Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21940 del 21/09/2017


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Cassazione civile, sez. III, 21/09/2017, (ud. 06/07/2017, dep.21/09/2017),  n. 21940

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – rel. Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. SPAZIANI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17468/2014 proposto da:

P.D., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE DI CASSZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato

P.D. difensore di sè medesimo;

– ricorrente –

contro

C.E., A.R., elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA ANGELO EMO 106, presso lo studio dell’avvocato FRANCO

CHIAPPARELLI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato

M.T. giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1547/2014 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 23/04/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/07/2017 dal Consigliere Dott. MARCO DELL’UTRI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PEPE Alessandro, che ha concluso per il rigetto;

udito l’Avvocato MICHELE A. ERBA per delega.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza resa in data 23/4/2014, la Corte d’appello di Milano, in accoglimento dell’appello incidentale proposto da A.R. ed C.E. e in totale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato l’intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento del danno da calunnia invocato da P.D. nei confronti delle controparti, con la condanna del P. alla restituzione delle somme a lui corrisposte dagli appellanti incidentali in forza della sentenza di primo grado.

2. A sostegno della decisione assunta, la corte territoriale ha ritenuto che il diritto al risarcimento dei danni azionato dal P. nei confronti di A.R. ed C.E. (quali aventi causa da A.A., autore della calunnia dedotta in giudizio dal P.), dovesse ritenersi prescritto ai sensi dell’art. 2947 c.c., comma 3, avendo il P. agito in giudizio dopo l’avvenuto decorso del termine di cinque anni dalla data del decesso dell’autore della calunnia.

3. Avverso la sentenza d’appello, P.D. propone ricorso per cassazione sulla base di sei motivi di impugnazione.

4. A.R. ed C.E. resistono con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 329 c.p.c., per avere la corte territoriale erroneamente trascurato di rilevare come il pagamento spontaneo del debito prescritto, ad opera delle controparti, dopo la sentenza di primo grado, fosse valso a manifestare acquiescenza a detta sentenza, con la conseguente inammissibilità del successivo appello incidentale proposto.

2. La censura è manifestamente infondata.

Osserva il collegio come l’avvenuto pagamento, ad opera del condannato, delle somme poste a oggetto della condanna pronunciata dal primo giudice, non costituisce di per sè una forma di acquiescenza alla ridetta pronuncia, trovando giustificazione, detto pagamento, di regola, nella volontà della parte condannata di evitare l’esecuzione forzata di cui la pronuncia del giudice di primo grado costituisce valido titolo.

Sul punto, vale richiamare il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, ai sensi del quale l’adempimento spontaneo della prestazione imposta da una sentenza esecutiva, ancorchè prima dell’intimazione del precetto e senza formulazione di riserva di impugnazione della sentenza, non è di per sè solo sufficiente a configurare gli estremi dell’acquiescenza tacita, in quanto si tratta di un comportamento che può essere ispirato dalla finalità di evitare le ulteriori spese del precetto e degli eventuali successivi atti di esecuzione (cfr. Sez. 1, Sentenza n. 13927 del 13/12/1999, Rv. 532077-01).

In particolare, l’acquiescenza del soccombente, che costituisce ostacolo alla proposizione dell’impugnazione ex art. 329 c.p.c., ove non risulti da un’accettazione espressa della pronuncia giudiziale o da una formale rinuncia a sottoporla a gravame, può desumersi soltanto da atti o fatti univoci, del tutto incompatibili con la volontà di avvalersi del mezzo di impugnazione nell’ipotesi prevista. Ne consegue che non dà luogo ad acquiescenza l’adempimento spontaneo da parte del soccombente della prestazione dovuta in base a sentenza esecutiva, non essendo tale comportamento incompatibile con la volontà di avvalersi del mezzo di impugnazione esperibile e risultando esso volto ad evitare l’esecuzione forzata del provvedimento giurisdizionale (v., ex plurimis, Sez. 3, Sentenza n. 10963 del 09/06/2004, Rv. 573476-01).

Ciò posto, non avendo l’odierno ricorrente individuato elementi di fatto ulteriori e diversi dal ridetto pagamento, idonei a dar conto dell’effettiva e inequivoca volontà del condannato di prestare acquiescenza alla pronuncia di condanna subita, deve ritenersi esclusa la denunciata erroneità della sentenza d’appello nella parte in cui esclusa alcuna acquiescenza – ha considerato e accolto l’appello incidentale proposto dalle controparti del ricorrente.

3. Con il secondo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione degli artt. 2934 c.c. e segg., nonchè dell’art. 295 c.p.c. e art. 185 c.p., per avere la corte territoriale erroneamente ritenuto prescritto il proprio diritto al risarcimento del danno da calunnia, dovendo ritenersi corretta l’identificazione del termine di decorrenza di detta prescrizione dal passaggio in giudicato della sentenza di assoluzione del calunniato.

Sotto altro profilo, il ricorrente sottolinea l’erroneità della decisione impugnata per non avere il giudice d’appello ritenuta indispensabile la considerazione del processo penale celebratosi a carico del P. quale causa interruttiva della prescrizione e per aver erroneamente attribuito una decisiva rilevanza al decesso del responsabile della denuncia calunniosa.

Da ultimo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per omessa decisione su un punto decisivo della controversia e violazione dell’art. 2043 c.c. e degli artt. 112e 115 c.p.c., per avere la corte d’appello trascurato di esaminare il motivo di gravame concernente l’incongrua quantificazione del risarcimento del danno da calunnia originariamente riconosciuto dal primo giudice.

4. La censura è infondata.

Osserva il collegio come, nel ritenere prescritto il diritto al risarcimento del danno da calunnia, la corte territoriale si sia correttamente allineata al consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa corte (che il Collegio condivide e fa proprio, ritenendo di doverne assicurare continuità) ai sensi del quale il termine di prescrizione previsto per il reato di calunnia (che a norma dell’art. 2947 c.c., comma 3, è applicabile anche all’azione civile di risarcimento del danno) decorre, sia per il reato che per l’azione civile, dalla stessa data, e cioè dalla data in cui il giudice venga a conoscenza, direttamente o indirettamente, della falsa denuncia, e non già dalla data di inizio dell’azione penale, perchè il reato di calunnia si consuma appena l’autorità giudiziaria (oppure altra autorità obbligata a riferire ad essa) venga presentata o, comunque, giunga la falsa denuncia, ed è da quello stesso momento che la persona denunciata può far valere il diritto al risarcimento per il pregiudizio sofferto (Sez. 3, Sentenza n. 940 del 25/03/1972, Rv. 357207-01).

Al riguardo, è appena il caso di evidenziare come la circostanza della mera protrazione degli effetti negativi derivanti dalla condotta illecita vale unicamente a integrare gli estremi di un illecito istantaneo ad effetti permanenti (come nel caso di specie), e non già un illecito permanente, per il quale soltanto è configurabile un diritto al risarcimento che sorge in modo continuo e che in modo continuo si prescrive, se non tempestivamente esercitato dal momento in cui si produce (Sez. 3, Sentenza n. 13201 del 28/05/2013, Rv. 626696-01).

In particolare, l’illecito istantaneo ad effetti permanenti è caratterizzato (come chiarito da Cass., Sez. Un., n. 2855/1973, che ha illustrato la differenza tra le due fattispecie) da un’azione che uno actu perficitur, che cioè si esaurisce in un lasso di tempo definito, lasciando peraltro permanere i suoi effetti nel tempo.

In tale secondo caso, in base al combinato disposto degli artt. 2935 e 2947 c.c., la prescrizione decorre dalla data in cui s’è verificato il danno, cioè la conseguenza pregiudizievole derivata dalla lesione della posizione giuridica soggettiva tutelata, purchè il danneggiato ne sia consapevole e non sussistano impedimenti giuridici a fa valere il diritto al risarcimento (Cass., n. 17985/2007), come, nel caso in esame, a seguito della denuncia asseritamente calunniosa o, al più tardi, a seguito della comunicazione all’imputato dell’informazione di garanzia relativa al procedimento penale instaurato a seguito della ricezione della denuncia calunniosa da parte dell’autorità giudiziaria.

Ciò posto, rilevato come ai sensi dell’art 2947 c.c., comma 3, se il reato è estinto per causa diversa dalla prescrizione (come in caso di morte dell’autore del fatto-reato), il diritto al risarcimento del danno si prescrive nei termini indicati dai primi due commi (nel caso di specie, di cinque anni), con decorrenza dalla data di estinzione del reato, del tutto correttamente la corte territoriale ha individuato il decorso del termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da calunnia in quello di cinque anni dal decesso dell’autore della denuncia calunniosa, con il conseguente rilievo dell’intervenuta prescrizione del diritto del P., siccome esercitato per la prima volta in epoca posteriore a detta data, a nulla rilevando l’eventuale data di definitività della pronuncia di assoluzione del calunniato, ovvero (in chiave interruttiva) la celebrazione del processo di truffa derivato dalla denuncia calunniosa, trattandosi di circostanze non impeditive dell’azione risarcitoria del danneggiato.

Sulla base di tali considerazioni, devono ritenersi prive di rilevanza tutte le ulteriori censure sollevate dal ricorrente con il motivo in esame (in relazione all’incongrua quantificazione del risarcimento del danno da calunnia originariamente riconosciuto dal primo giudice), siccome superate dalla rilevata correttezza della declaratoria di prescrizione della rivendicazione risarcitoria avanzata dal P..

5. Con il terzo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per omessa decisione su un punto decisivo della controversia, nonchè per violazione degli artt. 2934 c.c. e segg. e degli artt. 112,115 e 129 c.p.c., per avere la corte d’appello erroneamente ritenuto prescritto il diritto del P. alla restituzione della parcella pagata al proprio difensore nel processo penale, non avendone le controparti mai eccepito la prescrizione.

6. La censura è infondata.

Osserva il collegio come la restituzione delle somme corrisposte dal P. al proprio difensore in relazione al procedimento penale avviato a seguito della denuncia per truffa da parte del supposto calunniatore, costituisce una tra le (altre) voci riferite alle conseguenze dannose subite dal P. a seguito di detta denuncia calunniosa, con la conseguente sufficienza, ai fini della valida eccezione di prescrizione, della relativa sollevazione in relazione alla pretesa risarcitoria complessiva, a nulla rilevando, ai fini della decorrenza della prescrizione, l’eventuale sussistenza di conseguenze dell’originario fatto illecito temporalmente successive al compimento dello stesso.

7. Con il quarto motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 329 c.p.c. e art. 2940 c.c., nonchè dell’art. 2934 c.c. e artt. 112,115 e 329 c.p.c., nonchè per omesso esame di fatti decisivi controversi, per avere la corte territoriale erroneamente trascurato di rilevare la mancata contestazione, ad opera di controparte, della parcella relativa alla prestazione professionale resa dal P. in favore (del dante causa) della controparte, così omettendo di decidere (in assenza di alcuna eccezione di prescrizione) su tale aspetto della controversia, da ritenersi non contestato, così come neppure impugnato il capo della condanna sul punto pronunciata dal giudice di primo grado.

8. Il motivo è inammissibile.

Osserva il collegio come, sulla base del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione (valido, tanto per il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, quanto per quello previsto dal n. 3 della stessa disposizione normativa), il ricorrente che denunzi tali vizi, non può limitarsi a specificare soltanto la singola norma di cui, appunto, si denunzia la violazione, o a dedurre l’omesso esame di fatti asseritamente decisivi, essendo viceversa tenuto a indicare gli elementi fattuali in concreto condizionanti gli ambiti di operatività di detta violazione o delle omissioni concretamente denunciate.

Siffatto onere sussiste anche allorquando il ricorrente affermi che determinate circostanze debbano reputarsi sottratte al thema decidendum, perchè non contestate (cfr. Sez. 5, Ordinanza n. 17253 del 23/07/2009, Rv. 609289), con la conseguenza che, in tali ipotesi, il ricorrente medesimo è tenuto a indicare nel ricorso elementi idonei ad attestare, in relazione al rivendicato diritto, la completezza dell’atto introduttivo della controversia e la mancata contestazione del contenuto di tale atto, non potendo limitarsi al generico richiamo della mancata contestazione o alla parziale e arbitraria riproduzione di singoli periodi estrapolati dagli atti processuali della controparte.

E’ appena il caso di ricordare come tali principi abbiano ricevuto l’espresso avallo della giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte (cfr, per tutte, Sez. Un., Sentenza n. 16887 del 05/07/2013), le quali, dopo aver affermato che la prescrizione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, è finalizzata alla precisa delimitazione del thema decidendum, attraverso la preclusione per il giudice di legittimità di porre a fondamento della sua decisione risultanze diverse da quelle emergenti dagli atti e dai documenti specificamente indicati dal ricorrente (onde non può ritenersi sufficiente in proposito il mero richiamo di atti e documenti posti a fondamento del ricorso nella narrativa che precede la formulazione dei motivi: Sez. Un., Sentenza n. 23019 del 31/10/2007, Rv. 600075), hanno poi ulteriormente chiarito che il rispetto della citata disposizione del codice di rito esige che sia specificato in quale sede processuale nel corso delle fasi di merito il documento o l’atto processuale ritenuto rilevante, pur eventualmente individuato in ricorso, risulti prodotto, dovendo poi esso essere anche allegato al ricorso a pena d’improcedibilità, in base alla previsione del successivo art. 369, comma 2, n. 4 (cfr. Sez. Un., Sentenza n. 28547 del 02/12/2008 (Rv. 605631); con l’ulteriore precisazione che, qualora il documento o l’atto sia stato prodotto nelle fasi di merito e si trovi nel fascicolo di parte, l’onere della sua allegazione può esser assolto anche mediante la produzione di detto fascicolo, ma sempre che nel ricorso si specifichi la sede in cui il documento è rinvenibile (cfr. Sez. Un., Ordinanza n. 7161 del 25/03/2010, Rv. 612109, e, con particolare riguardo al tema dell’allegazione documentale, Sez. Un., Sentenza n. 22726 del 03/11/2011, Rv. 619317).

Nella violazione di tali principi deve ritenersi incorso l’odierno ricorrente con il motivo d’impugnazione in esame, atteso che lo stesso, nel dolersi che la corte d’appello abbia erroneamente trascurato la mancata eccezione, ad opera delle controparti, della prescrizione del diritto del P. al conseguimento della parcella relativa alla prestazione professionale dallo stesso svolta in favore di A.A., nonchè la mancata impugnazione, da parte degli odierni controricorrenti, del capo della sentenza di primo grado contenente la condanna degli stessi al pagamento anche di tale parcella (il cui corrispondente credito del P. è stato successivamente dichiarato estinto per prescrizione dal giudice d’appello), ha tuttavia omesso di fornire alcuna indicazione circa i documenti (e il relativo contenuto) e gli atti processuali in forza dei quali la corte territoriale avrebbe in tal senso errato, con ciò precludendo a questa Corte la possibilità di apprezzare la concludenza delle censure formulate al fine di giudicare la fondatezza del motivo d’impugnazione proposto.

9. Con il quinto e il sesto motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 91 c.p.c., del D.M. n. 142 del 2012 e del D.M. n. 55 del 2014, nonchè dell’art. 310 c.p.c., per avere la corte territoriale erroneamente disposto la regolazione delle spese del giudizio relativo al doppio grado del giudizio di merito, sulla base di un tariffario errato e del riconoscimento di esborsi mai sostenuti dalle controparti.

10. Entrambe le censure sono inammissibili.

Al riguardo, osserva il collegio come alla fattispecie in esame debba trovare applicazione il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, ai sensi del quale costituisce uno preciso onere del ricorrente in cassazione, a pena d’inammissibilità del ricorso, specificare analiticamente le voci tariffarie e gli importi in ordine ai quali il giudice di merito sarebbe incorso in errore, nonchè le singole spese contestate o dedotte come omesse, in modo da consentire il controllo di legittimità senza necessità di ulteriori indagini (Sez. 6-3, Ordinanza n. 24635 del 19/11/2014, Rv. 633262-01; Sez. 1, Sentenza n. 14542 del 04/07/2011, Rv. 618601-01).

In particolare, in tema di controllo della legittimità della pronuncia di condanna alle spese del giudizio, deve ritenersi inammissibile il ricorso per cassazione che si limiti alla generica denuncia dell’avvenuta violazione del principio di inderogabilità della tariffa professionale o del mancato riconoscimento di spese che si asserisce essere state documentate, atteso che, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, devono essere specificati gli errori commessi dal giudice e precisate le voci di tabella degli onorari, dei diritti di procuratore che si ritengono violate, nonchè le singole spese asseritamente non riconosciute (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 14744 del 26/06/2007, Rv. 597890-01).

Ciò posto, non avendo l’odierno ricorrente in alcun modo provveduto a tale analitica specificazione delle voci tariffarie e degli importi in ordine ai quali il giudice d’appello sarebbe incorso in errore, nè avendo esposto le singole spese contestate o dedotte come omesse, le odierne censure devono ritenersi inammissibili.

11. Sulla base delle argomentazioni che precedono, rilevata la complessiva infondatezza dei motivi di ricorso proposti dal P., dev’essere pronunciato il rigetto del ricorso, con la condanna del ricorrente al rimborso, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio di legittimità, secondo la liquidazione di cui al dispositivo.

PQM

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 7.200,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 6 luglio 2017.

Depositato in Cancelleria il 21 settembre 2017

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