Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21969 del 12/10/2020

Cassazione civile sez. III, 12/10/2020, (ud. 23/06/2020, dep. 12/10/2020), n.21969

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 33217/2018 proposto da:

L.B.G., EDITORIALE IL FATTO SPA, P.A.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA PREVESA 11, presso lo studio

dell’avvocato ANTONIO SIGILLO’, che li rappresenta e difende

unitamente all’avvocato CATERINA MALAVENDA;

– ricorrenti –

contro

PA.PA., G.M., PA.PI., elettivamente

domiciliati in ROMA, V. ORAZIO 31, presso lo studio dell’avvocato

MARCO MATTEI, rappresentati e difesi dall’avvocato GIUSEPPE AUGELLO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1917/2018 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 14/09/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

23/06/2020 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI.

 

Fatto

RILEVATO

che:

Con atto di citazione del 10 marzo 2011, G.M., Pa.Pa. e Pa.Pi., in proprio e in qualità di eredi del rispettivo coniuge e padre Pa.An., convenivano dinanzi al Tribunale di Catania Editoriale Il Fatto S.p.A., L.B.G. e P.A., chiedendone la condanna al risarcimento del danno non patrimoniale derivato dalla diffusione di una notizia diffamatoria nei confronti del de cuius mediante un articolo del L.B. che il (OMISSIS) era stato oggetto di pubblicazione cartacea e telematica nel giornale “(OMISSIS)”, diretto dal P. ed edito dalla società convenuta. Le controparti si costituivano resistendo.

Con sentenza del 20 giugno 2013 il Tribunale rigettava la domanda attorea, compensando le spese.

G.M., Pa.Pa. e Pa.Pi. proponevano appello principale, cui le controparti resistevano, proponendo pure appello incidentale.

La Corte d’appello di Catania, con sentenza del 14 settembre 2018, in parziale accoglimento dell’appello principale condannava gli appellati a risarcire, in solido, alle controparti il danno non patrimoniale nella misura di Euro 30.000 oltre accessori, dichiarava assorbito e inammissibile l’appello incidentale e condannava solidalmente la società editrice, il giornalista e il direttore del giornale a rifondere alle controparti le spese di entrambi i gradi di giudizio.

Editoriale Il Fatto S.p.A.; L.B.G. e P.A. hanno presentato ricorso, articolato in due motivi. Si sono difesi con controricorso Pa.Pa. e Pa.Pi., in proprio e quali eredi di Pa.An. e di G.M., quest’ultima deceduta nelle more del giudizio d’appello.

La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c. e no sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero, mentre i resistenti hanno depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1.1 In primis, occorre rilevare che i controricorrenti hanno eccepito il difetto di procura speciale del ricorso.

La procura – rimarcano i controricorrenti, sottoscritta separatamente dai ricorrenti, e conferita dopo la sentenza, ovvero il 25 ottobre 2018, si trova in separato foglio allegato al ricorso datato 12 novembre 2018 e conferisce il mandato “dinanzi alla Corte Suprema di Cassazione nel procedimento generato dal ricorso proposto avverso la sentenza della Corte d’Appello di Catania, sezione seconda civile, n. 1917/2018 pronunciata in data 14 settembre 2018 e pubblicata in data 14 settembre 2018…”. L’eccezione viene quindi proposta nel senso che con tale procura “appare conferirsi non il mandato speciale di proporre il ricorso avverso la sentenza della Corte d’Appello di Catania, Sezione Seconda Civile, n. 1917/2018 bensì qualcosa di diverso ed equivoco” cioè il mandato per il “procedimento generato dal ricorso proposto avverso…”.

A parte, allora, il “superabile, uso improprio dei termini”, il mandato sarebbe attinente a “un procedimento dinanzi la Suprema Corte generato da un ricorso già proposto”. Pertanto il mandato conterrebbe “espressioni incompatibili con la proposizione dell’impugnazione” e non consentirebbe di “stabilire inequivocamente che i clienti abbiano incaricato i legali di impugnare la sentenza, mancando la espressa investitura dei difensori del potere di proporre il ricorso”.

1.2 Il ricorso per cassazione patisce inammissibilità qualora la procura speciale, apposta su un foglio separato e materialmente congiunto al ricorso ai sensi dell’art. 83 c.p.c., comma 2, contenga espressioni incompatibili con la specialità richiesta e dirette piuttosto ad attività proprie di altri giudizi e fasi processuali; in particolare, il vizio denunciato dai controricorrenti sussisterebbe qualora il contenuto della procura venga espresso con “un tenore incompatibile con l’esigenza di dimostrare la specialità della procura stessa in relazione al ricorso per cassazione” cui dovrebbe attenere, “facendosi in essa espresso riferimento ad uno specifico ricorso del tutto diverso da quello all’esame e ben individuato senza, peraltro, alcuno specifico richiamo al presente giudizio di cassazione” (così da ultimo S.U., ord. 20 settembre 2019 n. 23535, non massimata; conformi Cass. sez. L, ord. 5 novembre-2018 n. 28146, Cass. sez. 6-3, ord. 24 luglio 2017 n. 18257 e Cass. sez. 1, 21 marzo 2005 n. 6070).

Nel caso in esame, invece, non sussiste alcun riferimento a un diverso giudizio; e la definizione del ricorso come “proposto” è ictu oculi una mera incongruenza espressiva, che, come tale, considerato anche il contesto in cui si inserisce, non suscita alcuna incertezza e non ostacola quindi il raggiungimento dello scopo del rilascio del mandato, come, a ben guardare, hanno riconosciuto gli stessi eccipienti laddove hanno apertis verbis riconosciuto la superabilità dell’utilizzazione impropria dell’espressione semantica.

L’eccezione di inammissibilità del ricorso sotto il profilo esaminato risulta, quindi, del tutto priva di consistenza.

2. Passando pertanto all’esame dei motivi veicolati nel ricorso, per meglio comprenderli appare opportuno premettere una sintesi del contenuto della sentenza impugnata.

La domanda risarcitoria riguardava la presenza, in un articolo pubblicato il (OMISSIS) intitolato “(OMISSIS)” e riguardante in particolare un procedimento penale nei confronti di D.M. per la strage di Capaci conclusosi con archiviazione del gip del Tribunale di Caltanissetta il 3 maggio 2002, di un riferimento a un bloc-notes sequestrato al D., nel quale – era stato appunto scritto – “sono segnati numerosi contatti intrapresi dall’avvocato catanese Pa.Ni., indagato in passato dalla Dda di Catania per traffico d’armi. In una di queste… si legge: Avv. Pa. per candidature su Catania”. I congiunti dell’avvocato avevano addotto che tale passo, in origine, era davvero presente nel suddetto decreto di archiviazione, ma che, su istanza avanzata dal de cuius il 22 luglio 2005 – cui era allegata una certificazione che l’istante non era mai stato indagato per traffico d’armi nè era mai stato indagato dalla DDA di Catania nel procedimento penale n. 6795/93 -, il gip nisseno aveva emesso un provvedimento di correzione che ne aveva disposto la cancellazione con conseguente annotazione sull’originale e allegazione al decreto per farne parte integrante; quindi la non veridicità della notizia pubblicata in ordine al de cuius, già evidente al momento della pubblicazione sul giornale “(OMISSIS)”, avrebbe provocato grave pregiudizio all’immagine del Pa. – come avvocato e come cittadino – e a quella dei suoi congiunti.

Il primo giudice aveva disatteso la domanda, ritenendo che, dinanzi alla fonte informativa rappresentata da un provvedimento dell’autorità giudiziaria, il giornalista non era onerato di alcuna verifica, non potendosi porre il problema di una correzione del provvedimento, essendo questa una eccezione: pertanto, escluso ogni profilo colposo, non si sarebbe rinvenuta alcuna illiceità.

La corte territoriale, invece, ha addebitato al giornalista l’onere di verificare la veridicità della notizia, reputandolo gravante pure in caso dell’esimente rappresentata dall’esercizio del diritto di cronaca anche sotto il profilo putativo: in particolare ha ritenuto che era esigibile da parte del cronista – e la relativa omissione costituiva un atto colposamente illecito – aggiornarsi dopo otto anni dall’emissione del decreto di archiviazione con un particolare controllo sulla persistenza della posizione di indagato del Pa., poichè nel frattempo egli avrebbe potuto diventare imputato o condannato oppure destinatario di un decreto di archiviazione. Anche il decreto nisseno avrebbe potuto essere revocato. D’altronde non sussisteva alcuna urgenza nella pubblicazione dell’articolo e il giornalista ben poteva informarsi presso i familiari del Pa.. Quest’ultimo, “dopo molti anni”, non poteva essere semplicemente qualificato come “indagato in passato”, per cui, in sostanza, non sarebbe stato sostenibile l’affidamento del cronista alla qualità della fonte informativa e il correlato affidamento del direttore su di lui, in quanto il dovere di verificare la veridicità della notizia non sarebbe stato adempiuto nonostante fosse prevedibile “un evento – addirittura un intervento giudiziale – che privasse la notizia stessa del carattere dell’attualità e la rendesse, quindi, oggettivamente priva di fondamento (e dunque falsa)”.

3.1 Il primo motivo, allora, denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 21 Cost., artt. 595,51 e/o 59 c.p., “anche sotto il profilo dell’elemento soggettivo, essenziale per la configurabilità del reato”, per “mancata individuazione ed applicazione del corretto principio di diritto, alla luce della giurisprudenza di legittimità in tema di diritto di cronaca giudiziaria”. Si sarebbe dovuto, nel caso in esame, riconoscere al giornalista l’esimente del diritto di cronaca giudiziaria, almeno putativa, “con conseguente annullamento della sentenza impugnata, revoca delle statuizioni civili e ordine di restituzione delle somme erogate”.

Dopo aver argomentato nel senso che il motivo è ammissibile ex art. 360 bis c.p.c., non essendo la sentenza impugnata conforme a giurisprudenza consolidata di legittimità, i ricorrenti affermano necessario “prendere le mosse… dalla ricostruzione dei fatti”, compiendo in effetti, subito dopo, un ampio excursus di quelli che sarebbero stati, appunto, i fatti da cui sarebbe sorta la causa (pagine 14-18 del ricorso). Segue l’asserto che la condotta del giornalista dovrebbe valutarsi esclusivamente sotto un profilo doloso, perchè, come sarebbe illustrato nel motivo susseguente, non vi sarebbe stata alcuna doglianza in termini di diffamazione colposa ex art. 2043 c.c., E dunque le norme pertinenti sarebbero l’art. 595 c.p. – (relativo appunto alla fattispecie penale della diffamazione), art. 51 c.p. (in riferimento, evidente, all’esimente rappresentata dall’esercizio di un diritto) e/o art. 59 c.p. (“Circostanze non conosciute o erroneamente supposte”) in relazione all’art. 21 Cost., anche sotto il profilo dell’elemento soggettivo, poichè la condotta del giornalista si sarebbe posta “nell’alveo del diritto di cronaca giudiziaria, esercitata sotto il profilo putativo”.

Richiamata giurisprudenza penale di legittimità per sostenere che, per godere della scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca e di critica giudiziaria, sarebbe sufficiente che sia vera “la corrispondenza della notizia agli atti processuali a prescindere dalla verità dei fatti da questi desumibili”, si adduce che detto principio non sarebbe stato rispettato dalla corte territoriale “avvalendosi di quello, coordinato, che lo tempera, ma non per quel che riguarda la rispondenza fra il contenuto dell’atto e la sua trasposizione in un articolo”. Tale ulteriore principio contemperante sarebbe quellcs per cui, “essendo il procedimento penale, per sua natura, suscettibile di evoluzione, il giornalista deve svolgere ulteriori verifiche sugli atti che adopera, al fine di verificare se la situazione processuale alla quale si riferiscono abbia avuto ulteriori sviluppi”. Di questo il giudice d’appello avrebbe ritenuto la violazione “perchè il giornalista, sia pure colposamente, non avrebbe dato conto della correzione intervenuta, su istanza di un terzo ed a lui solo comunicata”.

Secondo i ricorrenti, la verità dei fatti emersa dal procedimento nisseno “è del tutto indifferente, ove vengano ripresi fedelmente”, per cui, “ove non fosse intervenuta la correzione e il giornalista avesse riportato quel passo, avrebbe goduto della scriminante anche se l’interessato avesse provato, nel processo a suo carico, la falsità della circostanza”. Inoltre “la correzione di un decreto di archiviazione, su richiesta di terzi, è una di quelle eventualità talmente imprevedibili da non poter generare un obbligo di verifica e, dunque, responsabilità, ove essa sia stata emessa”. La rettifica avrebbe costituito “un fatto anomalo e, come tale, non prevedibile, neppure con la più accurata prudenza e diligenza”, onde sarebbe stata pienamente legittima la condotta del giornalista. Quest’ultimo dunque “non aveva l’onere di accertare l’esito di un procedimento, citato dal Gip, siccome desunto da un’informativa, iscrizione che risaliva, peraltro, al 1993, dieci anni prima del deposito del provvedimento, il che consentiva a fortiori di escludere che esso avesse avuto o potesse avere ulteriori sviluppi”. Quindi “nessuna ragione” avrebbe avuto il giornalista “di verificare che la posizione del soggetto… non avesse avuto sviluppi – e non ne aveva avuti – e se quel provvedimento fosse stato oggetto di “correzione materiale”, evento del tutto anomalo, peraltro su istanza di soggetto diverso dagli indagati”. Perciò sarebbe stata ricorrente la scriminante, quantomeno sotto il profilo putativo, “del tutto travisato dal Giudice a quo che ha confuso la putatività con la colpa, con la violazione dei principi in tema di scriminante e di errore scusabile, in ordine all’operatività della stessa, là dove non riconosce che il giornalista ha avuto “incolpevolmente una percezione erronea o difettosa della realtà”, avendo assolto al solo onere di controllo vigente, provando di aver fatto “affidamento ad una fonte privilegiata…” “, cioè la fonte, giudiziaria che potrebbe giustificare la scriminante.

Applicando “le norme che si assumono violate”, inoltre, per accogliere la pretesa risarcitoria “sarebbe stato necessario provare tutti gli elementi costitutivi del reato”, e “in particolare la consapevolezza del giornalista di diffondere una notizia falsa e diffamatoria, dovendo operare a suo favore la mera incertezza su tale elemento”. Sarebbe stato quindi necessario valutare se il giornalista, in buona fede, avesse legittimamente ritenuto di essere in presenza di una causa di giustificazione, applicandosi l’art. 59 c.p..

A questo punto, riportando il discorso al suo avvio in punto di diritto, i ricorrenti richiamano giurisprudenza di legittimità – questa volta anche civile sul rilievo della natura delle fonti, desumendone in particolare che “il giornalista ha l’obbligo di controllare l’attendibilità della fonte informativa, a meno che non provenga dall’autorità investigativa o giudiziaria” (Cass. civ., sez. 3, 4 febbraio 2005 n. 2271), e concludendo quindi l’illustrazione del motivo affermando che, per “la natura del provvedimento, la permanenza del dato corretto nell’informativa, in esso-richiamato, la particolarità dell’intervento sul suo contenuto, la qualità del soggetto che aveva richiesto ed ottenuto la correzione dell’errore materiale, diverso dall’indagato e solo destinatario della relativa comunicazione”, la posizione assunta dal giudice d’appello sarebbe illogica, infondata e penalizzante laddove ha dichiarato la necessità di un controllo e di un aggiornamento di quella che, a suo avviso, era una fonte indiretta (archiviazione nei confronti di terzi), considerando anche che erano passati “molti anni” e che la posizione del Pa. avrebbe potuto nel frattempo mutare. La corte territoriale in tal modo avrebbe operato una “valutazione ex post, come tale inutilizzabile, intrinsecamente illogica”, che non avrebbe tenuto conto della eccezionalità e della conseguente imprevedibilità così da applicare la scriminante putativa escludendo l’errore colpevole.

3.2 Il motivo appena riassunto si fonda, in sostanza, sull’asserto che avrebbe errato il giudice d’appello nell’attribuire al giornalista, per poter poi fruire dell’esimente del diritto di cronaca giudiziaria, quantomeno a livello putativo, l’obbligo di verificare per l’ampio tempo decorso la posizione del preteso indagato Pa., in quanto tale a non idonea a stabilizzarsi ma destinata a immutarsi in un’altra. Ciò viene nel motivo desunto da due elementi: il fatto che la fonte era giudiziaria – per cui non vi sarebbe stato alcun onere di controllo in ordine al suo contenuto – e il fatto che la modifica della fonte sarebbe stata imprevedibile e conosciuta/conoscibile soltanto dal “terzo” che l’aveva chiesta.

La corte territoriale, in effetti, ha fondato la sua decisione sull’ampiezza del tempo intercorso tra l’emissione del decreto di archiviazione (2002) e la pubblicazione dell’articolo (2010), tenendo conto del fatto che l’elemento estratto dal decreto di archiviazione nei confronti del D. era l’esistenza di un’indagine nei confronti del Pa., attività procedurale che, notoriamente, deve sfociare in una conclusione positiva o negativa nei confronti dell’indagato e quindi non permanere stabile a distanza di “molti anni”.

Va subito osservato che il giudice d’appello ha ritenuto consumato non un illecito colposo, bensì proprio il reato di diffamazione (come esprime apertis verbis laddove illustra la valutazione degli effetti risarcitori della condotta illecita: “la consumazione del reato di diffamazione lascia presumere la particolare sofferenza morale patita ecc.”). Occorre dunque attenersi all’interpretazione nomofilattica sviluppatasi in ordine alla fattispecie delittuosa di cui all’art. 595 c.p..

Il fondamento reale della doglianza è la natura della fonte da cui il giornalista avrebbe tratto la notizia – dimostratasi poì falsa – relativa al Pa., tale, ad avviso dei ricorrenti, da creare un’affidabilità peculiare o “privilegiata” già sufficiente a integrare l’esimente quantomeno putativa dell’esercizio del diritto di cronaca giudiziaria, esonerando da verifiche ulteriori sulla veridicità dei fatti così attestati; a ciò si aggiunge l’argomento – ictu oculi fattuale, e perciò in questa sede non vagliabile – della pretesa imprevedibilità, nel caso concreto, del mutamento del contenuto della fonte, per essere stato questo eccezionale.

Si tratta di una prospettazione che contrasta appieno con la giurisprudenza nomofilattica penale relativa appunto alla discriminante, anche putativa, dell’esercizio del diritto alla cronaca giudiziaria in relazione al reato di diffamazione a mezzo stampa.

3.3 La natura della fonte, invero, secondo un insegnamento che ormai può ben dirsi uniforme, non esonera mai il giornalista dall’onere di esaminare, controllare e verificare la notizia, così da sopprimere ognì dubbio sulla sua veridicità. La scriminante derivante dal combinato disposto dell’art. 51 c.p. e art. 59 c.p., comma 1, anche nella sua forma putativa, esige invero l’adempimento, da parte di chi intende esercitare il diritto che gli farebbe scudo dalla fattispecie penale, di specifici oneri appunto di verifica che investono ogni genere di fonte: l’errore sulla verità di quanto diffuso non può essere infatti “frutto di negligenza, imperizia o comunque colpa non scusabile”, onde l’errore rilevante ai fini della scriminante putativa “non deve vertere… sull’attendibilità della fonte di informazione, sì da poter ritenere sufficiente l’affidamento riposto in buona fede su una fonte non costituente “prova” della verità, per quanto autorevole possa essere” (così chiaramente si esprime Cass. pen., sez. 5, 21 febbraio 2000 n. 1952; sulla stessa linea Cass. pen., sez. 5, 5 marzo 2010 n. 23695 puntualizza che l’esimente putativa del diritto di cronaca giudiziaria non può essere affermata per il “presunto elevato livello di attendibilità della fonte se il giornalista non ha provveduto a sottoporre al dovuto controllo la notizia”; e ancora sull’assoluta necessità della verifica delle fonti quale presupposto della scriminante putativa per l’esercizio del diritto di cronaca o di critica giudiziarie v., da ultimo, Cass. pen., sez. 5, 20 settembre 2019 n. 38896).

Pertanto nessuna incidenza è attribuibile all’affidamento, anche in buona fede, maturato nei confronti della fonte in sè, occorrendo comunque, da parte di chi intende diffondere, verificare attentamente l’inconsistenza di ogni dubbio (Cass. pen., sez. 5, 11 marzo 2005 n. 15643 insegna che “è configurabile la scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca quando, pur non essendo obiettivamente vero il fatto riferito, il cronista abbia assolto l’onere di esaminare, controllare e verificare la notizia, in modo da superare ogni dubbio, non essendo, a tal fine, sufficiente l’affidamento ritenuto in buona fede sulla fonte”; Cass. pen., sez. 5, 13 luglio 2010 n. 27106 inequivocamente afferma: “La scriminante putativa del diritto di cronaca giudiziaria può essere invocata in caso di affidamento del giornalista su quanto riferito dalle sue fonti informative, non solo se abbia provveduto comunque a verificare i fatti narrati, ma abbia altresì offerto la prova della cura posta negli accertamenti svolti per stabilire la veridicità dei fatti”; e Cass. pen., sez. 5, 13 novembre 2017 n. 51619 ribadisce che la scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca “è configurabile solo quando, pur non essendo obiettivamente vero il fatto riferito, il cronista abbia assolto all’onere di esaminare, controllare e verificare l’oggetto della sua narrativa, al fine di vincere ogni dubbio”; Cass. pen., sez. 5, 10 ottobre 2018 n. 45813 conferma che per godere dell’esimente del diritto di cronaca giudiziaria in relazione alla fattispecie penale della diffamazione a mezzo stampa “il giornalista deve esaminare e controllare attentamente la notizia in modo da superare ogni dubbio, non essendo sufficiente in proposito l’affidamento in buona fede sulla fonte informativa”; conforme, da ultimo, Cass. pen., sez. 5, 4 novembre 2019 n. 50189; e, ad abundantiam, sull’affine profilo dell’esercizio del diritto di critica giudiziaria quale scriminante putativa cfr., sulla stessa linea, Cass. pen., sez. 1, 27 settembre 2013 n. 40930 e Cass. pen., sez. 5, 18 aprile 2019 n. 21145).

3.4 A questo consolidato insegnamento della Suprema Corte penale è coerentemente sintonica anche l’interpretazione nomofilattica civile, la quale infatti ha sempre affermato che, per godere dell’esimente anche putativa del diritto di cronaca, occorre che la notizia sia “frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca”, vale a dire che il giornalista “l’abbia accuratamente verificata” (così, p. es. Cass. sez. 3, 8 febbraio 2007 n. 2751; sulla questa linea della necessità del serio e diligente lavoro di ricerca si sono espressi, tra gli arresti massimati, pure Cass. sez. 3, 16 maggio 2007 n. 11259, Cass. sez. 3, 20 ottobre 2009 n. 22190 e Cass. sez. 3, 4 settembre 2012 n. 14822; e cfr. altresì i più risalenti Cass. sez. 3, 10 gennaio 2003 n. 196, Cass. sez. 3, 13 febbraio 2002 n. 2066, Cass. sez. 1, 24 settembre 1997 n. 9391, Cass. sez. 3, 2 luglio 1997 n. 5947 e Cass. sez. 3, 29 agosto 1990 n. 8963).

L’arresto invocato nel ricorso – Cass. sez. 3, 4 febbraio 2005 n. 2271 -, esonerando dall’onere di verifica dell’attendibilità della fonte informativa nel caso in cui “provenga dall’autorità investigativa o giudiziaria” il fatto da pubblicare, non può non correlarsi a contingenti notizie di cronaca quotidiana sullo svolgimento di indagini e arresti, visto che pone in alternativa “autorità investigativa o giudiziaria” (insegnamento ripreso da Cass. sez. 3, 18 ottobre 2005, nn. 20138 e 20139); ciò comunquenon può apportare un esonero assoluto da ogni verifica, bensì conforma quest’ultima alla situazione cronologico-giuridica in cui si rinviene la fonte.

3.5 Invero, la verifica che grava sul giornalista ai fini della scriminante deve essere sempre conformata e proporzionata alla fonte della notizia: e, fermo il fatto – del tutto ovvio – che compete al giudice di merito valutare se la verifica sia stata nel caso concreto “seria e diligente” – riprendendo la formula sovente adottata, come appena visto, dalla giurisprudenza nomofilattica per descriverne l’idoneità -, non è certo esigibile dal giornalista, dinanzi ad una notizia di fonte giudiziaria, di “replicare” in toto con una sua inchiesta privata gli esiti dell’indagine pubblica per essere legittimato poi a diffondere questi ultimi (lascia intendere la esclusione della ripetizione della valutazione già operata in sede penale Cass. sez. 3, 18 aprile 2006 n. 8953). Al contrario, la giurisprudenza di questa Suprema Corte ha espressamente riconosciuto che ai fini della scriminante è sufficiente che l’articolo del giornalista corrisponda al contenuto degli atti e provvedimenti dell’autorità giudiziaria, non potendosi pretendere che dimostri la fondatezza delle decisioni assunte in sede giudiziaria “e dovendo d’altra parte il criterio della verità della notizia essere riferito agli sviluppi di indagine e istruttori quali risultano al momento della pubblicazione dell’articolo e non già a quanto successivamente accertato in sede giurisdizionale” (così Cass. sez. 3, 9 marzo 2010 n. 5637): insegnamento, quest’ultimo, dal quale, del tutto logicamente, si deve desumere a contrario che il giornalista dovrà effettuare il suo personale scandaglio sulla veridicità della notizia in relazione “a quanto successivamente accertato in sede giurisdizionale” nel caso in cui (che è l’inverso trattato nel suddetto arresto, e corrisponde a quello qui in esame) si sia percorso un non indifferente tratto di tempo tra l’atto giudiziario e il momento in cui quest’ultimo viene diffuso tramite l’articolo (analogo insegnamento sortisce poi da Cass. sez. 3, ord. 9 maggio 2017 n. 11233 e Cass. sez. 3, ord. 16 maggio 2017 n. 12013).

L’individuazione, in conclusione, del contenuto dell’onere di controllo della veridicità come specificamente conformato nella ipotesi in cui la fonte è un atto giudiziario trova un criterio temporale da cui la prospettazione dei ricorrenti richiede un ingiustificato esonero, tenuto conto altresì del fatto che gli atti giudiziari, anche qualora siano decisori, sono suscettibili di variatio e quindi di superamento per fenomeni giuridici sopravvenuti (nel diritto penale, è ovvio che l’archiviazione non attinge neppure al valore del giudicato; lo stesso giudicato penale, poi, può essere oggetto di rescissione; analogamente, il giudicato civile è sensibile alla revocazione). E il vaglio effettuato sulla conformazione del caso concreto dalla corte territoriale attua, nella sua reale sostanza, proprio questo insegnamento di diritto della Suprema Corte.

3.6 Il giudice d’appello, infatti, prende le mosse dall’onere di chi pubblica la notizia di compiere un’adeguata verifica della sua veridicità: “L’eventuale discrepanza fra i fatti pubblicati e quelli effettivamente accaduti non esclude… che possa essere invocato l’esercizio del diritto di cronaca anche sotto il profilo putativo, allorchè l’agente, assolto ad ogni onere connesso ad adeguato controllo della veridicità delle notizie…, si trovi però, al momento della pubblicazione, ad avere incolpevolmente una percezione erronea o difettosa della realtà”.

Dopo questo asserto, in toto conforme all’insegnamento nomofilattico, la Corte d’appello prosegue rilevando in effetti quanto si è appena precisato: “L’onere verifica torio di veridicità della notizia pubblicata è ritenuto assolto, peraltro, quando il giornalista dimostri di avere posto ogni cura negli accertamenti svolti per stabilire la verità sostanziale dei fatti, ed indubbiamente, sotto tale profilo, la prova dell’affidamento ad una fonte privilegiata – qual è la fonte giudiziaria potrebbe valere a giustificare la scriminante”. La corte a questo punto conduce il suo ragionamento, sempre in piena coerenza con l’insegnamento nomofilattico, all’onere di chi pubblica di verificare comunque in modo completo e specifico la veridicità della notizia sotto la forma della necessità di un aggiornamento temporale (per il notevole tempo trascorso dall’uscita della notizia sulla fonte giudiziaria) a sua volta correlato alla necessità della verifica dell’evoluzione insita nella natura della notizia (la posizione di indagato “avrebbe potuto mutare”: rectius, essendo il procedimento delle indagini penali un fenomeno giuridico-finalizzato all’archiviazione o all’esercizio dell’azione penale – la quale, a sua volta, avrebbe generato conseguenze che potevano essere differenti -, l’avrebbe inevitabilmente dovuto).

In ultima analisi, dunque, il giudice d’appello non si è affatto discostato da una corretta applicazione della normativa attinente alla scriminante invocata nel motivo, che risulta quindi privo di fondatezza.

3.7 Per completezza, infine, si dà atto che il motivo include, nella sua ampia illustrazione, anche una serie di argomentazioni direttamente fattuali (come, per esempio, quelle relative alla imprevedibilità della correzione del decreto di archiviazione), che in questa sede sono di dubbia ammissibilità, conducendo questa Suprema Corte a un riesame del fatto.

3.8 Peraltro, qualora tali considerazioni fossero intese come volte a prospettare, senza indurre questa Corte all’esame fattuale, un vizio di sussunzione della fattispecie pur ricostruita così come l’ha accertata la Corte di merito, il Collegio rileva che la denuncia di detto vizio (concretante, ove esistente, una c.d. falsa applicazione di legge) sarebbe priva di fondamento, per quel che si verrà ora ad esporre.

Anzitutto, deve rilevarsi che nell’articolo di cui si tratta non sussiste alcun riferimento al decreto di archiviazione come fonte da cui il giornalista avesse tratto la notizia in ordine al contenuto del bloc-notes e, dunque, anche per questo è privo di pregio l’assunto che su di esso si fosse fatto affidamento.

Peraltro, risalendo il decreto al 2002 ed essendosi riferito il suo contenuto con la precisazione “indagato in passato” e senza menzionare l’archiviazione, la notizia si presentava in sè capziosa, non potendosi riportare che una persona è stata indagata in passato senza nulla dire dell’esito dell’indagine.

Queste circostanze risultano in iure rilevanti per ravvisare l’elemento soggettivo del delitto di diffamazione, una volta rivelatasi non vera la notizia, e ciò al di là dell’omesso controllo della verità della notizia stessa al momento in cui venne riferita.

Venendo poi a tale controllo, sempre sul piano dell’apprezszamento della vicenda in iure, si deve osservare che era necessario, piuttosto che per il tempo trascorso – otto anni – dalla pronuncia del decreto di archiviazione, per due ragioni.

In primo luogo, per l’opponibilità del decreto di archiviazione: dunque, per apprezzarne il contenuto non si poteva omettere di controllare se era stato opposto. E’ palese che l’opposizione avrebbe potuto apportare dati incidenti sulla notizia contenuta nel decreto e riferibili al Pa..

In secondo luogo, perchè – e soprattutto – l’archiviazione produce effetti risolvibili mediante il decreto motivato con cui il giudice delle indagini preliminari, ai sensi dell’art. 414 c.p.p., autorizzi “la riapertura delle indagini su richiesta del pubblico ministero motivata dalla esigenza di nuove investigazioni”. E tale decreto, dovendo rendere spiegazioni sulla riapertura delle indagini, potrebbe indicare elementi idonei ad incidere sul contenuto di pretesa verità giudiziale offerto nel precedente decreto di archiviazione.

Queste due ragioni – in generale, e cioè sempre su un piano in iure rilevante in termini di esatta sussunzione della fattispecie concreta nell’effettivo paradigma normativo – comportano che, qualora si riferisca una notizia potenzialmente lesiva dell’onore e della reputazione di una persona, emergente da un decreto di archiviazione ex art. 409 o ex art. 410 c.p.p., il giornalista controlli, nel caso di cui all’art. 409 c.p.c., se il decreto sia stato opposto, e in ogni caso se al decreto non sia sopravvenuta la riapertura delle indagini ai sensi dell’art. 414 c.p.p., giacchè entrambe le evenienze si prestano a incidere, per quanto come eventualità, sull’attualità e sulla verità del decreto di archiviazione.

Inoltre, la stessa possibilità, garantita dall’art. 130 c.p.p., che un decreto di archiviazione possa essere corretto per errore materiale e, parimenti, la previsione, rinvenibile nell’ultimo comma di detto articolo, che la relativa ordinanza – esito di un rito camerale partecipato ex art. 127 c.p.p., e quindi frutto di un pieno contraddittorio, per così dire, attuale – deve annotarsi sul provvedimento in tal modo corretto esigono che, in generale, se si riferisce il contenuto di un provvedimento del giudice delle indagini

preliminari, si tenga in conto la possibilità di correzione, onde occorre sincerarsi del contenuto del provvedimento di cui si dà notizia immediatamente prima della sua diffusione.

Nel caso in esame, l’annotazione della correzione era naturalmente conoscibile dal giornalista, il quale, invece, nella comparsa di risposta di primo grado allegò di essere pervenuto in possesso di copia del decreto di archiviazione per esser questo entrato in dominio pubblico nel 2002, e di averne conservato la copia per poi riutilizzarla otto anni dopo nel redigere l’articolo incriminato (pagina 3 della comparsa suddetta, presente negli atti giunti a questa Suprema Corte).

4.1 Il secondo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 112 c.p.c., “per la mancata individuazione ed applicazione del corretto principio di diritto, alla luce della giurisprudenza di legittimità in tema di rispondenza fra domanda e sentenza, ove essa decida ultra petitum”; anche qui, quali asserite conseguenze del dovere la sentenza “essere annullata e/o riformata”, si chiedono “revoca delle statuizioni civili e ordine di restituzione delle somme erogate”.

Si sostiene che, “nonostante il formale riferimento all’art. 2043 c.c.”, gli attori avrebbero nell’atto di citazione e negli atti successivi sempre e soltanto “fatto riferimento al danno da diffamazione, essendo tale condotta inquadrabile esclusivamente nell’ambito dell’art. 595 c.p. e essendo di natura esclusivamente dolosa”. Il giudice d’appello avrebbe invece accolto la domanda perchè esigibile dal cronista una condotta la cui omissione “costituisce un atto colposamente illecito”. Così, senza riferirsi alla sussistenza del dolo, la corte territoriale avrebbe “accolto una domanda mai formulata” violando – palesemente l’art. 112 c.p.c..

4.2 In primis, non può non rilevarsi che il motivo è formulato in modo generico e del tutto privo, quindi, di autosufficienza, negando il riferimento all’art. 2043 c.c., tramite una criptica invocazione dell'”atto di citazione” e dei “successivi atti” (ricorso, pagina 25). Il che lo rende inammissibile ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 1, n. 6.

4.3 Ad abundantiam pertanto si rileva che la doglianza si fonda su un’estrapolazione artificiosa ed erronea effettuata dalla motivazione dell’impugnata sentenza.

Il giudice d’appello ha condannato al risarcimento in rapporto alla fattispecie penale dell’art. 595 c.p., come, tra l’altro, enuncia inequivocamente laddove ne individua le conseguenze pregiudizievoli, afferenti alla “consumazione del reato di diffamazione”. Il riferimento all'”atto colposamente illecito” non è attinente agli elementi costitutivi della fattispecie criminosa delitto in effetti doloso -, bensì alla scriminante del reato stesso, che, come si è visto, non può non entrare nel profilo della colpa in termini di sua assenza, consistendo in una previa non negligente verifica sulla veridicità della notizia che si intende diffondere. E’ del tutto ovvio che ai fini di una scriminante putativa l’elemento soggettivo non può risiedere nel dolo: l’errore, ontologicamente in quanto tale, può qualificarsi soltanto colposo o non colposo, in quanto trascende dall’ambito della consapevole volontà che integra il dolo; per questo, logicamente, la giurisprudenza penale ha attinto dall’art. 59 c.p., per conformare la scriminante putativa.

5. Rileva in fine il Collegio che lo scrutinio dei motivi è avvenuto senza considerare l’invocazione da parte dei resistenti nella loro memoria del c.d. diritto all’oblio, in quanto la relativa prospettazione si concreta nella deduzione di una questione nuova basata anche su circostanze a fattuali a loro volta non introdotte a suo tempo nel giudizio di merito. Questione, dunque, inammissibile in questo giudizio di legittimità.

6. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna in solido per il comune interesse processuale – dei ricorrenti alla rifusione ai controricorrenti delle spese del grado, liquidate come da dispositivo.

Seguendo l’insegnamento di S.U. 20 febbraio 2020 n. 4315 si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2012, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

Rigetta il ricorso, condannando solidalmente i ricorrenti a rifondere ai controricorrenti le spese processuali, liquidate in complessivi Euro 5.200, oltre a Euro 200 per gli esborsi e al 15% per spese generali, nonchè agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio tenutasi con le modalità indicate nel relativo verbale depositato nella Cancelleria della Sezione Terza Civile, il 23 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2020

 

 

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