Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21897 del 07/09/2018

Cassazione civile sez. lav., 07/09/2018, (ud. 20/02/2018, dep. 07/09/2018), n.21897

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16690-2013 proposto da:

D.A., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA GERMANICO 96, presso lo studio dell’avvocato LETIZIA TILLI,

rappresentato e difeso dagli avvocati LAURA TETI, SABATINO CIPRIETTI

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

D.R.P. & C. S.A.S., in persona del socio accomandatario

M.D., PIERAGO SPEDIZIONI S.R.L., in persona

dell’Amministratore pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA N. RICCIOTTI 11, presso lo studio dell’avvocato MICHELE

SINIBALDI, rappresentati e difesi dagli avvocati CAMILLO TATOZZI,

GOFFREDO TATOZZI, MASSIMO CIRULLI giusta delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 806/2012 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 04/07/2012 R.G.N. 896/2011;

LA CORTE, visti gli atti e sentito il consigliere relatore:

Fatto

OSSERVA

quanto segue:

Con atto notificato l’otto maggio 2003 la S.a.s. D.R.P. & C. intimava sfratto per finita locazione a D.A. in relazione all’immobile sito in S. Giovanni Teatino via Lago di Garda 15, presso la sede della società, già PIERAGO TRASPORTI S.r.l., davanti al Tribunale di Chieti. L’intimato si opponeva, eccependo tra l’altro la concessione dell’immobile a titolo di alloggio di servizio, con obbligo di reperibilità presso i locali aziendali, in relazione al contratto di lavoro subordinato alle dipendenze di parte attrice. Di conseguenza, il convenuto D. in via riconvenzionale chiedeva la condanna della società, indicata quale sua controparte datoriale, al pagamento di differenze retributive, assumendo che in effetti il canone di locazione era stato fittiziamente inglobato nella retribuzione, a fronte peraltro di un contributo/indennizzo corrisposto dalla datrice di lavoro. Il lavoratore sosteneva il proprio diritto a maggiore retribuzione, anche per straordinari, reperibilità, festività e notturni, per cui non erano nemmeno dovuti i canoni di locazione relativi all’alloggio di servizio, trattenuti in busta paga, dei quali l’intimato chiedeva la restituzione con il maggior credito da egli vantato a titolo di retribuzione (instando altresì per l’ammissione di c.t.u., che avrebbe dovuto anche rivalutare l’effettivo valore del canone), unitamente al risarcimento del danno da omessa/insufficiente contribuzione previdenziale.

Il giudice adito accoglieva la domanda di parte attrice, rigettando invece la spiegata riconvenzionale.

La Corte d’Appello di L’Aquila con sentenza n. 806 in data 21 giugno – 4 luglio 2012, in parziale accoglimento del gravame interposto dal D. nei confronti della D.R.P. & C. s.a.s. e di PIERAGO SPEDIZIONI S.r.l. (appellate entrambe costituitesi in giudizio in persona dell’A.U. sig.ra M.D.), riformava per quanto di ragione la gravata pronuncia, dichiarando la carenza di legittimazione attiva della D.R.P. s.a.s. a pretendere il rilascio dell’immobile, condotto in locazione ad uso abitativo dal D., nonchè il diritto di costui “a permanere nel medesimo immobile fino a che non si verifichi una delle cause a cui il contratto di locazione subordina la sua risoluzione”, confermando nel resto e condannano, infine, le società convenute, tra loro in solido, al pagamento delle spese per entrambi i gradi del giudizio (liquidate per l’intero in Euro 4000,00 per il primo ed in Euro 3000,00 per il secondo), ma compensandole per la metà. In effetti, la Corte abruzzese riteneva il diritto del lavoratore al godimento dell’alloggio, secondo le pattuizioni a suo tempo intervenute, ossia il diritto del lavoratore – conduttore al godimento dell’immobile sino alla cessazione del connesso rapporto di lavoro.

La suddetta pronuncia di appello è stata, quindi, impugnata dal solo D. mediante ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, cui hanno resistito le due società, precedentemente appellate, con un unico controricorso.

Nonostante regolari e tempestivi avvisi di rito, il solo ricorrente ha depositato memoria illustrativa, non risultando peraltro in atti alcuna requisitoria depositata dall’Ufficio requirente in sede.

Diritto

CONSIDERATO

che con il primo motivo il ricorrente lamenta omessa e/o insufficiente nonchè illogica motivazione su un punto e fatto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 – riguardo al rigetto della riconvenzionale concernente le differenze retributive e la restituzione dei canoni di locazione, essendo la statuizione erronea e contraddittoria, in quanto se come pure deciso la casa di abitazione era da sempre e cioè dall’inizio del rapporto di lavoro, risalente al 1984, collegata al rapporto stesso, la previsione contrattuale di un canone (comprensivo delle spese accessorie in forma forfettaria), pari a Lire 50.000 mensili e poi a Lire 100.000 mensili dal 1991 in avanti, era chiara una messa in scena ed i contratti per tale parte risultavano nulli, avuto riguardo alle allegazioni in proposito svolte dall’intimato. In buona sostanza, la datrice di lavoro, oltre a non corrispondere l’importo dovuto per il lavoro svolto (tenuto conto di tutte le mansioni di guardiania e custodia, secondo le norme del contratto collettivo e del codice civile) aveva sempre riscosso la somma imputata in contratto, fatto rimasto incontestato, somma che per intero dunque doveva essere restituita a far data dall’ottobre 1984. L’affermazione, secondo cui sia l’indennizzo forfettariamente stabilito, sia la stipula del contratto di locazione, in quanto accordi risalenti nel tempo dovevano ritenersi satisfattivi anche per il lavoratore, si palesava illogica e abnorme e comunque del tutto insufficiente “ed anzi sostanzialmente omessa in relazione alla domanda come proposta”. Se la casa di abitazione era collegata all’attività di lavoro ed aveva come unico fine quello di garantire la reperibilità del dipendente, non potevano di conseguenza ritenersi legittimamente versati i canoni di locazione, che, viceversa, erano fittizi, di modo che la sentenza andava cassata in parte qua. Nè era dato comprendere l’iter logico giuridico seguito dalla Corte d’Appello per ritenere evidentemente “satisfattivi” detti accordi, anche per il D., per il solo fatto che egli non li aveva impugnati prima dell’azionato sfratto, trattandosi di motivazione apodittica;

che con il 2^ motivo è stata denunciata, ex art. 360 c.p.c., n. 5, omessa e/o insufficiente motivazione su un punto di fatto decisivo della controversia: l’assegnazione dell’alloggio per il soddisfacimento della esigenza aziendale della immediata reperibilità in loco del dipendente era pure rilevante sotto l’aspetto dell’imposizione diretta, facendo parte della retribuzione annua ai sensi dell’art. 2120 c.c., comma 2 e a fini previdenziali. Infatti, il godimento della abitazione aziendale rappresentava sin dal 1984 l’ulteriore retribuzione per il dipendente lavoratore, per cui era stato chiesto e ribadito in appello di accertare che l’abitazione era stata concessa quale ulteriore corrispettivo integrativo della retribuzione unitamente al beneficio delle spese delle utenze familiari, e quindi di accertare che il valore della locazione fosse determinato nella somma di Lire 500.000 mensili, oltre al valore medio delle utenze pari a Lire 200.000 mensili, che costituivano la somma dovuta integrativa della retribuzione stessa, da assoggettarsi a contribuzioni, con la conseguenza che parte datoriale convenuta andava condannata al risarcimento dei danni per i mancati versamenti fatti agli istituti previdenziali ed assicurativi, nonchè, per quanto ancora possibile, alla regolarizzazione delle posizioni stesse. L’appartamento concesso in dotazione ed il beneficio delle utenze, previa valutazione mediante c. t. u. o in via equitativa, costituiva sin dal 1984 l’ulteriore retribuzione, di talchè era evidente che doveva essere dichiarata la cifra indicata quale parte integrante della retribuzione, applicando conseguentemente all’intero il trattamento tabellare anche per gli accessori e comunque per il t.f.r., riconoscendo dovuto sulla somma complessiva anche il versamento dei contributi ai sensi dell’art. 2115 c.c. Ogni patto contrario inteso ad eludere obblighi relativi alla contribuzione della previdenza e dell’assistenza era nullo; che con il terzo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, è stata denunciata la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè ai sensi dell’art. 360, n. 5 stesso codice di rito, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto e fatto decisivo della controversia. In particolare, l’impugnata sentenza risultava erronea e sostanzialmente immotivata, laddove aveva affermato che sia l’indennizzo forfettariamente stabilito sia la stipula di un contratto di locazione integravano accordi risalenti nel tempo a cui il D. aveva prestato il suo consenso e di cui non aveva avuto a lamentarsi se non a seguito dell’intimato sfratto, sicchè tali accordi risultavano satisfattivi anche per il lavoratore, il quale di conseguenza non poteva dopo quasi trent’anni fare rivendicazioni contrastanti con i patti intervenuti; statuizione del tutto erronea e sostanzialmente immotivata in relazione alla domanda sub 6 delle conclusioni, anche in reazione alla palese violazione dell’art. 36 Cost., artt. 2099 e 2108 c.c., rilevando come la rivendicazione fosse stata posta in pendenza di rapporto di lavoro ed essendo nulle tutte le rinunzie, le transazioni, ricognizioni, sottoscrizioni, i contratti di affitto ed ogni altro documento o elemento in contrasto con i diritti soggettivi del lavoratore, nonchè con la previsione di nullità dei patti diretti ad eludere gli obblighi contributivi ed assistenziali. Il rigetto della domanda del lavoratore, ritenendo sostanzialmente non pregiudizievoli gli accordi, senza considerazione delle specifiche mansioni e dell’attività lavorativa effettivamente svolta con diritto alla corrispondente retribuzione, come da allegati specifici conteggi, non contestati ex adverso, risultava erroneo e denotava un’omessa valutazione degli elementi acquisiti e comunque una non adeguata motivazione, sostanzialmente anche qui omessa (ferma restando l’attività di autista e di trasportatore, il D. provvedeva alla custodia e alla guardiania, svolgendo con la reperibilità sul posto ulteriori mansioni collegate all’attribuzione della casa, con la sua famiglia, senza allontanarsi anche durante i periodi di chiusura aziendale per ferie agostane). Si trattava di prestazione che per la sua particolare onerosità esigeva uno specifico compenso, di natura retributiva e non già risarcitoria, sicchè il giudicante avrebbe dovuto provvedere sulla base di una motivata valutazione, tenendo conto della prestazione fornita ed applicando i parametri e le previsioni della contrattazione collettiva ovvero le forme di retribuzione previste per legge per gli istituti affini, quali il compenso del lavoro domenicale. Per contro, non era dato trarre dalla motivazione quale fosse stato lo svolgimento del ragionamento che aveva sorretto la valutazione delle prove operata dalla Corte d’Appello, nè tanto meno la loro rispondenza alla decisione adottata e la conformità a diritto. Dunque, la sentenza impugnata era affetta, oltre che dalla violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., anche da insufficienza della motivazione, avendo trascurato o comunque non valorizzato sufficientemente delle risultanze processuali tali da invalidare l’efficacia probatoria degli elementi sui quali il giudice aveva fondato il proprio convincimento;

che le anzidette censure, le quali per la loro connessione sono congiuntamente esaminabili, vanno disattese in forza delle argomentazioni;

che, invero, le doglianze de quibus censurano più che altro il contenuto delle motivazioni dell’impugnata sentenza, la quale peraltro solo in parte riformava quella di primo grado, condivisa invece per il resto, segnatamente riguardo alle pretese creditorie e risarcitorie azionate dal D., di guisa che le stesse vanno lette congiuntamente e di conseguenza parimenti confutate dal ricorrente, il quale però ha trascurato (v. invece quanto prescritto, a pena d’inammissibilità, in particolare dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3) le ragioni in forza delle quali le domande dell’attore erano state integralmente respinte;

che, inoltre, le censure mosse con il ricorso per cassazione, peraltro come sopra visto carenti, attengono a valutazioni di fatto, in ordine al ragionamento decisorio seguito dalla Corte di merito, ma senza denunciare alcuna precisa violazione di legge (ex art. 360 c.p.c., n. 3) circa eventuali errori di diritto commessi con la sentenza qui impugnata ed in ordine alla complessiva ratio decidendi posta a fondamento della pronuncia, laddove, d’altro canto, parte ricorrente non ha nemmeno ritualmente denunciato alcuna omissione di pronuncia, rilevante ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 peraltro univocamente nei termini di nullità ivi rigorosamente consentiti;

che, per contro, la sentenza di appello ha, dettagliatamente e con adeguata motivazione, logica e coerente, esaminato i contratti relativi al godimento dell’immobile, da cui trae origine la controversia, ritenuta la loro stipula a titolo di locazione, succedutisi nel tempo, anche al fine di valutare le richieste economiche avanzate dal D. (il primo in data 01-10-1984, concernente l’affitto ad uso esclusivamente abitativo per l’alloggio di servizio ivi descritto, di durata annuale, tacitamente rinnovabile in difetto di previa disdetta, con tre mesi di anticipo, però subordinato alla permanenza del D. alle dipendenze della società, con la pattuizione altresì del relativo canone e degli oneri accessori, per cui inoltre la società PIERAGO riconosceva al dipendente una indennità di reperibilità paria Lire 100mila per dodici mensilità, contestualmente stabilendosi in relazione al contratto di locazione che l’uso dell’alloggio comportava una quota mensile di affitto di Lire 50.000, che sarebbe stata addebitata in busta paga. Il secondo contratto di locazione riguardava l’unità immobiliare abitativa sita in (OMISSIS), che stante la particolarità del consenso negoziale di cui all’art. 4 veniva stipulato a tempo indeterminato, laddove peraltro al citato art. 4 le parti contraenti si davano reciprocamente atto del carattere di transitorietà del contratto stesso, essendo il medesimo stipulato esclusivamente per il fine di facilitare operativamente il dipendente nell’esercizio delle proprie mansioni, di autista, e per ottemperare all’impegno preso di rendersi reperibile, sicchè, ad avviso della Corte di merito, detta locazione era correlata ad entrambi gli impegni, ossia quello lavorativo e quello specifico di reperibilità. E a tale ultimo riguardo i giudici dell’appello rilevavano la sua peculiarità come da scrittura privata del 10-01-1990, firmata dal D. e dalla PIERAGO, così come ivi precisato, laddove inoltre si affermava che a compensazione di tale impegno sarebbe stata corrisposta un’indennità forfettaria, fissata in quote giornaliere di Lire 3000 per i giorni feriali lavorativi ed in lire 5000 per i sabati e le domeniche nonchè per le festività infrasettimanali. Inoltre, con la suddetta scrittura si precisava che al solo fine di agevolare il dipendente nel reperimento di un alloggio idoneo all’adempimento dell’impegno di reperibilità la PIERAGO TRASPORTI avrebbe fornito la disponibilità di una porzione immobiliare all’interno del deposito come da separato contratto. La Corte distrettuale rilevava, ancora, che al menzionato art. 4 del succitato contratto di locazione era stata espressamente considerata l’intrinseca connessione tra la locazione dell’unità immobiliare e il tipo di mansioni espletate dal dipendente nonchè l’impegno di reperibilità da costui assunto, di modo che la società PIERAGO si riservava il diritto in qualsiasi momento, ma con preavviso di tre mesi, di disdire il contratto in caso di cessazione del rapporto di lavoro, o comunque di modifica delle mansioni ovvero in caso del venir meno dell’impegno di reperibilità nell’ambito dell’unità di Sambuceto, nonchè per esigenze operative tali da dover destinare l’unità immobiliare locata ad attività organizzativa aziendale; disdetta, quindi, intervenuta come da lettera in data 1903-2002 della D.R.P. & C. s.a.s. “per improcrastinabili esigenze operative della società”, però giudicata inefficace perchè intimata da parte di società che non poteva considerarsi datrice di lavoro, al quale risultava invece collegata la locazione de qua, potendo infatti, secondo la Corte abruzzese, la proprietà di un immobile ed in relativi diritti di godimento essere scissi e far capo ad entità giuridiche diverse. Inoltre, risultando assorbente la carenza di legittimazione attiva della società D.R.P., non era condivisibile la decisione appellata, secondo cui la prova testimoniale avrebbe confermato il venir meno dell’obbligo di reperibilità, rientrando quest’ultima in mansioni lavorative vere e proprie, siccome emergenti dall’atto sottoscritto dalle parti. Per contro, non poteva essere accolta la domanda riconvenzionale, concernente le invocate differenze retributive e la restituzione dei canoni di locazione, poichè sia l’indennizzo forfettariamente stabilito sia il contratto di locazione – come visto collegato al rapporto di lavoro – risultavano da accordi risalenti nel tempo, cui il D. aveva prestato il suo consenso senza mai lamentarsi prima dell’intimato sfratto, sicchè tale accordi erano da ritenersi satisfattivi anche per il lavoratore, il quale di conseguenza non poteva, dopo quasi trent’anni, fare rivendicazioni contrastanti con i parti intervenuti);

che, pertanto, alla stregua dell’anzidetta complessiva argomentazione non si evince alcun fatto, rilevante e decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (ancorchè secondo il testo nella specie ratione temporis applicabile, prima delle modifiche apportate dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, visto il regime transitorio di cui all’art. 54, comma 3 medesimo D.L., così come convertito);

che, invero (cfr. Cass. V civ. n. 21152 – 08/10/2014), l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, prevede l'”omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione”, come riferita ad “un fatto controverso e decisivo per il giudizio” ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico – naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni” che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate. In senso analogo, v. altresì Cass. 1^ civ. n. 17761 – 08/09/2016, secondo cui il motivo di ricorso con cui, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2 si denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, deve specificamente indicare il “fatto” controverso o decisivo in relazione al quale la motivazione si assume carente, dovendosi intendere per “fatto” non una “questione” o un “punto” della sentenza, ma un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale, ex art. 2697 c.c., (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purchè controverso e decisivo. Parimenti, cfr. Cass. 5^ civ. con ordinanza n. 2805 del 05/02/2011, che di conseguenza, in applicazione del principio dichiarava inammissibile il ricorso con cui ci si era limitati a denunciare la mancata motivazione da parte del giudice in ordine alle argomentazioni esposte dal ricorrente nel giudizio di appello, senza, però, individuare i fatti specifici, in relazione ai quali si assumeva fosse carente la motivazione medesima);

che, d’altro canto (cfr. Cass. 6^ civ. – L n. 329 del 12/01/2016), l’omessa pronunzia da parte del giudice di merito integra un difetto di attività, il quale va fatto valere dinanzi alla Corte di Cassazione attraverso la deduzione del relativo “error in procedendo” e della violazione dell’art. 112 c.p.c. (quindi, ritualmente ed univocamente, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), non già con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale (art. 360 c.p.c., n. 3) o del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, giacchè queste ultime censure presuppongono che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente scorretto, ovvero senza giustificare o non giustificando adeguatamente la decisione resa (in senso conforme, tra le altre, v. Cass. 5 civ. n. 7871 del 18/05/2012);

che, pertanto, nemmeno appaiono conferenti le censure mosse con il terzo e ultimo motivo, segnatamente poi per quanto riguarda l’asserita violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., poichè attinenti a valutazioni in fatto e di merito, incensurabili quindi in sede di legittimità, nemmeno ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (cfr., tra le altre, Cass. 1^ civ. n. 16526 del 5/8/2016, secondo cui in tema di ricorso per cassazione, nella specie quindi dichiarato inammissibile il controllo di logicità del giudizio del giudice di merito non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto tale giudice ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli elementi probatori valutati, in una nuova formulazione del giudizio di fatto. V. altresì Cass. sez. 6 – 5, n. 91 del 7/1/2014, secondo cui per l’effetto la Corte di Cassazione non può procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, nè porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito. Conformi Cass., n. 15489 del 2007 e n. 5024 del 28/03/2012. V. altresì Cass. 1^ civ. n. 1754 del 26/01/2007, secondo cui il vizio di motivazione che giustifica la cassazione della sentenza sussiste solo qualora il tessuto argomentativo presenti lacune, incoerenze e incongruenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione impugnata, restando escluso che la parte possa far valere il contrasto della ricostruzione con quella operata dal giudice di merito e l’attribuzione agli elementi valutati di un valore e di un significato difformi rispetto alle aspettative e deduzioni delle parti. Conforme Cass. n. 3881 del 2006. V. ancora Cass. n. 7394 del 26/03/2010. Cfr. pure Cass. 2^ civ. n. 24434 del 30/11/2016: in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità. Id. n. 11176 – 08/05/2017: nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove – salvo che non abbiano natura di prova legale -, il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti. Il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purchè risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati);

che, dunque, il ricorso deve essere disatteso, con conseguente condanna del soccombente alle relative spese, sussistendo, per altro verso, anche i presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

PQM

la Corte dichiara INAMMISSIBILE il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore di parte controricorrente in ragione di complessivi =4000,00= (quattromila/00) Euro per compensi professionali ed in Euro =200,00= (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 20 febbraio 2018.

Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2018

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