessa che le denunce – prospettate nelle rubriche dei motivi – di violazione dei principi di cui all’art. 111 Cost. (e, in particolare con riguardo al comma sesto per il secondo motivo e al comma 7 per il terzo motivo), “in una lettura integrata con l’art. 6CEDU”, sono da dichiarare inammissibili perchè prive di adeguato riscontro nelle argomentazioni delle censure.

6.- In ordine logico, devono anche essere respinti i profili di censura proposti nel terzo motivo avverso la statuizione con la quale la Corte territoriale ha qualificato la delibera n. 1158 del 2000 del Consiglio di amministrazione dell’INPDAP – con la quale è stato disposto l’inquadramento in oggetto – come atto di gestione del rapporto, cui si applica il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 5.

Tale qualificazione – sorretta da congrua e logica motivazione – risulta del tutto conforme a consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte secondo cui:

a) è stato escluso che analoghe delibere di Enti pubblici siano atti organizzatori di carattere generale, rientranti nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 1, – nei confronti del quale sono configurabili solo interessi legittimi – essendosi affermato che si tratta di ordinari atti di gestione rientranti nella fattispecie del successivo art. 5, che prevede che le misure inerenti alla gestione del rapporto di lavoro sono assunte dagli organi preposti con la capacità ed i poteri del privato datore di lavoro (vedi, per tutte: Cass. SU 5 aprile 2007, n. 8526);

b) ciò coerentemente con la disciplina dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche amministrazioni, la quale si impernia sul principio per cui gli atti che si collocano al di sotto della soglia di configurazione strutturale degli uffici pubblici e che riguardano il funzionamento degli apparati sono espressione della capacità di diritto privato e, correlativamente, i poteri di gestione del personale rispondono nel lavoro pubblico, come in quello privato, ad uno schema normativamente unificato, che non è quello del potere pubblico ma quello dei poteri privati (ex plurimis: Cass. SU 15 maggio 2003, n. 7621).

7.- Le restanti censure proposte nel terzo motivo, unitamente con quelle proposte nel secondo motivo sono da accogliere.

7.1.- In base alla costante giurisprudenza di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità:

a) ai fini dell’inquadramento nell’ambito dei rapporti con le pubbliche amministrazioni, anche dopo la loro relativa privatizzazione, rileva soltanto quanto risulta dai riconoscimenti formali al riguardo, poichè – diversamente da quanto accade nell’impiego privato – non sussiste il diritto alla promozione per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori (vedi, per tutte: Cass. SU 12 gennaio 2011, n. 503 e successiva giurisprudenza conforme);

b) in particolare, in tema di mobilità del personale, non può di per sè essere attribuita rilevanza allo svolgimento di fatto di mansioni classificate come superiori dal precedente ordinamento pubblicistico e ora appartenenti ad un’unica area, non comportando, lo svolgimento di fatto di mansioni superiori, nè il diritto alla attribuzione, in via definitiva, di quelle specifiche mansioni, nè il diritto all’inserimento in una graduatoria di mobilità che faccia riferimento ad una determinata categoria (tra le altre: Cass. 20 maggio 2011, n. 11189; Cass. 16 aprile 2014, n. 8895).

7.2.- Da tali principi si è discostata la Corte territoriale nella sentenza impugnata, in quanto nella individuazione, nel quadro della disciplina legale e contrattuale applicabile, della qualifica maggiormente corrispondente a quella di inquadramento prima della procedura di mobilità ha dato rilievo – stabilendo la decorrenza dall’i novembre 1999 dell’inquadramento in C/C1 – alle mansioni superiori, rispetto all’inquadramento nell’ente di provenienza nella ex 6 qualifica funzionale (confluita in B/B2), il cui svolgimento di fatto è stato giudizialmente accertato, ma che hanno avuto riconoscimento formale, da parte dell’Amministrazione, – come precisa la stessa Corte d’appello – soltanto con ordine di servizio n. 12 del 6 giugno 2000, cioè dopo la suddetta data di decorrenza del trasferimento del personale presso l’INPDAP (1 novembre 1999).

4 – Conclusioni.

8.- In sintesi, il primo motivo di ricorso va dichiarato inammissibile. Il secondo e il terzo motivo devono essere accolti, nei limiti di cui in motivazione, per le ragioni dianzi esposte e con assorbimento di ogni altro profilo di censura.

La sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata in relazione alle censure accolte, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, che si atterrà, nell’ulteriore esame del merito della controversia, a tutti i principi su affermati e, quindi, anche al seguente:

“ai fini dell’inquadramento nell’ambito dei rapporti con le pubbliche amministrazioni, anche dopo la loro relativa privatizzazione, rileva soltanto quanto risulta dai riconoscimenti formali al riguardo, poichè – diversamente da quanto accade nell’impiego privato – non sussiste il diritto alla promozione per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori. Pertanto, in tema di mobilità del personale, non può di per sè essere attribuita rilevanza allo svolgimento di fatto di mansioni classificate come superiori dal precedente ordinamento pubblicistico e ora appartenenti ad un’unica area, non comportando, lo svolgimento di fatto di mansioni superiori, nè il diritto alla attribuzione, in via definitiva, di quelle specifiche mansioni, nè il diritto all’inserimento in una graduatoria di mobilità che faccia riferimento ad una determinata categoria, anche nell’ipotesi in cui il suddetto svolgimento di fatto sia stato giudizialmente accertato”.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso e accoglie il secondo e il terzo motivo, nei limiti di cui in motivazione. Cassa la sentenza impugnata, in relazione alle censure accolte, e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di cassazione alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione lavoro, il 22 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2016

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