Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21930 del 21/09/2017


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Cassazione civile, sez. III, 21/09/2017, (ud. 12/06/2017, dep.21/09/2017),  n. 21930

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 254/2015 proposto da:

L.B.M., B.G., S.A.NINO, elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA VALADIER 53, presso lo studio dell’avvocato

CATALDO MARIA DE BENEDICTIS, rappresentati e difesi dall’avvocato

CALOGERO TERMINE giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

BANCA POPOLARE SANT’ANGELO SOC. COOP. ARL in persona del legale

rappresentante pro tempore Dr. N.E., elettivamente

domiciliata in ROMA, CORSO TRIESTE, 199, presso lo studio

dell’avvocato ANTONIETTA GIANNUZZI, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato GIUSEPPE VACCARO giusta procura speciale in

calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

CURATELA FALLIMENTO (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 1746/2013 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 22/11/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/06/2017 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto,

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. B.G., L.B.M. e S.A. hanno proposto ricorso per cassazione contro la Banca Popolare Santangelo, s.c.a.r.l. e la Curatela del Fallimento della S.c.a.r.l. (OMISSIS), avverso la sentenza della Corte d’Appello di Palermo del 22 novembre 2013, che ha rigettato l’appello da essi ricorrenti proposto, congiuntamente a C.P., contro la sentenza del Tribunale di Sciacca dell’aprile 2007, la quale, provvedendo su tre giudizi di opposizione, separatamente proposti, il primo dal B., dal S. e dal C., unitamente ad altro ingiunto, il secondo dal L.B. e da altro ingiunto, il terzo da altri due ingiunti, contro un decreto ingiuntivo, ottenuto dalla Banca in forza di una fideiussione rilasciata dagli ingiunti in favore della Cantina Sociale, in relazione ad un contratto di apertura di credito in conto corrente, aveva, nel contraddittorio della Cantina chiamata in causa e previa riunione delle separate opposizioni: a) disposto la revoca del decreto, b) dichiarato la nullità di una clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi contenuta nel regolamento per le aperture di credito; c) condannato gli opponenti al pagamento della somma ingiunta di Lire 1.965.000.000 oltre accessori; d) rigettato le domande risarcitorie degli opponenti contro l’opposta; e) dichiarato inammissibile la riconvenzionale dei qui ricorrenti e del C. contro la Cantina.

2. Al ricorso, che propone quattro motivi, ha resistito con controricorso la Banca intimata, mentre la Curatela Fallimentare non ha svolto attività difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il Collegio in via preliminare rileva che il ricorso non è stato notificato al C., nei cui confronti è stata pronunciata la sentenza impugnata.

Tuttavia, essendo la sua posizione riconducibile all’art. 332 c.p.c. ed essendo ormai preclusa l’impugnazione nei suoi confronti e non risultando, d’altro canto, che il medesimo l’abbia esercitata, la mancata notificazione non esige che si provveda ai sensi di detta norma.

2. Con il primo motivo di ricorso si deduce “violazione o falsa applicazione della L.R. Sicilia 22 dicembre 2005, n. 19, art. 20, comma 11, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

Il motivo censura la sentenza palermitana, là dove ha escluso che della L.R. Siciliana n. 19 del 2005, suddetto art. 20, comma 11, potesse riferirsi all’operazione creditoria cui si collegava la fideiussione azionata in giudizio nei confronti dei ricorrenti e, dunque, potesse incidere sull’esigibilità del credito.

2.1. Il motivo è inammissibile.

La ragione di inammissibilità è che esso impugna solo una delle due rationes decidendi enunciate dalla Corte d’Appello per disattendere l’eccezione d’inesigibilità del credito.

Infatti, la sentenza impugnata, dopo avere enunciato a pagina 6 l’interpretazione della legge regionale, già affermata dal Tribunale, nel senso che essa non potesse trovare applicazione, in quanto a suo dire la norma invocata sarebbe stata applicabile solo alle operazioni creditorie ed ai debiti correlati alla crisi agricola e non anche a soggetti che avessero debiti già scaduti, ha osservato, a partire dalle ultime quattro righe della stessa pagina che: “Sotto altro profilo deve rilevarsi che la statuizione di condanna, di cui alla sentenza appellata, deve essere, comunque, confermata anche per le ulteriori ragioni appresso specificate. Dal momento che il decreto ingiuntivo opposto è stato revocato e che il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, anche quando è proposto allo scopo di sostenere la illegittimità del ricorso alla procedura sommaria, instaura, comunque, un giudizio di merito sul credito vantato e fatto valere dal ricorrente con la richiesta – che assume veste di domanda – del decreto di ingiunzione, ed il relativo giudizio, anche quando il decreto sia revocato sul presupposto che non poteva essere concesso, si conclude con una pronuncia di merito sulla dedotta pretesa, pronuncia alla quale accede quella sulle spese, che è regolata dai principi di cui all’art. 91 c.p.c. e segg. (Cass. civ., sez. 2, 17/02/2004, n. 2997), atteso che sussiste, in ogni caso, la “attuale” esigibilità del credito, comprensivo di capitale e interessi via via maturati (avendo gli appellanti dedotto la sussistenza di una proroga solamente sino alla data del giugno 2007), la statuizione di condanna, sotto questo profilo, non può, oggi, che essere confermata”.

2.2. Ebbene, questa ratio decidendi è del tutto autonoma ed alternativa rispetto a quella prospettata sulla base dell’esegesi della legge regionale contestata dal motivo, atteso che, pur supponendo la validità di quella che in esso si prospetta, sottolineò che comunque essa avrebbe giustificato solo l’inesigibilità del credito fino alla data indicata, con la conseguenza che dopo di essa l’esigibilità sussisteva e tanto giustificava il rigetto dell’opposizione al decreto ingiuntivo. Sebbene, deve dirsi, per una circostanza che, situandosi nel giugno del 2007 si collocava dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, che risaliva all’aprile 2007.

Si tratta di una ratio decidendi che, al di là della giusta conseguenza inferitane dalla Corte territoriale – con sostanziale applicazione della regola secondo cui le condizioni di fondatezza nel merito della domanda debbono sussistere al momento della decisione nel senso di confermare l’accoglimento della domanda della Banca, proposta con il ricorso monitorio e nel contempo disattendere l’appello sul punto, avrebbe dovuto in ogni caso essere impugnata.

La sua mancata impugnazione ne ha determinato il passaggio in cosa giudicata e ciò impedisce di scrutinare il motivo di ricorso, rendendolo inammissibile. E tanto, perchè la detta cosa giudicata impedisce di scrutinare la prima ratio fondata sull’esegesi della legge regionale, giusta o sbagliata che essa sia stata (così Cass. n. 14740 del 2005, secondo cui: “Allorquando la sentenza assoggettata ad impugnazione sia fondata su due diverse “rationes decidendi”, idonee entrambe a giustificarne autonomamente le statuizioni, la circostanza che l’impugnazione sia rivolta soltanto contro una di esse, e non attinga l’altra, determina una situazione nella quale il giudice dell’impugnazione (ove naturalmente non sussistano altre ragioni di rito ostative all’esame nel merito dell’impugnazione) deve prendere atto che la sentenza, in quanto fondata sulla “ratio decidendi” non criticata dall’impugnazione, è passata in cosa giudicata e desumere, pertanto, che l’impugnazione non è ammissibile per l’esistenza del giudicato, piuttosto che per carenza di interesse.”; ricostruzione questa che sembra preferibile rispetto all’altra, già enunciata da Cass., Sez. Un., n. 16602 del 2005 e che, comunque, conduce al medesimo risultato, secondo cui: “Nel caso in cui venga impugnata con ricorso per cassazione una sentenza (o un capo di questa) che si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinchè si realizzi lo scopo proprio di tale mezzo di impugnazione, il quale deve mirare alla cassazione della sentenza, “in toto” o nel suo singolo capo, per tutte le ragioni che autonomamente l’una o l’altro sorreggano. Ne consegue che è sufficiente che anche una sola delle dette ragioni non abbia formato oggetto di censura, ovvero, pur essendo stata impugnata, sia respinta, perchè il ricorso o il motivo di impugnazione avverso il singolo capo di essa, debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni poste a base della sentenza o del capo impugnato”).

2.3. Peraltro, il Collegio rileva che l’esegesi dei giudici siciliani sulla norma della legge regionale nell’enunciare l’altra ratio decidendi appariva corretta e tale da rendere irrilevante una questione che, a seguire l’esegesi proposta dai ricorrenti, si sarebbe configurata come rilevante ai fini della soluzione del giudizio, sotto il profilo della dubbia legittimità costituzionale della norma in quanto esprimente una disciplina incidente su rapporti di diritto privato, con violazione della notoria riserva alla legislazione statale della disciplina di quei rapporti (questione che non a caso era stata prospettata una prima volta in via principale dal Commissario dello Stato per la Regione Siciliana con riferimento ad una legge regionale in corso di promulgazione e su cui la Corte Costituzionale, con sentenza n. 212 del 2001, dichiarò cessata la materia del contendere, per mancata promulgazione della legge con la disciplina impugnata; ed altre due volte con riferimento a leggi regionali antecedenti e che la Corte Costituzionale – con le ordinanze nn. 339 del 2006 e 345 del 2008 – non decise nel merito in quanto i giudici rimettenti avevano omesso di motivare sulla rilevanza della questione sui giudizi di cui erano investiti).

3. Con un secondo motivo si denuncia “violazione di legge ed omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5) in relazione agli artt. 2384,1398 e 1309 c.c.”.

Vi si imputa alla sentenza impugnata di non avere considerato le eccezioni prospettate dai ricorrenti sotto vari profili evocativi delle norme indicate riguardo alla validità ed efficacia di un atto di ricognizione di debito del 31 gennaio 2000 intervenuto fra la Banca e la Cantina Sociale, nel quale le parti del rapporto garantito si erano date atto reciprocamente del permanere della validità ed efficacia dei rapporti fideiussori.

3.1. Il motivo è inammissibile.

Queste le ragioni.

La sentenza impugnata, nell’esaminare quello che individua come secondo motivo di appello, si è occupata, disattendendolo, della questione che esso poneva, lamentando che il primo giudice non avesse ritenuto “fondate le eccezioni di invalidità delle fideiussioni per abusivo riempimento nonchè ex artt. 1427 e 1428 c.c., per carenza dell’indicazione dell’importo massimo garantito e successivo riempimento contra pacta dei contratti stessi”.

E’ evidente che la prospettazione del secondo motivo di appello supponeva che la causa giustificativa del credito nei confronti dei ricorrenti fosse la fideiussione da ciascuno rilasciata e non l’atto di ricognizione cui fa riferimento il motivo in esame.

La Corte palermitana si è, poi, occupata di questo atto esaminando il terzo motivo di appello, con cui i ricorrenti avevano prospettato un’eccezione di estinzione delle fideiussioni per novazione oggettiva del rapporto obbligatorio intervenuta fra la Banca e la debitrice principale.

Esaminando tale motivo, il quale tendeva a sostenere, in buona sostanza, che con quell’atto fosse venuta meno la posizione di fideiussori dei ricorrenti, l’ha disatteso, escludendo, con una motivazione enunciata nella pagina 10 e fino a metà della pagina successiva, che esso avesse avuto carattere novativo e, dunque, fosse divenuto la nuova fonte del credito della Banca nei confronti della Cantina Sociale, con la conseguenza del venir meno delle fideiussioni.

Ne è derivato che con tale motivazione la Corte territoriale ha ribadito che la fonte della pretesa fatta valere contro i ricorrenti correttamente era stata individuata nelle fideiussioni, che non si erano in alcun modo estinte.

Si comprende allora la ragione per cui quella Corte si è disinteressata della questione che con il motivo di ricorso in esame le si imputa di non avere esaminato, cioè quella della pretesa nullità ed inefficacia dell’atto ricognitivo: invero, una volta esclusane la natura novativa e, quindi, ribadito che la fonte della pretesa creditoria nei confronti dei ricorrenti, cioè quella derivante dalle fideiussioni, continuava ad essere esistente, ben si comprende perchè l’ulteriore questione della invalidità ed inefficacia dell’atto ricognitivo fosse divenuta priva di rilevanza. E’ sufficiente osservare che, attribuita all’atto ricognitivo efficacia non novativa della fonte dell’obbligazione principale ed esclusa l’incidenza di esso sulle fideiussioni, esse, come fonti delle obbligazioni di garanzia restavano del tutto insensibili rispetto all’atto ricognitivo.

Mentre, solo se fosse stata riconosciuta all’atto de quo efficacia novativa e nel contempo, è da dire, l’efficacia di avere determinato la persistenza delle fideiussioni ma con riguardo ad una obbligazione principale nuova, sarebbe stato necessario esaminare la prospettazione che i qui ricorrenti assumono non considerata, riguardo all’invalidità ed inefficacia dell’atto in quanto dispositivo di tale effetto.

Le svolte considerazioni evidenziano, dunque, che il secondo motivo di ricorso è inammissibile, perchè si duole dell’omesso esame di una questione (tra l’altro evocando erroneamente il n. 5 anzichè il n. 4 dell’art. 360 c.p.c., sul versante della violazione dell’art. 112 c.p.c.) che, in realtà, è rimasta assorbita dalla decisione resa dalla Corte siciliana sul terzo motivo di appello. Decisione di cui il ricorso in esame si è disinteressata e su cui si è formato giudicato interno.

4. Con il terzo motivo si denuncia “violazione o falsa applicazione dell’art. 1956 c.c. e degli artt. 1175 e 1375 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5) in relazione agli artt. 1956,1175 e 1375 c.c.”.

L’illustrazione del motivo inizia in modo singolare.

Infatti, a pagina 21 riporta la motivazione della sentenza di appello sul rigetto del quarto motivo, che la sentenza dice avere riguardato “il contestato rigetto dell’eccezione di estinzione delle garanzie prestate, ai sensi dell’art. 1956 c.c., per avere la banca concesso ulteriore credito”, invertendo l’ordine delle due proposizioni con cui la Corte palermitana ha enunciato detta motivazione.

La sentenza si è espressa, osservando in primo luogo che: “occorre osservare che il fideiussore che chiede la liberazione della prestata garanzia, invocando l’applicazione dell’art. 1956 c.c., ha l’onere di provare, ai sensi dell’art. 2697 c.c., l’esistenza degli elementi richiesti a tal fine, e cioè che successivamente alla prestazione della fideiussione per obbligazioni future, il creditore, senza la sua autorizzazione, abbia fatto credito al terzo pur essendo consapevole dell’intervenuto peggioramento delle sue condizioni economiche (vedi Cass. n. 2524/06)”.

Di seguito ha, poi, soggiunto: “Orbene, come correttamente argomentato dal primo giudice, nella fattispecie in esame la banca si è limitata ad agire per il debito pregresso, dovendosi che in forza del citato atto rogato il 31.1.2000 la banca abbia concesso un “ulteriore” mutuo alla società debitrice principale”.

Nel motivo si inverte l’ordine delle proposizioni e, quindi, non ci si preoccupa di criticare l’affermazione finale che bene si fosse esclusa la concessione di un “ulteriore” mutuo.

Non solo: si omette qualsiasi indicazione del tenore della sentenza di primo grado, la cui motivazione la Corte territoriale ha dichiarato di condividere e, nell’indicare il contenuto del motivo di appello si riporta un passo di esso, dal quale non emerge in alcun modo che si fosse allegato come e perchè con l’atto ricognitivo si fosse fatto credito alla debitrice principale, siccome esige il paradigma dell’art. 1956 c.c., alludendosi invece solo ad un “mutamento peggiorativo delle condizioni economiche della debitrice principale”.

Nella successiva illustrazione resta non solo del tutto indimostrato che con l’atto ricognitivo si fosse concesso nuovo credito, ma, inoltre, del tutto contraddittoriamente si discute di un preteso carattere non vantaggioso dell’atto anche sotto il profilo delle garanzie concesse dalla debitrice.

In tal modo si svolgono argomenti che prescindono del tutto dal thema introdotto dal motivo e che avrebbero supposto, cosa esclusa dalla Corte territoriale e non posta in discussione, che l’atto de quo fosse stato non solo novativo, ma esso stesso fonte dell’obbligazione fideiussoria.

In ogni caso, non solo non si dimostra in alcun modo, ma nemmeno si allega che, al contrario di quanto affermato dalla Corte insulare, fosse stato concesso nuovo credito alla Cantina Sociale e che di esso fossero stati chiamati a rispondere i ricorrenti.

Il motivo è, dunque, inammissibile, alla stregua del seguente principio di diritto: “Il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, in quanto per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4″ (principio già enunciato da Cass. n. 359 del 2005 e, quindi, ripetute volte da successive decisioni ed ora condiviso e riaffermato da Cass. sez. un. n. 16598 del 2016).

5. Con il quarto motivo ci si duole di “violazione o falsa applicazione dell’art. 61 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

Il motivo è manifestamente inammissibile.

I ricorrenti, pur premettendo, sebbene riproducendolo non alla lettera, il contenuto della motivazione della sentenza impugnata là dove, concludendo l’esame del settimo motivo di appello, con cui i ricorrenti si erano doluti della mancata ammissione della c.t.u. contabile al fine di determinare la somma in concreto dovuta, ha rilevato che la critica alla motivazione resa dal primo giudice era priva di specificità e chiarezza, si disinteressano del suo significato, che è stato espressamente indicato dalla sentenza impugnata come giustificativo dell’inammissibilità del motivo di appello ai sensi dell’art. 342 c.p.c., siccome essa ha enunciato ed argomentato ampiamente dalle ultime cinque righe della pagina 12 sino alle prime quattro della pagina 14.

Invece di dimostrare, al di là della mancata evocazione della violazione dell’art. 342 c.p.c., che la Corte palermitana sia incorsa in erronea applicazione di tale norma, il motivo si occupa della motivazione resa dal Tribunale, che, ad abundantiam la Corte d’Appello ha condiviso, prima di ribadire che l’appello riguardo ad essa non era specifico, ed omette di spiegare come e perchè il motivo di appello su di esso fosse stato svolto nel rispetto della stessa norma.

Ne segue l’inammissibilità del motivo, perchè esso non impugna la ratio decidendi imperniata sull’art. 342 c.p.c..

6. L’inammissibilità di tutti i motivi induce quella del ricorso.

Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55 del 2014. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,comma 1-quater, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

PQM

 

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna i ricorrenti alla rifusione alla resistente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in euro ottomila, oltre duecento per esborsi, le spese generali al 15% e gli accessori come per legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 12 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 21 settembre 2017

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