Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21898 del 21/10/2011

Cassazione civile sez. II, 21/10/2011, (ud. 21/09/2011, dep. 21/10/2011), n.21898

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ODDO Massimo – Presidente –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

Dott. MIGLUCCI Emilio – Consigliere –

Dott. MATERA Lina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 1949/2006 proposto da:

SPECOGNA & FIGLI SPA (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso

la CORTE DI CASSAZIONE ex lege, rappresentato e difeso dall’avvocato

BELTRAME Alessandro;

– ricorrente –

contro

L.A., L.G.;

– intimati –

sul ricorso 2685/2006 proposto da:

L.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA A. CHINOTTO 1, presso lo studio dell’avvocato PRASTARO

ERMANNO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MONAI

CARLO;

– controricorrente ricorrente incidentale –

contro

SPECOGNA & FIGLI SPA in persona del legale rappresentante

pro

tempore, L.G.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 715/2004 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 13/11/2004;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

21/09/2011 dal Consigliere Dott. LUIGI PICCIALLI;

udito l’Avvocato MONAI Carlo difensore della resistente che si

riporta agli atti;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Libertino Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto notificato il 18.7.94 N.A. e G., lamentando la demolizione parziale e l’apertura di tre varchi in uno muro delimitante la loro proprietà dalla Via (OMISSIS), ad opera della “Specogna e figli” s.p.a., proprietaria del fondo retrostante, facendo seguito ad una domanda di reintegrazione nel possesso in ordine alla quale il locale Pretore si era dichiarato carente di giurisdizione, citarono detta società al giudizio del Tribunale di Udine, al fine di sentirla condannare al risarcimento dei danni, in misura di L. 12.000.000.

Costituitasi la convenuta, contestò il fondamento della domanda, eccependo di avere acquistato la proprietà del muro unitamente a quella del retrostante terreno,in subordine di averlo usucapito, e comunque di aver operato in base a regolare concessione edilizia, conforme alle previsioni del locale strumento urbanistico, subordinatamente contestando sussistenza ed entità del danno.

Istruita documentalmente e con consulenza tecnica la causa, l’adito tribunale con sentenza n. 295/02 rigettò la domanda, con il carico delle spese.

Ma a seguito dell’appello degli attori, resistito dall’appellata la Corte di Trieste, con sentenza 27.10-13.11.04, in riforma di quella di primo grado, accoglieva la domanda, liquidando il danno, pari al costo di ricostruzione, in Euro 3.563,55, con riferimento all’epoca di redazione della perizia (febbraio 1999), con ulteriore rivalutazione ed interessi legali, decorrenti sul capitale devalutato alla data dell’evento (dicembre 1991) e, via, via rivalutatole spese del doppio grado di giudizio venivano integralmente compensate, eccetto quelle della consulenza tecnica, lasciate a carico dell’appellata.

Riteneva la corte giuliana che l’appartenenza del muro in questione agli attori fosse provata, come evidenziato dal c.t.u., da un atto pubblico di acquisto, da parte dei loro danti causa, risalente al 6.6.1773, riconosciuta da una dante causa della convenuta in un successivo atto del 4.3.1878, nonchè confermata dall’implicito riconoscimento (riferito da un teste nel precedente giudizio possessorio) desumibile dalla richiesta, rivolta ai L. dalla società convenutaci aprire un varco nel muro stesso; la corte considerava, per converso, irrilevanti le circostanze che la “piazzetta” antistante risultasse iscritta nell’elenco delle strade comunali e che le previsioni del piano particolareggiato edilizio comunale contemplassero il parziale abbattimento del muro, non risultando alcun provvedimento di acquisizione dello stesso da parte del Comune.

Contro tale sentenza la società convenuta ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, illustrati con successiva memoria.

Ha resistito L.A. con controricorso contenente ricorso incidentale.

Non ha svolto attività difensiva in questa sede L.G..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va preliminarmente disposta la riunione dei ricorsi ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

Si respinge l’eccezione d’improcedibilità ex ar. 369 c.p.c., del ricorso principale, sollevata in udienza dal difensore del controricorrente, tenuto conto che il deposito in cancelleria dell’impugnazione e dei prescritti allegati, ai sensi dell’art. 134 c.p.c., comma 5, si considera eseguito alla data di spedizione del relativo plico postale, che nella specie risulta avvenuta in data 21.12.05, sedicesimo giorno successivo a quello della notificazione, eseguita il 5.12.05, tempestivamente dunque in relazione al termine di gg. 20 prescritto.

Con il primo motivo del ricorso principale si lamenta, con richiamo agli artt. 324 e 340 c.p.c., “violazione del principio attinente la formazione del giudicato interno, del principio tantum devolutum quantum appellatum, detta specificità dei motivi d’appello”, perchè la corte non avrebbe tenuto conto che il primo giudice aveva dichiarato che il muro era stato acquisito in proprietà dal Comune per “accessione invertita” e che tale statuizione, non oggetto di alcuna specifica censura nell’appello, sarebbe passata in giudicato.

Il motivo è infondato.

Dall’esame degli atti, consentita dalla natura processuale delle censure,si rileva: a) che il primo giudice aveva ritenuto il muro in contestazione “muro di confine, ormai estraneo all’originaria proprietà in cagione di interventi pubblici – atti oblatori od accessioni invertite – che hanno cagionato una irreversibile mutazione”, successivamente osservando che lo stesso, in quanto separante “la pubblica via dalla piazzetta antistante il Palazzo (OMISSIS)…situato in mezzo a due fondi comunali “avrebbe costituito “loro accessorio”; b) che, nell’atto di appello (pag. 11) i L. dedussero che “anche ipotizzando che si trattasse di un muro di cinta e non di fabbrica, il signor G. ha errato nel ritenere che quel muro divida la proprietà dell’impresa Specogna dalla piazzetta di proprietà del Comune, sulla scorta di dichiarazioni provenienti dal Comune stesso”, pur essendo state acquisite prove testimoniali ed altre ancora dedotte dagli attori, che avrebbero dato la dimostrazione “della manutenzione del muro e di un continuo possesso da parte loro..”.

Da quanto sopra riportato risulta evidente come l’affermazione dell’appartenenza al Comune del muro in questione, sulla base della quale era stata respinta la domanda risarcitoria, fosse stata espressamente impugnata dagli appellanti con censure che, in considerazione della palese genericità delle argomentazioni esposte dal primo giudice, non precisamente individuanti, ma solo presumendo – per giunta in via alternativa – concreti atti ablatori, laddove ribadivano che il muro fosse rimasto nel possesso degli attori e che le mere e non riscontrate affermazioni di proprietà dell’ente territoriale non erano idonee a suffragare la tesi della demanialità dell’immobile, non avrebbero potuto essere più specifiche.

La verifica dell’osservanza del principio di specificità, dettato dall’art. 342 c.p.c., non può invero prescindere da un raffronto tra le argomentazioni in concreto sorreggenti la decisione impugnata e quelle poste a base del gravame,non potendo pretendersi che quest’ultimo sia più diffuso ed approfondito,di quanto non lo sia l’impugnata ratio decidendi.

Con il secondo motivo del suddetto ricorso si lamenta, in subordine, violazione degli artt. 2909 e 2043 c.c., per mancata considerazione del giudicato esterno, derivante dalla sentenza n. 107/93 del Pretore di Udine, sez. dist. di Cividale, che aveva declinato la propria giurisdizione sul rilievo che, essendo l’abbattimento parziale del muro previsto in un atto concessorio conforme al piano particolareggiato edilizio comunale, la richiesta reintegra si sarebbe tradotta nell’inammissibile condanna della P.A. ad un facere, comportante modifica dello strumento urbanistico; tale statuizione, anche passata in giudicato, avrebbe implicato la legittimità dell’operato della società concessionaria, conformatasi a dette previsioni.

La censura è infondata alla luce del consolidato principio, secondo cui,fuori dei casi in cui siano pronunziate da questa Suprema Corte, le sentenze che affermano o negano la giurisdizione, ove non correlate a pronunzie anche nel merito della causa, non hanno alcuna idoneità a spiegare effetti di giudicato (tra le altre, v. S.U. nn. 2067/11, 24883/08, 802/99); a fortiori, dunque, non può attribuirsi siffatta efficacia agli accertamenti di fatto che ne costituiscano il presupposto.

Con il terzo motivo si lamenta, in ulteriore subordine, vizio di ultrapetizione, per avere la corte di merito riconosciuto un danno, riferito al costo di ricostruzione del muro, diverso da quelli che gli attori avrebbero richiesto, con esclusivo riferimento alla lesione del diritto di proprietà, al valore affettivo del manufatto ed all’indebita costituzione di una servitù.

Anche tal censura processuale risulta, dall’esame degli atti, infondata, considerato che la domanda attrice, poi confermata in sede di precisazione della conclusioni e riproposta in appello, era espressamente diretta a “condannare la convenuta al risarcimento dei danni materiali patiti e patendi ..a causa della parziale demolizione del muro e della servitù di transito derivatane. Danni da quantificarsi in L. 12.000.000”. La specifica richiesta del ristoro del pregiudizio materiale derivante dall’attività demolitoria, quand’anche preceduta da considerazioni esposte ad colorandum sul valore storico affettivo del bene danneggiato, non poteva che comprendere anche il rimborso delle spese occorrenti per il ripristino della relativa integrità e per l’eliminazione della servitù di fatto, che le brecce avevano creato, sicchè nessuna eccedenza rispetto alla domanda può riscontrarsi nella decisione, che accordando il rimborso delle spese di ricostruzione del manufatto nella parti danneggiate, si è attenuto, accogliendola peraltro parzialmente, alla richiesta di reintegrazione del patrimonio della parte offesa dal fatto illecito.

Con il quarto motivo, in ulteriore subordine, la ricorrente principale lamenta “insufficiente ed illogica motivazione circa un punto decisivo della controversia in relazione al capo della sentenza d’appello che ha statuito in ordine al riconoscimento del diritto di proprietà ai fratelli L. del muro in contesto”, censurandosi sia il rilievo attribuito alla deposizione di un teste,comportante un “apprezzamento giuridico” circa la sussistenza dell’assunto riconoscimento, peraltro inidoneo a comprovare l’appartenenza del diritto alla controparte, sia il recepimento delle risultanze della consulenza tecnica, senza tener conto dell’assenza di riscontri catastali e valorizzando risultanze documentali anteriori alle successive vicende, dalla quali avrebbe dovuto desumersi, anche in considerazione della posizione del muro, la natura di bene pubblico dello stesso.

Anche tale mezzo d’impugnazione va disatteso, tenuto conto: a) che il primo profilo attiene ad un’argomentazione non essenziale ai fini della decisione impugnatale si è essenzialmente basata, nellaccertamento della proprietà dedotta dagli attori, sulle risultanze dei titoli e, quanto all’esclusione dell’appartenenza al Comune, sulla ravvisata insufficienza di elementi di prova in ordine all’eventuale successiva acquisizione del bene da parte dell’ente, da parte del quale non sono risultati provati specifici atti ablatori, soltanto ipotizzati dal primo giudice; b) che, per il resto, il motivo contiene mere censure in fatto, dirette ad accreditare una diversa interpretazione delle risultanze processuali, senza evidenziare alcuna carenza testuale o vizio logico nella motivazione adottata dalla corte territoriale, costituente valutazione di merito incensurabile in questa sede.

Non miglior sorte merita il quinto motivo, con il quale si deduce violazione degli artt. 2043 e 1224 c.c., censurandosi, l’attribuzione della rivalutazione monetaria della somma risarcitoria, calcolata con riferimento ai costi vigenti all’epoca di redazione della consulenza tecnica di ufficiosi riguardo sostenendosi, anzitutto, che il debito di valore si sarebbe, per effetto della relativa stima, trasformato in debito di valuta, ed, in subordine, che detta rivalutazione avrebbe dovuto essere riconosciuta “a far tempo dal dicembre 1999 anzichè dal febbraio 1991”.

Premesso che il risarcimento dei danni deve sempre comportare la determinazione del ristoro economico, atto al ripristino del patrimonio leso, con riferimento all’epoca della decisione, soltanto all’epoca della quale il debito di valore si trasforma in debito di valuta, palesemente erronea è la pretesa di cristallizzare detta determinazione alla data della stima peritale, necessariamente antecedente a quella della pronunzia della sentenza; sicchè correttamente detta valutazione è stata incrementata dalla corte di merito dell’ulteriore rivalutazione monetaria, con riferimento al periodo trascorso tra il deposito della relazione e quello della decisione.

Altrettanto correttamente la corte territoriale considerato che l’evento lesivo si era verificato nel febbraio del 1991, ha dispostoci fini dell’applicazione degli interessi compensativi, la “devalutazione” della somma capitale a tale data, momento iniziale della relativa decorrenza, e la successiva applicazione degli stessi sulla stessa gradualmente rivalutata, così attenendosi ad un corrente ed incensurabile criterio della giurisprudenza di merito, conforme ai dettami di quella di legittimità (v., tra le tante, Cass. 5671/10, 3931/10, 15411/094,S.U. 8520/07).

Con l’unico motivo del ricorso incidentale si censura,per “falsa ed erronea applicazione “degli artt. 91, 92 c.p.c. e art. 24 Cost. e carenza assoluta di motivazione, la statuizione di totale compensazione della spese del doppio grado di giudizio.

Il ricorso deve essere respinto, attesa l’incensurabilità della statuizione in questione, le cui ragioni,nel regime anteriore alla modifica all’art. 92 c.p.c., apportata dalla L. n. 263 del 2005, art. 2, comma 1, lett. a), possono implicitamente desumersi anche dal contesto complessivo della decisione (v. Cass. 24531/10, 17868/09, 6970/09, come lo sono nella specie, in cui la considerata peculiarità della “natura della lite”, connotata da un’affermazione di proprietà basta su titoli molto risalenti nel tempo e da una situazione dei luoghi del tutto particolare ed obiettivamente controvertibile, ha evidentemente indotto la corte territoriale all’esercizio del potere discrezionale de quo.

Vanno tuttavia poste a carico della ricorrente principale le spese del presente giudizio,attesa la netta e prevalente soccombenza della stessa e la scarsa incidenza nell’economia del processo del ricorso incidentale.

P.Q.M.

La Corte riuniti i ricorsi, rigetta sia il principale, sia l’incidentale e condanna la ricorrente principale al rimborso delle spese del giudizio in favore della controcorrente, in misura di complessivi Euro 1.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi.

Così deciso in Roma, il 21 settembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2011

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