Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21961 del 12/10/2020

Cassazione civile sez. I, 12/10/2020, (ud. 08/09/2020, dep. 12/10/2020), n.21961

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso 13654/2016 proposto da:

Juliet S.p.a., nella qualità di società procuratrice della Siena

NPL 2018 S.r.l., già Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.a., in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in Roma, Piazza del Popolo n. 3, presso lo studio

dell’avvocato Sanasi d’Arpe Vincenzo, che la rappresenta e difende,

giusta procura in calce alla comparsa di costituzione di nuovo

difensore;

– ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.p.a., in Liquidazione, in persona dei curatori

Dott.ri C.C., e D.L.F., elettivamente

domiciliato in Roma, Via Oslavia n. 14, presso lo studio

dell’avvocato Barbera Marco, rappresentato e difeso dall’avvocato

Marozzi Silvio, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 455/2016 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

pubblicata il 24/03/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

08/09/2020 dal Cons. Dott. FALABELLA MASSIMO.

La Corte:

 

Fatto

OSSERVA

1. – (OMISSIS) s.p.a. conveniva in giudizio Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. chiedendo la condanna della convenuta alla ripetizione dell’indebito relativo a interessi usurari e anatocistici.

Il Tribunale di Siena accoglieva la domanda e condannava la banca alla restituzione della somma di Euro 56.246,90, oltre interessi legali.

2. – La convenuta soccombente proponeva appello; (OMISSIS) resisteva al gravame.

Intervenuta l’interruzione del giudizio a seguito della dichiarazione di fallimento dell’appellata, Banca Monte dei Paschi di Siena provvedeva alla riassunzione. Si costituiva in giudizio la curatela fallimentare di (OMISSIS) che eccepiva l’estinzione del giudizio, stante la asserita intempestività della riassunzione.

La Corte di appello di Firenze pronunciava, in data 24 marzo 2016, sentenza con cui dichiarava estinto il giudizio.

Per quanto qui rileva, la Corte di merito ha osservato: che al giudizio doveva applicarsi la disciplina dell’interruzione “automatica” introdotta col D.Lgs. n. 5 del 2006; che il fallimento di (OMISSIS) era stato dichiarato con sentenza del 16 aprile 2014 e la banca, secondo quanto fatto rilevare dalla curatela, aveva ricevuto l’avviso L. Fall., ex art. 93 (rectius: L. Fall., art. 92) in data 3 maggio 2014; che lo stesso fallimento aveva dedotto, nella propria comparsa di costituzione, che il 10 giugno 2014 Banca Monte dei Paschi di Siena aveva provveduto a sottoscrivere la domanda di ammissione al passivo; che l’odierno ricorrente nulla aveva eccepito, al riguardo, all’udienza di precisazione delle conclusioni del 3 dicembre 2015; che, per il meccanismo di cui all’art. 115 c.p.c., la conoscenza legale del fallimento di (OMISSIS) alla data del 3 maggio 2014 doveva “considerarsi risultante anche nel processo in cui la relativa eccezione (era) stata fatta valere”; che, in definitiva, il ricorso in riassunzione depositato il 29 aprile 2015 e notificato alla curatela il 25 giugno 2015 risultava essere intempestivo anche a voler considerare il termine di mesi sei.

3. – Ricorre per cassazione Banca Monte dei Paschi di Siena: l’impugnazione si fonda su quattro motivi.

Resiste con controricorso il fallimento di (OMISSIS), che ha depositato memoria.

Nel corso del giudizio di legittimità è intervenuta Juliet s.p.a., nella sua qualità di procuratrice di Siena NPL 2018 s.r.l., cessionaria del credito oggetto della presente controversia.

4. – I motivi di ricorso si riassumono come segue.

4.1. – Il primo oppone l’errata o falsa applicazione della L. Fall., art. 43, comma 3, nonchè degli artt. 3,24 e 111 Cost.. Sostiene la ricorrente che il dies a quo per la riassunzione vada individuato avendo riguardo alla conoscenza legale dell’evento interruttivo: conoscenza che si sarebbe perfezionata solo all’udienza del 9 dicembre 2014, allorquando la Corte di merito ebbe a dichiarare l’interruzione del procedimento; in conseguenza, secondo la banca istante, la riassunzione, attuatasi con ricorso del 29 aprile 2015, avrebbe dovuto considerarsi pienamente tempestiva.

4.2. – Col secondo mezzo la sentenza impugnata è censurata per errata o falsa applicazione dell’art. 305 c.p.c., come modificato dalla L. n. 69 del 2009, art. 46, comma 14. Viene dedotto che il termine di tre mesi presente nella nuova formulazione dell’art. 305 cit. opera solo nei giudizi introdotti in primo grado dopo il 4 luglio 2009 e che ai fini della tempestività della riassunzione occorre guardare al momento del deposito del ricorso proposto dalla parte interessata a riattivare il procedimento.

4.3. – Col terzo motivo è lamentata l’errata o falsa applicazione dell’art. 11 preleggi e dell’art. 24 Cost., con riferimento al testo novellato della L. Fall., art. 43, comma 3. La doglianza investe l’affermazione del giudice distrettuale secondo cui la norma da ultimo menzionata sarebbe di immediata applicazione, e quindi idonea a regolamentare l’interruzione occorsa. Il giudizio di merito – sostiene la banca – era stato introdotto prima della riforma della legge fallimentare, onde ad esso non potrebbe adattarsi quanto disposto dell’art. 43 cit., comma 3.

4.4. – Il quarto mezzo denuncia l’errata o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c.. Viene deplorata l’affermazione della Corte di appello per cui la banca non avrebbe preso posizione rispetto all’eccezione di estinzione svolta dalla curatela fallimentare. E’ spiegato che essa istante non aveva negato di aver ricevuto l’avviso L. Fall., ex art. 92, in data 10 giugno 2014, ma aveva contestato le conseguenze giuridiche che da tale comunicazione la controparte intendeva far discendere.

5. – Il tema della decorrenza del termine entro cui va riassunto il giudizio interrotto per l’intervenuto fallimento di una delle parti processuali è stato largamente scrutinato da questa Corte a seguito della riforma del 2006.

5.1. – Come è noto, il D.L. n. 5 del 2006, art. 41, ha aggiunto alla L. Fall., art. 43, un comma 3; quest’ultimo reca la disposizione per cui “(l)’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo”. La norma è pacificamente da interpretarsi nel senso che, a differenza di quanto accadeva nel passato, la dichiarazione di fallimento determina l’interruzione di diritto – automatica, dunque – del giudizio (per tutte: Cass. Sez. U. 20 marzo 2008, n. 7443, in motivazione; Cass. 28 dicembre 2016, n. 27165; da tale risultato interpretativo muove Corte Cost. 21 gennaio 2010, n. 17, investita della questione di legittimità costituzionale dell’art. 305 c.p.c., su cui infra). Una precisa indicazione in tal senso è del resto desumibile dalla Relazione al D.Lgs. n. 5 del 2006, in cui si raccorda la disposizione circa l’interruzione di diritto del processo in caso di apertura del fallimento al criterio di delega secondo cui occorre accelerare le procedure applicabili alle controversie in materia fallimentare.

Ciò detto, erra sicuramente la ricorrente quando, col terzo motivo, oppone l’inapplicabilità, al giudizio di merito definito con la sentenza impugnata, della disciplina introdotta col D.Lgs. n. 5 del 2006, cit. art. 41. Infatti, la nuova regolamentazione trova applicazione, ai sensi dell’art. 153 del D.Lgs. cit., a partire dal 16 luglio 2006, con consequenziale automaticità dell’interruzione del processo a seguito della dichiarazione di fallimento, purchè quest’ultima sia intervenuta successivamente a tale data, anche nei giudizi anteriormente pendenti (Cass. 28 dicembre 2016, n. 27165).

5.2. – A fronte dell’interruzione automatica del procedimento determinata dalla dichiarazione di fallimento – interruzione concretamente operante, come si è detto, nel giudizio di merito che qui interessa – occorre però verificare se la riassunzione sia stata operata tempestivamente rispetto al termine di sei mesi (ora: tre mesi) di cui all’art. 305 c.p.c. (il quale prevede – come è noto – che la riassunzione intempestiva del giudizio determina l’estinzione di questo).

La necessità di rispondere a tale quesito non è nuova e si prospetta in ogni ipotesi di interruzione ipso jure del procedimento: in ogni fattispecie in cui è cioè stringente l’esigenza di tutelare il diritto di difesa della parte cui il fatto interruttivo non si riferisce; detta parte deve essere infatti in grado di conoscere se si sia verificato l’evento interruttivo e, in caso positivo, deve essere nelle condizioni di sapere da quale momento decorre il termine, semestrale o trimestrale, per la riassunzione (Corte Cost. 21 gennaio 2010, n. 17 cit.).

In tale prospettiva il giudice delle leggi, già con la sentenza n. 139 del 15 dicembre 1967, ebbe a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 305 c.p.c., per la parte in cui faceva decorrere dalla data dell’interruzione del processo il termine per la sua prosecuzione e la sua riassunzione, anche nei casi regolati dal precedente art. 301 c.p.c. (in cui, appunto, l’interruzione opera automaticamente). Questa Corte regolatrice ebbe così modo di precisare che a seguito di tale declaratoria di incostituzionalità doveva ritenersi che la prosecuzione e la riassunzione del processo, in caso degli eventi interruttivi consistenti nella morte o nell’impedimento del procuratore, doveva avvenire “nel termine perentorio di sei mesi dall’effettiva conoscenza dell’evento da parte dell’interessata” (Cass. 17 giugno 1968, n. 1943). E ancora la Corte costituzionale, occupandosi di altra ipotesi di interruzione di diritto (quella contemplata dall’art. 299 c.p.c., derivante dalla morte e dalla perdita della capacità della parte prima della costituzione) confermò che la pronuncia di incostituzionalità operava proprio nel senso da ultimo precisato, rilevando che la non conformità dell’art. 305 alla carta fondamentale (segnatamente all’art. 24 della stessa) derivava dal fatto “che il termine stabilito per la prosecuzione o riassunzione del processo viene fatto decorrere dalla data dell’evento interruttivo anzichè da quella in cui dell’evento stesso abbia avuto conoscenza la parte interessata” (Corte Cost. 6 luglio 1971, n. 159).

Ben si comprende quindi, come la medesima Corte, dovendosi pronunciare, quaranta anni dopo, sull’analoga questione che si poneva a seguito della modificazione della L. Fall., art. 43, abbia avuto buon gioco nel rilevare che, ai fini della riassunzione del procedimento interrotto di diritto per il fallimento di una delle parti, continua a trovare applicazione l’art. 305 c.p.c., “nel testo risultante dalle ricordate pronunzie (della) Corte e del principio di diritto che sulla base di esse si è consolidato” (Corte Cost. 21 gennaio 2010, n. 17 cit.).

5.3. – Ove verga in questione una ipotesi di interruzione di diritto la conoscenza che si richiede, ai fini della decorrenza del termine per la riassunzione è comunemente individuata in quella legale, ottenuta tramite atti muniti di fede privilegiata quali dichiarazioni, notificazioni o certificazioni rappresentative dell’evento medesimo (così, tra le tante, con riguardo all’ipotesi di interruzione del processo per morte del procuratore: Cass. 16 aprile 2019, n. 10594; Cass. 25 febbraio 2015, n. 3782; Cass. 11 febbraio 2010, n. 3085), alle quali non è equiparabile la conoscenza di fatto altrimenti acquisita (ad esempio: Cass. 16 aprile 2019, n. 10594 cit.; Cass. 11 febbraio 2010, n. 3085 cit.; Cass. 19 marzo 1996, n. 2340, sempre con riferimento alla fattispecie di interruzione ex art. 301 c.p.c.).

Una siffatta conoscenza legale viene postulata – salvo quanto si dirà – anche in caso di interruzione del giudizio determinata dal fallimento.

Rileva, in questo come negli altri casi di interruzione di diritto, “l’esigenza che la verifica della (possibilità della) conoscenza del decorso termine per la riassunzione sia ancorata a criteri quanto più possibile sicuri ed oggettivi, così da neutralizzare, per quanto possibile, l’elemento di criticità operativa derivante dall’avere il giudice delle leggi disancorato il termine per la riassunzione dal verificarsi dell’interruzione, così rendendolo mobile e variabile” (così Cass. 30 gennaio 2019, n. 2658, in motivazione).

5.4. – Con particolare riguardo al caso in cui la riassunzione debba essere operata dal curatore fallimentare, è stato precisato che ai fini del decorso del termine per la riassunzione non è sufficiente la sola conoscenza da parte del curatore fallimentare dell’evento interruttivo rappresentato dalla dichiarazione di fallimento, ma è necessaria anche la conoscenza dello specifico giudizio sul quale detto effetto interruttivo è in concreto destinato ad operare: conoscenza che deve per l’appunto essere legale, nei termini sopra precisati (Cass. 28 dicembre 2016, n. 27165 cit.; Cass. 13 marzo 2013, n. 6331; Cass. 7 marzo 2013, n. 5650; nel senso che la conoscenza legale del giudizio di impugnazione di un lodo, da parte della curatela, possa desumersi della domanda di ammissione al passivo del credito basato sulla statuizione del lodo stesso, in fattispecie in cui la predetta domanda faceva puntuale riferimento al giudizio incardinato presso il giudice dell’impugnazione, Cass. 18 aprile 2018, n. 9578).

Si tratta, come è evidente, di una conclusione imposta dal rilievo per cui il curatore fallimentare, che è soggetto rimasto estraneo al giudizio interrotto, ben può ignorare l’esistenza di questo.

5.5. – Allo stesso esito la giurisprudenza di legittimità è pervenuta prendendo in considerazione la fattispecie della riassunzione operata dalla controparte del fallito. Questa S.C. ha difatti asserito, in più occasioni, che il termine per la detta riassunzione decorre dall’acquisizione di una conoscenza legale che deve avere ad oggetto tanto l’evento interruttivo, quanto il procedimento in cui tale evento ha operato (al di là delle diverse formule adottate, risultano massimate in tal senso: Cass. 15 marzo 2018, n. 6398; Cass. 30 novembre 2018, n. 31010; Cass. 26 giugno 2020, n. 12890; la massima ufficiale di Cass. 30 gennaio 2019, n. 2658 replica il principio di diritto nell’occasione enunciato dalla Corte nell’interesse della legge ex art. 363 c.p.c., comma 3: tale principio non fa menzione della regola per cui la conoscenza legale debba estendersi all’individuazione del processo colpito dall’interruzione, che è però richiamata nel corpo della motivazione).

L’esigenza della conoscenza legale del giudizio in cui è occorsa l’interruzione è stata spiegata per ragioni di “simmetria” rispetto all’orientamento formatosi con riguardo al corso del termine per la riassunzione nei riguardi del curatore fallimentare (così la testè citata Cass. 30 gennaio 2019, n. 2658).

Sul punto è peraltro da registrare la dissonanza prodotta da Cass. 29 agosto 2018, n. 21325, non massimata, secondo cui la parte estranea all’evento interruttivo non ha la necessità di conoscere il processo del quale è parte, a differenza del curatore fallimentare che, se non può ignorare il dato dell’apertura della procedura concorsuale, può non essere al corrente dell’esistenza del singolo processo relativo al rapporto di diritto patrimoniale del fallito compreso nel fallimento.

Il contrasto è stato preso in considerazione da Cass. 26 giugno 2020, n. 12890 cit., la quale, in motivazione, ha ribadito la necessità di una conoscenza legale estesa al giudizio interrotto proprio in considerazione della inaccettabilità del “trattamento asimmetrico” che altrimenti sarebbe riservato al curatore fallimentare: è stato cioè sottolineato non sussistere ragioni che giustifichino nei confronti della parte non fallita minori cautele rispetto a quelle accordate alla curatela (che va resa edotta del procedimento interrotto).

5.6. – La giurisprudenza di questa Corte è venuta inoltre precisando che, in tema di interruzione legale del giudizio dovuta al fallimento di una delle parti, la conoscenza legale deve investire non già la parte personalmente, ma il suo difensore, quale soggetto in grado di apprezzare gli effetti giuridici dell’evento medesimo e di comprendere se e quando sia necessario attivarsi per riassumerlo tempestivamente (Cass. 15 marzo 2018, n. 6398 cit., Cass. 30 gennaio 2019, n. 2658 cit. e Cass. 26 giugno 2020, n. 12890 cit.; Cass. 30 novembre 2018, n. 31010 cit., nel prendere in considerazione la comunicazione effettuata dal curatore ai sensi della L. Fall., art. 92, la considera strumento idoneo a far decorrere il termine di cui all’art. 305 c.p.c., ma a condizione che essa, oltre a recare esplicito riferimento alla lite pendente ed interrotta, e ad essere corredata da copia autentica della sentenza di fallimento, sia appunto indirizzata al difensore della parte processuale).

Non si richiede, invece, che la conoscenza legale sia procurata dal difensore della parte nei cui confronti si è verificato l’evento interruttivo, ben potendo provenire da soggetti diversi, come il curatore fallimentare (per tutte Cass. 30 gennaio 2019, n. 2658 cit.; si è del resto appena fatto menzione del rilievo che può assumere, ai fini del decorso del termine dell’art. 305 c.p.c., l’avviso di cui alla L. Fall., art. 92).

5.7. – Poichè la conoscenza legale deve avere ad oggetto lo specifico processo in cui l’interruzione ha spiegato incidenza, si ritiene, poi, che ove la parte interessata alla prosecuzione sia assistita in tale processo da un difensore diverso da quello cui è stata data comunicazione dell’evento, ai fini del decorso del termine per la riassunzione rileva il momento in cui il secondo difensore acquisisce legale cognizione dell’evento interruttivo: infatti, è spiegato, il singolo difensore non è tenuto a conoscere tutti i procedimenti che interessano la parte da lui rappresentata (Cass. 15 marzo 2018, n. 6398 cit.; sul punto anche le più volte richiamate Cass. 30 novembre 2018, n. 31010 e Cass. 26 giugno 2020, n. 12890). Il principio si dimostra coerente con quanto già affermato da questa stessa Corte di legittimità con riferimento ad altra ipotesi di interruzione automatica del processo: così, secondo Cass. 23 novembre 2013, n. 20744 e Cass. 1 giugno 2017, n. 13900, la conoscenza dell’evento interruttivo determinata dalla morte del procuratore intervenuta in altro processo, è idonea a far decorrere il termine per la riassunzione anche in relazione a distinti giudizi, pendenti tra le medesime parti, in cui la parte era patrocinata dallo stesso difensore colpito dal suddetto evento.

Va tuttavia dato atto della posizione più restrittiva assunta, al riguardo, da una diversa pronuncia della Corte, secondo cui, in caso di interruzione automatica del processo L. Fall., ex art. 43, comma 3, la conoscenza del fallimento di una parte che il procuratore di altra parte, non colpita dall’evento interruttivo, abbia acquisito in un determinato giudizio non è idonea a far decorrere il termine per la riassunzione di altra causa, neanche ove le parti siano assistite, in entrambi i processi, dagli stessi procuratori: viene affermato che diversamente si attribuirebbe all’avvocato una sorta di “rappresentanza generale” della parte che gli ha affidato uno o più mandati ad litem, rappresentanza contraddistinta da un’ampiezza non direttamente correlata con l’oggetto dei singoli giudizi per i quali il professionista sia stato officiato e, dunque, potenzialmente esulante dai confini dei mandati defensionali che il cliente aveva inteso conferire all’avvocato (così Cass. 16 dicembre 2019, n. 33157).

5.8. – Fin qui il percorso segnato, nei termini non del tutto univoci che si è tentato di compendiare, dalla conoscenza legale dell’evento interruttivo e del procedimento in cui tale evento spiega effetto.

La possibilità di attribuire importanza a una conoscenza non legale, ma effettiva, dell’evento interruttivo è stata di recente esplicitamente affermata da altra pronuncia. Cass. 14 giugno 2019, n. 15996 ha in particolare enunciato il principio per cui in caso di interruzione del processo determinata, ipso jure, dall’apertura del fallimento ai sensi della L. Fall., art. 43, comma 3, il termine per la riassunzione del giudizio a carico della parte non colpita dall’evento interruttivo, la quale abbia preso parte al procedimento fallimentare presentando domanda di ammissione allo stato passivo, non decorre dalla legale conoscenza che questa abbia avuto della pendenza del procedimento concorsuale, ma dal momento in cui ne abbia avuto cognizione effettiva: sicchè, in assenza di ulteriori elementi, rileverebbe il momento in cui sia stata depositata o inviata la domanda di ammissione allo stato passivo. Nella motivazione della sentenza è valorizzata la circostanza per cui chiedendo di insinuarsi al passivo la controparte del fallito nel giudizio incardinato prima dell’apertura del fallimento propone nei confronti della massa una domanda giudiziale: per effetto di tale domanda – è detto – il nominato soggetto non può più considerarsi estraneo al procedimento concorsuale e conseguentemente, “in quanto asserito creditore, non può più invocare a propria tutela nel procedimento extraconcorsuale pendente (già incardinato nei confronti del fallito) l’esigenza della conoscenza legalè del procedimento fallimentare con atto di fede privilegiata, in quanto esigenza superata dalla partecipazione al procedimento concorsuale stesso”.

Tale sentenza, ad avviso del Collegio, pare marcare una discontinuità con l’orientamento seguito da Cass. 15 marzo 2018, n. 6398 cit. e dalle pronunce successive. A prescindere dal fatto che, secondo una decisione di questa Corte, la proposizione di una domanda giudiziale nei confronti della curatela implicherebbe una conoscenza dell’evento interruttivo che, per non essere legale, risulterebbe comunque inidonea a far decorrere il termine di cui all’art. 305 c.p.c. (così Cass. 9 aprile 2018, n. 8640, in motivazione), è a dirsi che la soluzione proposta da Cass. 14 giugno 2019, n. 15996 cit. finisce per trascurare il principio, desumibile dalla giurisprudenza richiamata in precedenza, per cui ai fini della riassunzione dovrebbe rilevare la conoscenza (legale) procurata al difensore della parte del giudizio interrotto, e non alla parte stessa: tale regola sembra difatti escludere che, ove la domanda di insinuazione sia sottoscritta da un difensore diverso da quello costituitosi nel giudizio interrotto, essa possa di per sè riflettere quella conoscenza legale che la legge pretende. Per un verso, infatti, la conoscenza del fallimento in capo alla parte è ritenuta irrilevante in quanto quest’ultima – come si è visto – non è normalmente in condizione di valutare gli effetti dell’interruzione, quando debba riassumere il giudizio e quali siano le conseguenze della mancata o intempestiva riassunzione; per altro verso, il difensore che domanda l’ammissione al passivo potrebbe ignorare l’esistenza del giudizio interrotto, in cui non ha prestato il proprio ufficio, onde, nella prospettiva indicata, nemmeno la consapevolezza acquisita da tale soggetto quanto all’apertura del fallimento dovrebbe rilevare ai fini del decorso del termine ex art. 305 c.p.c.. Tutto ciò sta a significare che, se ci si allinea alle decisioni che hanno preceduto Cass. 14 giugno 2019, n. 15996 cit., la proposizione della domanda di ammissione al passivo non può considerarsi sempre e comunque espressiva di una conoscenza utile ai fini del decorso del termine per riassumere.

5.9. – Deve infine darsi conto di un indirizzo interpretativo che esclude, in sintesi, possa esservi un onere di riassunzione in assenza della dichiarazione, da parte del giudice, dell’interruzione del giudizio per l’intervenuto fallimento della parte. E’ stato affermato, in particolare, che la L. Fall., art. 43, comma 3, va interpretato nel senso che, intervenuto il fallimento, l’interruzione è sottratta all’ordinario regime dettato in materia dall’art. 300 c.p.c., nel senso, cioè, che è automatica e deve essere dichiarata dal giudice non appena sia venuto a conoscenza dall’evento, ma non anche nel senso che la parte non fallita sia tenuta alla riassunzione del processo nei confronti del curatore indipendentemente dal fatto che l’interruzione sia stata, o meno, dichiarata (Cass. 1 marzo 2017, n. 5288; Cass. 27 febbraio 2018, n. 4519; Cass. 9 aprile 2018, n. 8640; Cass. 11 aprile 2018, n. 9016).

Si tratta di una tesi che, in una chiara ottica di semplificazione, anticipa, di fatto, quanto è stato previsto, sul punto, dal codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.Lgs. n. 14 del 2019): questo, all’art. 143, comma 3, dopo aver disposto che l’apertura della liquidazione giudiziale determina l’interruzione del processo, stabilisce, appunto, che il termine per la riassunzione del processo interrotto decorre da quando l’interruzione viene dichiarata dal giudice.

Che, in base al diritto vigente, nel caso di dichiarazione di fallimento di una parte processuale, sia necessaria la declaratoria di interruzione ai fini della decorrenza del termine per riassumere è stato tuttavia contestato dalla giurisprudenza successiva: si è rilevato, infatti, che la previsione di tale ulteriore adempimento vanificherebbe, nella sostanza, la previsione di automaticità prevista dalla L. Fall., art. 43 (in tali termini Cass. 30 novembre 2018, n. 31010 cit.).

6. – In conclusione, la materia che interessa si presenta costellata da posizioni non coerenti che concorrono a rendere priva di uniformità la giurisprudenza espressa dalla Corte.

Il contrasto più significativo è quello da ultimo menzionato: dalla sua risoluzione dipende, per così dire, la complessiva consistenza dei problemi che si agitano quando si dibatte della riassunzione del procedimento interrotto per il fallimento di una delle parti. E’ evidente, infatti, che le plurime questioni legate alla conoscenza legale dell’evento interruttivo e del giudizio in cui esso è operante tendano inevitabilmente a perdere di spessore nella prospettiva segnata dall’orientamento inaugurato dalla cit. Cass. 1 marzo 2017, n. 5288, secondo cui ciò che conta è, unicamente, la dichiarazione di interruzione del procedimento da parte del giudice.

Si è visto, poi, che non tutte le nominate questioni affrontate dalla giurisprudenza che è diversamente posizionata (attestata, cioè, sulla tesi per cui quel che conta è la conoscenza legale dell’evento interruttivo e del giudizio che su di questo incide) hanno raggiunto un soddisfacente grado di definizione.

I profili su cui si sono registrati dissensi sono stati ricordati: è il caso di richiamarli. E così, all’enunciato secondo cui, ai fini della decorrenza del termine per la riassunzione, occorre prendere in considerazione la conoscenza del procedimento in capo alla parte non fallita si contrappone l’assunto per il quale tale conoscenza non sarebbe richiesta. Non può poi ritenersi pacifico il principio per il quale, ai fini della conoscenza legale dell’evento interruttivo, rileverebbe la condizione data dall’identità del difensore che assiste la parte sia nel giudizio interrotto, sia in altro giudizio, in cui si acquisisca conoscenza legale del fallimento. Infine, l’affermazione per cui il termine per la riassunzione in capo alla parte non fallita decorrerebbe comunque dal momento in cui sia stata depositata o trasmessa la domanda di ammissione allo stato passivo non pare legarsi con gli arresti di questa Corte che esigono la conoscenza dell’evento interruttivo in capo al difensore che assista la parte stessa nel giudizio interrotto (situazione, questa, che evidentemente non si configura ove la parte, nel procedimento di ammissione al passivo, sia patrocinata da un altro avvocato).

7. – In considerazione delle dette discordanze tra le pronunce rese dalla Corte, reputa il Collegio opportuna la rimessione della presente causa al Primo presidente: ciò affinchè lo stesso valuti se la dibattuta questione circa l’individuazione del momento da cui debba aver corso, per la parte che non sia fallita, il termine per la riassunzione del giudizio nel caso di interruzione L. Fall., ex art. 43, comma 3, vada devoluta alle Sezioni Unite.

Pare infatti auspicabile l’assunzione di prese di posizione univoche, da parte dell’articolazione più autorevole della Corte, su di un tema la cui dimensione pratica si coglie agevolmente; infatti, la coesistenza di plurimi indirizzi interpretativi che postulano, o comportano, diverse decorrenze del termine per riassumere implica, inevitabilmente, il rischio che, in presenza della medesima situazione processuale, la riattivazione del giudizio venga in alcuni casi reputata tempestiva e in altri casi tardiva: così che, in definitiva, alla parte interessata sia precluso di formulare una prognosi affidabile circa le conseguenze della propria condotta processuale.

P.Q.M.

La Corte:

rimette la causa al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, sulla questione di cui in motivazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 8 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2020

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