Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21901 del 09/10/2020

Cassazione civile sez. VI, 09/10/2020, (ud. 24/09/2020, dep. 09/10/2020), n.21901

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCCI Mauro – Presidente –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – rel. Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7488-2019 proposto da: c,

S.M., M.B.R.,

M.F.B., elettivamente domiciliati in ROMA, P.ZA DELLA BALDUINA 59,

presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO MARCONE, rappresentati e

difesi dagli avvocati FRANCESCO BENEDETTO MARROCCO, ANTONIO GALARDO;

– ricorrenti-

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, (C.F. (OMISSIS)), in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5685/16/2018 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONALE del LAZIO, depositata il 04/09/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 24/09/2020 dal Consigliere Relatore Dott. CAPRIOLI

MAURA.

 

Fatto

Ritenuto che:

La CTR del Lazio, con sentenza nr. 5685/2018 depositata in data 4.9.2018 adita in sede di rinvio, accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza nr. 127/2012 della CTP di Roma con cui era stato accolto il ricorso proposto da M.F.B., S.M. e M.B.R. contro l’avviso di liquidazione relativo all’imposta complementare del 10%.

Rilevava la correttezza dell’operato dell’Ufficio ritenendo esatto il calcolo dell’Ufficio il quale aveva considerato separata la tassazione del denaro del defunto in quanto oggetto del deposito con correlato diritto di credito verso le banche e come tale non rientrante nella previsione del T.U. n. 346 del 1990, art. 9, comma 2, ma del D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 18, riguardante i crediti.

Avverso tale sentenza M.F.B., S.M. e M.B.R. propongono ricorso per cassazione affidato a 4 motivi illustrati da memoria, cui resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

Diritto

Considerato che:

Con il primo motivo denunciano l’errata qualificazione giuridica della fattispecie e la non corretta interpretazione del T.U. n. 346 del 1990, art. 9.

Lamentano, in particolare, che non sarebbe stata corretta la pretesa del Fisco di calcolare la percentuale presuntiva del 10% sull’attivo ereditario tenendo presente anche il valore dichiarato dall’erede per denaro e mobili compresi nell’asse ereditario.

Sostengono, pertanto, che alla quota della ricorrente S. non avrebbe dovuto essere applicata la presunzione del 10% trattandosi di quota di denaro. Con un secondo motivo denunciano l’errata qualificazione giuridica della fattispecie e la non corretta interpretazione del T.U. n. 346 del 1990, art. 9.

Osservano che in presenza di un valore dichiarato inferiore a quello presunto l’imposta principale di successione avrebbe dovuto essere calcolata per quanto riguarda i beni mobili sul valore presunto mentre l’imposta complementare avrebbe dovuto essere liquidata sulla differenza fra valore presunto e quello dichiarato sicchè nel caso in esame non vi sarebbe stato spazio per alcuna presunzione.

Rilevano come il richiamo operato dalla CTR al T.U. n. 346 del 1990, art. 18, non sarebbe pertinente riguardando una fattispecie diversa della base imponibile relativa ai crediti.

Con un terzo motivo denunciano la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti.

Sostengono che le medesime doglianze di cui ai primi due motivi di ricorso possono essere riproposte sotto un diverso angolo visuale come sindacato sulla ricostruzione del fatto operata dalla CTR.

Precisano che con tale motivo non si è denunciato la difformità di giudizio nell’apprezzamento delle prove rispetto a quello effettuato dal giudice di merito ma l’insufficiente motivazione su fatti emergenti dai documenti in atti Con l’ultimo motivo deducono la nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per omesso esame ex art. 112 c.p.c.

Sostengono che la CTR avrebbe omesso di pronunciarsi sul fatto che alla coerede S.M. era stato attribuito solo denaro sicchè non poteva farsi applicazione della presunzione relativa ai soli eredi cui erano attribuiti i beni immobili.

Il primo motivo è infondato con l’assorbimento del secondo.

La CTR ha correttamente escluso l’applicazione del richiamato art. 9 alla fattispecie in esame.

In effetti, come questa Corte ha già avuto occasione di precisare, la ratio della disposizione contenuta al D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 9, comma 2, va ravvisata nella necessità di evitare il facile occultamento di denaro e gioielli ecc.. I quali, invero, potrebbero pervenire al de cuius fino al momento della sua morte, senza quindi trovar riscontro in inventari precedenti e diversi da quello di cui all’art. 769 c.p.c. e ss.(Cass. 12935/2013).

Invero il D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 9, stabilisce: “si considerano compresi nell’attivo ereditario denaro, gioielli e mobilia per un importo pari al dieci per cento del valore globale netto imponibile dell’asse ereditario” e simile presunzione è superata, o per meglio dire è resa superflua, ove nel patrimonio del defunto facciano parte denaro, gioielli e mobilia per un importo pari o superiore.

Appare evidente come la norma faccia riferimento a denaro, gioielli e mobilia di diretta pertinenza del defunto; in particolare il denaro rientra nell’ambito di applicazione della norma stessa solo quando su di esso il defunto esercitasse un diritto di proprietà e non quando formasse oggetto di un diritto di credito, contemplato invece nel D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 18.

Nel caso di denaro che risulta oggetto di deposito presso una banca la proprietà del denaro spetta alla banca e il cliente gode di un diritto di credito (artt. 1834 e 1852 c.c.), e quindi il saldo del deposito in conto corrente costituisce un credito del defunto e non una sua proprietà.

Del resto la ratio del D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 9, è quella di consentire un accertamento presuntivo di beni di difficile identificazione e valutazione, facilmente sottraibili all’attenzione del fisco (come il denaro liquido che si trovi in casa) e dunque non si attaglia ai depositi di conto corrente che possono essere accertati e documentati presso l’istituto di credito (Cass. 19160/2003) sicchè per essi come correttamente rilevato dalla CTR trova applicazione il T.U. n. 346 del 1990, art. 18.

Il terzo motivo è inammissibile.

La censura, priva di riferimenti ad uno specifico fatto storico decisivo e relativa ai giudizio in diritto delta CTR, è dei tutto estranea alla formulazione (“omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”) dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come novellata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile anche al giudizio di cassazione in materia tributaria (Cass., Sez. U., 07/04/2014, a n. 8053) e, in relazione alla data di pubblicazione della sentenza impugnata, vigente nel caso di specie.

Con riguardo all’ultimo motivo se ne deve rilevare parimenti l’inammissibilità. Giova infatti ricordare che per poter utilmente dedurre, in sede di legittimità, un vizio di omessa pronunzia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., è necessario, da un lato, che al giudice del merito siano state rivolte una domanda od un’eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si sia resa necessaria ed ineludibile, e, dall’altro, che tali istanze siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primis, la ritualità e la tempestività ed, in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi (Cass. n. 25299 del 2014).

E’, quindi, inammissibile, per violazione del criterio dell’autosufficienza, il ricorso per cassazione col quale si lamenti la mancata pronuncia del giudice di appello su una domanda se la stessa non sia stata compiutamente riportata nella sua integralità nel ricorso, sì da consentire alla Corte di verificare che le questioni sottoposte non siano nuove e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte (Cass. n. 17049 del 2015).

Nel caso di specie, i ricorrenti si sono limitati a dedurre, in ricorso, di aver proposto, nel corso del giudizio, le domande delle quali lamentano, appunto, l’omessa pronuncia (v. il ricorso, p. 10) senza, tuttavia, riprodurne il contenuto negli esatti termini in cui le stesse erano state formalmente proposte. (Cass. 21244/2019).

Alla stregua delle considerazioni sopra esposte il ricorso va rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo,

Sussistono i presupposti per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti al pagamento delle spese di lite che si liquidano in complessivi Euro 1500,00 oltre S.P.A..

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 24 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 9 ottobre 2020

 

 

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