Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21881 del 09/10/2020

Cassazione civile sez. lav., 09/10/2020, (ud. 27/11/2019, dep. 09/10/2020), n.21881

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1752/2016 proposto da:

TELEFOGGIA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE DELLE NAVI 30, presso

lo studio dell’avvocato ORESTE MICHELE FASANO, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato GIUSEPPE RUFFINI;

– ricorrente –

contro

D.M.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIUSEPPE

FERRARI N. 11, presso lo studio dell’avvocato BENIAMINO LA PISCOPIA,

rappresentato e difeso dagli avvocati VITTORIA CIAVARELLA, PIETRO

CIAVARELLA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1398/2015 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 10/07/2015 r.g.n. 342/2013.

LA CORTE, visti gli atti e sentito il consigliere relatore.

 

Fatto

RILEVA

Che:

in data 2 novembre 2011 D.M.A., dipendente della S.r.l. TELEFOGGIA dal 20 ottobre 1992 al 22 settembre 2008, notificava a detta società decreto ingiuntivo, emesso i 17 ottobre 2011 per i pagamento della somma di Euro 37.331,43 oltre accessori di legge a titolo di trattamento di fine rapporto non corrisposto da parte datoriale, nonostante il richiesto tentativo di conciliazione. La società TELEFOGGIA nel mese di novembre 2011 proponeva opposizione avverso il decreto, sostenendo che in data 1 gennaio 2001 era stato stipulato con il D.M., in proprio e nella qualità di legale rappresentante della S.r.l. FOCUS, un contratto per la gestione esclusiva dell’emittente con scadenza al 26 giugno 2008, per cui la FOCUS si impegnava rispettare con scrupolosa osservanza e puntualità tutti gli impegni contrattuali e di legge relativi ai suddetti rapporti, con particolare cura per il periodo di retribuzione mensile, per contributi previdenziali, assistenziali e ogni altro onere connesso. Secondo l’opponente, mentre i rapporti di lavoro, compreso quello relativo al D.M., rimanevano in capo a TELEFOGGIA, tutte le obbligazioni retributive e assicurative venivano accollate allo stesso D.M.A. in proprio e alla S.r.l. FOCUS, sicchè il t.f.r. rivendicato per il periodo gennaio 2001 – 26 giugno 2008 era rimasto a carico dello stesso D.M. e della FOCUS, dal medesimo rappresentata. In ogni caso, il trattamento di fine rapporto, relativo al periodo 20 ottobre 1992 – 31 dicembre 2000 risultava prescritto ai sensi dell’art. 2948 c.c., n. 5;

con sentenza del 10 gennaio 2013 il giudice adito accoglieva l’opposizione, revocando quindi il decreto ingiuntivo, con la condanna del D.M. al pagamento delle spese. Tale sentenza veniva appellata dal soccombente con atto del 15 febbraio 2013, cui resisteva la soc. TELEFOGGIA con memoria difensiva del 16 aprile 2015;

la Corte d’Appello di Bari con sentenza n. 342 del 30 aprile – 10 luglio 2015, in riforma della gravata pronuncia, rigettava l’anzidetta opposizione, confermando quindi il decreto ingiuntivo, con la condanna inoltre nella società appellata al pagamento, in favore dell’appellante, delle spese relative al doppio grado del giudizio;

TELEFOGGIA S.r.l. ricorreva per cassazione avverso la suddetta pronuncia d’appello, non notificata, come da atto di cui veniva chiesta la notifica all’ufficiale giudiziario in data 5 gennaio 2016, notifica in seguito rinnovata con richiesta di parte ricorrente in data 5 febbraio 2016, quindi perfezionatasi come da avviso di ricevimento pervenuto al destinatario l’undici febbraio successivo, essendo quest’ultimo risultato inizialmente irreperibile per intervenuto trasferimento, il 12 gennaio 2016, all’indirizzo di (OMISSIS) presso lo studio dell’avv. Giuseppe Carrieri (come da plico postale restituito al mittente il 29 gennaio 2016 – cfr. anche l’istanza, datata 5.2.2016, di parte ricorrente volta ad ottenere l’autorizzazione al ritiro dell’originale del ricorso, già depositato il 25 gennaio 2016). Al ricorso, fondato su cinque motivi, resisteva quindi il D.M. mediante controricorso, notificato in data sette – undici agosto 2017, depositato il 25 agosto successivo, con successiva formale iscrizione del 5-9-2017;

entrambe le parti hanno poi depositato memorie illustrative.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

con il primo motivo parte ricorrente ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ha denunciato omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, sostenendo che non rispondeva al vero che il D.M. non avesse aderito al negozio di accollo, avendolo al contrario espressamente sottoscritto anche in proprio. Dunque, la Corte distrettuale, nel focalizzare il suo iter logico-argomentativo esclusivamente su una delle controparti dell’emittente, che parteciparono al negozio (la FOCUS S.r.l.), aveva del tutto omesso di considerare che il D.M. prese parte all’accordo sottoscrivendolo anche in proprio. L’omesso esame di tale fatto decisivo – ossia la sottoscrizione in proprio da parte del D.M. del negozio di accollo – aveva indotto la Corte territoriale a ritenere erroneamente che lo stesso D.M. non avesse aderito a tale negozio, laddove la sottoscrizione in proprio da parte dello stesso (ad un tempo accollante e accollatario, secondo la ricorrente) avrebbe dovuto portare alla conclusione che TELEFOGGIA risultava liberata dal debito in essere con il proprio dipendente o quantomeno a vedersi degradata la sua posizione di debitrice accollata da principale a meramente sussidiaria rispetto a quella dell’accollante FOCUS S.r.l.. La Corte d’Appello avrebbe dovuto, in ogni caso, accogliere la domanda riconvenzionale proposta nei confronti del D.M. e la richiesta di chiamata in causa di quest’ultimo nonchè della FOCUS per rispondere delle eventuali pretese in qualità di accollanti del debito (rectius: credito) azionato in via monitoria, richieste entrambe poi riproposte da essa società ricorrente in sede di appello;

con il secondo motivo è stata dedotta la violazione degli artt. 1362,1363,1366,1367 e 1369 c.c., in tema di interpretazione del contratto, laddove l’omessa valutazione da parte della Corte d’Appello della circostanza decisiva, ossia del fatto che l’accordo negoziale del gennaio 2001 era stato sottoscritto dal D.M. anche in proprio, aveva condotto il giudice di merito in primo luogo a disattendere il disposto delle succitate norme di legge in materia di ermeneutica contrattuale. La Corte d’Appello, nel soffermarsi sul dato letterale dell’anzidetto negozio, non aveva ritenuto che lo stesso comportava la liberazione di TELEFOGGIA dalle proprie obbligazioni nei confronti dell’appellante, ma soltanto che al debitore originario si affiancasse in rapporto di solidarietà passiva l’accollante FOCUS Srl. Tuttavia, la Corte territoriale non aveva considerato che tale negozio, in quanto sottoscritto dal D.M. in proprio, era destinato a produrre effetti anche nella sfera giuridica personale di quest’ultimo, che quindi con la propria sottoscrizione assumeva su di sè la qualifica di debitore di sè stesso. A fronte di siffatta singolarità emergente dal dato letterale della clausola, il giudicante avrebbe dovuto pertanto, in ossequio al canone di cui all’art. 1362 c.c. – che impone all’interprete di non limitarsi al senso letterale delle parole – indagare quale fosse stata la reale intenzione delle parti, a tal fine attingendo al contenuto delle altre clausole dell’accordo negoziale intercorso. Infatti, con il predetto contratto gli affidatari della gestione dell’emittente, ossia D.M. in proprio e FOCUS S.r.l., a fronte di una ripartizione paritaria degli utili con l’affidante assumevano a proprio carico ogni onere economico conseguente alla gestione dell’emittente, anche nella eventualità di mancati utili dell’esercizio. Applicando, quindi, i criteri di cui agli artt. 1362 e 1363 c.c., era indubbio che in un contesto nel quale parte affidataria si era impegnata a sopportare le perdite di esercizio a fronte di diritto a partecipare alla eventuale di partizione dei soli utili, il ritenere – come fatto dalla Corte d’Appello – che TELEFOGGIA fosse rimasta coobbligata in solido con la parte affidataria soltanto ed esclusivamente per il pagamento delle obbligazioni scaturenti dai rapporti di lavoro, contrastava non soltanto con quella logica, ma anche con la volontà delle parti, quale emergente dalla disamina dell’intero testo contrattuale. L’interpretazione operata dalla Corte distrettuale, poi, contrastava anche con il principio di buona fede di cui all’art. 1366 c.c., finendo per ribaltare nuovamente su TELEFOGGIA i costi relativi alla retribuzione dei dipendenti, tra i quali l’accollante D.M., che invece, assumendo su di sè la gestione diretta e funzionale del personale dipendente, con piena facoltà di gestire il suddetto personale nel modo ritenuto più opportuno, aveva dichiarato di volersi accollare in proprio, manifestando inequivocamente la volontà di liberare l’affidante. Non si comprendeva del resto quale altro significato potesse avere avuto la sottoscrizione in proprio da parte del D.M. del negozio di accollo relativo ai debiti corrispondenti ai propri crediti retributivi, se non quello di liberare definitivamente TELEFOGGIA da tali obblighi. Sotto tale profilo, pertanto, nel caso fossero residuati dubbi in ordine alla comune intenzione delle parti, l’interpretazione fornita dalla Corte distrettuale contrastava altresì con i principi di cui agli artt. 1367 e 1369 c.c.. E da ultimo al riguardo parte di corrente richiamava quanto affermato da Cass. n. 22343/14 (cfr. in effetti Cass. III civ. n. 22343 del 02/07 – 22/10/2014, la quale precisava in motivazione la decisione in punto di diritto nei seguenti termini: “Va anzitutto osservato che, giusta principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, l’interpretazione del contratto è riservata al giudice del merito, le cui valutazioni sono censurabili in sede di legittimità solo per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale o per vizi di motivazione (v. Cass. 21/4/2005, n. 8296). Il sindacato di legittimità può avere cioè ad oggetto non già la ricostruzione della volontà delle parti bensì solamente la individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere i compiti a lui riservati, al fine di verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto (v. Cass., 29/7/2004, n. 14495). Deve quindi porsi in rilievo come, pur non mancando qualche pronunzia di segno diverso (v., Cass., 10/10/2003, n. 15100; Cass., 23/12/1993, n. 12758), risponda ad orientamento interpretativo consolidato in tema di interpretazione del contratto che ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti il primo e principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto. Il rilievo da assegnare alla formulazione letterale va peraltro verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, e le singole clausole debbono essere considerate in correlazione tra loro, procedendosi al relativo coordinamento ai sensi dell’art. 1363 c.c., giacchè per senso letterale delle parole va intesa tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (v. Cass., 28/8/2007, n. 828; Cass., 22/12/2005, n. 28479; 16/6/2003, n. 9626). Va d’altro canto sottolineato come, pur assumendo l’elemento letterale funzione fondamentale nella ricerca della volontà della reale o effettiva volontà delle parti, il giudice deve in proposito fare invero applicazione anche agli ulteriori criteri di interpretazione, e in particolare a quelli dell’interpretazione funzionale ex art. 1369 c.c. e dell’interpretazione secondo buona fede o correttezza ex art. 1366 c.c.. Tali criteri debbono essere infatti correttamente intesi quali primari criteri d’interpretazione soggettiva, e non già oggettiva, del contratto (v. Cass., 27/6/2011, n. 14079; Cass., 23/5/2011, n. 11295; Cass., 19/5/2011, n. 10998), avendo riguardo allo scopo pratico perseguito dalle parti con la stipulazione del contratto e quindi alla relativa causa concreta (cfr. Cass., 23/5/2011, n. 11295). Il primo di tali criteri (art. 1369 c.c.) consente di accertare il significato dell’accordo in coerenza appunto con la relativa ragione pratica o causa concreta.

L’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza ex art. 1366 c.c., il quale costituisce un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale (cfr. Cass., 31/5/2010, n. 13208; Cass., 18/9/2009, n. 20106; Cass., 5/3/2009, n. 5348), applicabile in ambito contrattuale ed extracontrattuale, che impone di mantenere, sia in ambito contrattuale che nei rapporti comuni della vita di relazione, un comportamento leale (specificantesi in obblighi di informazione e di avviso) nonchè volto alla salvaguardia dell’utilità altrui, nei limiti dell’apprezzabile sacrificio (v. Cass., 15/2/2007, n. 3462), e che già la Relazione ministeriale al codice civile (ove si sottolinea come esso richiami “nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore”) indica doversi intendere in senso oggettivo, enunziando un dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost., che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge, sicchè dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere, anche di per sè, un danno risarcibile (v. Cass., 10/11/2010, n. 22819), quale criterio d’interpretazione del contratto (fondato sull’esigenza definita in dottrina di “solidarietà contrattuale”) si specifica in particolare nel significato di lealtà, sostanziantesi nel non suscitare falsi affidamenti e non speculare su di essi come pure nel non contestare ragionevoli affidamenti comunque ingenerati nella controparte (v. Cass., 25/5/2007, n. 12235; Cass., 20/5/2004, n. 9628). A tale stregua esso non consente di dare ingresso ad interpretazioni cavillose delle espressioni letterali contenute nelle clausole contrattuali non rispondenti alle intese raggiunte (v. Cass., 23/5/2011, n. 11295) e deponenti per un significato in contrasto con la ragione pratica o causa concreta dell’accordo negoziale (cfr., con riferimento alla causa concreta del contratto autonomo di garanzia, Cass., Sez. Un., 18/2/2010, n. 3947)…”);

con il terzo motivo è stata denunciata la violazione dell’art. 1273 c.c., comma 2 e la falsa applicazione dell’art. 1273 c.c., comma 3, sul presupposto accoglimento della precedente seconda censura, donde l’invocata cassazione della sentenza impugnata nella parte in cui aveva ritenuto TELEFOGGIA coobbligata in solido con la società FOCUS per le obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro in questione, nonostante la partecipazione del D.M. in proprio al suddetto accordo, non potendo dubitarsi che il predetto, nel partecipare in proprio al contratto del primo gennaio 2001, avesse posto in essere un contegno concludente univocamente diretto a liberare l’accollata dal debito su di essa gravante, relativo al rapporto di lavoro in parola (sul punto citando Cass. n. 9835 del 19/11/1994, secondo cui, invero, in caso di modificazione nel lato passivo del rapporto obbligatorio, l’effetto liberatorio del debitore originario non può derivare se non da una espressa manifestazione di volontà del creditore, ovvero da un suo contegno concludente, univocamente diretti a tale risultato), tanto potendosi desumere dalla disamina dell’intero accordo negoziale, con il quale FOCUS e D.M. assumevano a proprio carico tutti i costi di conduzione di TELEFOGGIA, ivi comprese le eventuali perdite di esercizio conseguenti dalla gestione aziendale;

con il quarto motivo (in subordine, nel caso di mancato accoglimento dei due superiori motivi di ricorso) è stata denunciata la violazione del combinato disposto dell’art. 1268, comma 2 e dell’art. 1273 c.c., comma 3, richiamando al riguardo Cass. n. 9982 del 24/05/2004 (secondo cui nell’accollo cumulativo – accollo esterno non liberatorio per il debitore originario, che si perfeziona comunque con il consenso del creditore – in analogia con quanto previsto per la delegazione dall’art. 1268 c.c., comma 2, l’obbligazione dell’accollato degrada ad obbligazione sussidiaria, di tal che il creditore ha l’onere di chiedere preventivamente l’adempimento all’accollante, anche se non è tenuto ad escuterlo preventivamente, e solo dopo che la richiesta sia risultata infruttuosa può rivolgersi all’accollato.

V. anche Cass. n. 4482 del 24/02/2010: nell’accollo cumulativo esterno non liberatorio per il debitore originario – che si perfeziona con il consenso del creditore, il quale può aderire alla convenzione di accollo anche successivamente, in tal modo acquisendo il diritto ad ottenere l’adempimento nei confronti del terzo – l’obbligazione dell’accollato, in analogia alla disciplina dettata per la delegazione dall’art. 1268 c.c., comma 2, degrada ad obbligazione sussidiaria, con la conseguenza che il creditore ha l’onere di chiedere preventivamente l’adempimento all’accollante, anche se non è tenuto ad escuterlo preventivamente, e soltanto dopo che la richiesta sia risultata infruttuosa può rivolgersi all’accollato.

Veniva pure citata Cass. n, 1758 – 8/2/2012: la mera adesione del creditore alla convenzione di accollo, in mancanza della manifestazione di volontà espressa ed inequivoca volta a liberare l’originario debitore, comporta unicamente, in funzione rafforzativa del credito, l’effetto di degradare l’obbligazione di costui a sussidiaria ed il conseguente onere del creditore di chiedere preventivamente l’adempimento all’accollante). Per contro, nel caso in esame il D.M., che pure aveva aderito all’accollo sottoscrivendo in proprio il contratto aveva agito direttamente ed in primis contro TELEGOGGIA, senza quindi intraprendere alcuna iniziativa nei confronti dell’accollante FOCUS. Non a caso, quindi, essa ricorrente opponente in sede di merito aveva chiesto la chiamata in causa dello stesso D.M. e della FOCUS;

infine, con il quinto motivo, è stata denunciata ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’anzidetta invocata chiamata in causa della FOCUS e del D.M., sulla quale sia il Tribunale (che aveva accolto l’opposizione sulla scorta dell’eccezione di tardivo deposito della produzione monitoria, con conseguente assorbimento di ogni altra questione), sia la Corte d’Appello, sebbene sollecitata con la reiterazione dell’istanza, avevano omesso di pronunciarsi;

in via preliminare deve rilevarsi, d’ufficio, la palese tardiva notifica del controricorso per il D.M., in violazione dei termini di cui all’art. 370, essendo stato notificato e poi depositato soltanto nell’anno 2017, a fronte della notifica dei ricorso per TELEFOGGIA, perfezionatasi l’undici febbraio 2016. Ciò tuttavia non comporta l’inammissibilità anche della successiva memoria, con a margine nuova ed ulteriore procura speciale, depositata in vista dell’adunanza collegiale fissata al 27 novembre 2019 nell’interesse dello stesso D.M. (cfr. Cass. II civ. n. 12803 del 14/05/2019, secondo cui in tema di rito camerale di legittimità ex art. 380-bis.1 c.p.c., relativamente ai ricorsi già depositati alla data del 30 ottobre 2016 e per i quali venga successivamente fissata adunanza camerale, la parte intimata che non abbia provveduto a notificare e a depositare il controricorso nei termini di cui all’art. 370 c.p.c., ma che, in base alla pregressa normativa, avrebbe ancora la possibilità di partecipare alla discussione orale, per sopperire al venir meno di siffatta facoltà può presentare memoria, munita di procura speciale, nei medesimi termini entro i quali può farlo il controricorrente, trovando in tali casi applicazione l’art. 1 del Protocollo di intesa sulla trattazione dei ricorsi presso le Sezioni civili della Corte di cassazione, intervenuto in data 15 dicembre 2016 tra il Consiglio Nazionale Forense, l’Avvocatura generale dello Stato e la Corte di cassazione). Contrariamente, però, a quanto sul punto dedotto con detta memoria, va esclusa la tardività del ricorso per cassazione di TELEFOGGIA, avuto riguardo alla rinnovata richiesta di notifica all’ufficiale giudiziario in data 5 febbraio 2016 (venerdì), comunque tempestiva, visto che la precedente notificazione (richiesta il 5 gennaio 2016, perciò ampiamente entro il termine lungo semestrale, di cui all’art. 327 c.p.c.) aveva avuto esito negativo per l’intervenuto trasferimento del domiciliatario con conseguente restituzione al mittente soltanto verso la fine del mese di gennaio 2016. Ne deriva che tra la relata negativa, a mezzo servizio postale in data 12 gennaio, e la rinnovata richiesta del 5 febbraio 2016, non erano trascorsi nemmeno trenta giorni, cioè meno della metà del termine di giorni 60 previsto dall’art. 325 c.p.c., comma 2 (v. al riguardo anche Cass. lav. n. 16943 del 27/06/2018: in caso di notifica di atti processuali non andata a buon fine per ragioni non imputabili al notificante, questi, appreso dell’esito negativo, per conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria deve riattivare il processo notificatorio entro un termine ragionevolmente contenuto, tenuti presenti i tempi necessari secondo la comune diligenza per conoscere l’esito negativo della notificazione e per assumere le informazioni ulteriori conseguentemente necessarie. Di conseguenza, in fattispecie anteriore alla delimitazione più stringente del tempo di riattivazione del processo notificatorio -individuato, in via interpretativa, dalla più recente giurisprudenza nell’intervallo temporale pari alla metà dei termini indicati dall’art. 325 c.p.c., ex Cass. sez. un. civ. n. 14594 del 15/07/2016 – questa Corte con la succitata pronuncia n. 16943/18 giudicava tempestiva la notifica del ricorso per cassazione, ivi avviata il 26 giugno 2013 e rinnovata il 14 agosto 2013);

inoltre, nessuna specifica censura è stata formulata da parte ricorrente per quanto concerne la motivazione dell’impugnata pronuncia, relativamente al rigetto dell’eccezione di prescrizione a suo tempo formulata (in particolare con riferimento al periodo ottobre 1992 – dicembre 2000), con conseguente formazione di giudicato sul punto, a parte poi ogni altra considerazione circa il dies a quo dal quale il diritto al t.f.r. maturato poteva essere fatto valere (art. 2935 c.c.), ossia dalla cessazione del rapporto di lavoro (nella specie, quindi, dal licenziamento del 22 settembre 2008. V. Cass. lav. n. 11470 del 18/11/1997: il diritto al trattamento di fine rapporto sorge alla cessazione del rapporto di lavoro e solo da questa data decorre il termine di prescrizione, mentre concorrono a determinarne l’ammontare anche gli accantonamenti relativi a retribuzioni per le quali il diritto sia ormai prescritto, poichè quelle retribuzioni rilevano solo come base di computo del t.f.r. e non come componenti del relativo diritto. Conforme Cass. lav. n. 11579 del 23/05/2014. V. ancora, parimenti, Cass. lav. n. 2827 del 06/02/2018, secondo cui il diritto al t.f.r. sorge con la cessazione del rapporto di lavoro e a quel momento può essere azionato, non essendo di ostacolo a tal fine la sussistenza, di una controversia tra le parti in ordine all’ammontare delle retribuzioni spettanti al lavoratore. Ne consegue che il termine iniziale di decorso della prescrizione del diritto al t.f.r. va individuato nel momento in cui il rapporto di lavoro subordinato è cessato, e non già in quello in cui sia stato accertato giudizialmente l’effettivo ammontare delle retribuzioni spettanti. Conforme, tra le altre Cass. n. 9695 del 2009);

tanto premesso, il ricorso de quo pur ammissibile quanto alla sua tempestività, deve tuttavia essere disatteso non soltanto per carente enunciazione, segnatamente ex art. 366 c.p.c., n. 6, dei pregressi atti processuali e della prodotta documentazione, soprattutto del contratto in data 1-1-2001 (che non è stato compiutamente ed organicamente riprodotto da parte ricorrente, che si è limitata invece a trascriverne, parzialmente, soltanto alcune clausole), ma anche perchè inammissibilmente, in questa sede di legittimità, è volto a contestare la ricostruzione della volontà contrattuale in senso diverso da quanto, per contro, ritenuto dalla Corte di merito con adeguata motivazione, comunque non inferiore al c.d. minimo costituzionale occorrente a norma dell’art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c., n. 4;

si deve al riguardo confermare, invero, il consolidato principio, ripetutamente affermato da questa Corte (v. tra le più recenti Cass. III civ. n. 28319 del 28/11/2017), secondo cui, la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poichè quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile, ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Conforme Cass. I civ. n. 16987 del 27/06/2018. In senso analogo v. tra le altre Cass. III civ. n. 24539 del 20/11/2009);

nel caso di specie qui in esame la Corte di merito ha tenuto conto delle doglianze lamentate dall’opponente – poi appellata (tra cui la circostanza, secondo cui il D.M., in proprio oltre che nella qualità di legale rappresentante della S.r.l. FOCUS, aveva stipulato con la società TELEFOGGIA, in data 1.1.2001, un contratto per la gestione esclusiva dell’emittente, a tempo determinato, fino al 26 giugno 2008), osservando in particolare che dalla documentazione prodotta dalla stessa TELEFOGGIA emergeva il riconoscimento del dedotto rapporto di lavoro subordinato con il D.M., visto in particolare che dall’allegato libro matricola quest’ultimo risultava assunto il 20 ottobre 1992 e poi licenziato il 22 settembre 2008. Inoltre, con lo stesso atto di opposizione l’anzidetto rapporto di lavoro era stato virtualmente scisso in due segmenti temporali (anni 1992/2000, ai fini della prescrizione, e 2001/2008 ai fini dell’accollo dell’obbligazione retributiva). Peraltro, la stessa TELEFOGGIA con il ricorso in opposizione aveva riconosciuto che i rapporti di lavoro, tra cui quello con il D.M., erano rimasti incardinati presso la medesima società, sostenendo tuttavia che tutte le obbligazioni retributive ed assicurative venivano accollate allo stesso D.M. in proprio e alla FOCUS. La Corte di merito, quindi, esaminava la scrittura privata di cui al suddetto contratto con decorrenza primo gennaio 2001, con la quale la soc. FOCUS assumeva tra l’altro la gestione diretta e funzionale del personale dipendente da TELEFOGGIA S.r.l., impegnandosi a rispettare con scrupolosa osservanza e puntualità tutti gli impegni sia contrattuali che di legge, rivenienti da tali rapporti, con particolare cura per la retribuzione mensile, per contributi previdenziali, assistenziali e ogni altro onere connesso. Di conseguenza, secondo la Corte distrettuale, si trattava di un accollo, in virtù del quale ai sensi dell’art. 1273 c.c., la FOCUS aveva assunto da gennaio 2001 il debito retributivo della TELEFOGGIA nei confronti dei dipendenti, ma senza liberazione del debitore originario, non figurando alcuna adesione del creditore ( D.M.) ovvero alcuna espressa liberatoria (da parte di quest’ultimo) in favore di TELEFOGGIA, secondo la previsione di cui all’art. 1273 c.c., comma 2. Pertanto, in assenza della suddetta liberazione, parte datoriale era rimasta obbligata in solido con il terzo (FOCUS S.r.l.), nei confronti del creditore D.M. ai sensi dell’art. 1273 c.c., comma 2, di guisa che la convenuta era stata correttamente sottoposta all’iniziativa monitoria, però indebitamente respinta in prime cure. Peraltro, la continuità dell’obbligazione retributiva in capo alla società appellata, per tutta la durata del rapporto di lavoro in parola, sebbene in via solidale dal 2001, non consentiva di scindere l’unitarietà del vincolo obbligatorio nei riguardi del dipendente D.M. ai fini dell’eccezione di prescrizione del t.f.r. maturato al 31 dicembre 2000;

d’altro canto, va pure evidenziata la parte di contratto, virgolettata, riportata a pag. 2 del ricorso per cassazione (“Considerato che, in virtù del presente contratto, la gestione diretta e funzionale del personale dipendente della Telefoggia S.r.l. è dell’affidataria, quest’ultima si impegna a rispettare con scrupolosa osservanza e puntualità tutti gli impegni…rinvenienti da tali rapporti, con particolare cura per la retribuzione mensile… data la facoltà all’affidataria di gestire il suddetto personale nel modo che riterrà più opportuno”), sicchè a chiare lettere l’obbligazione ivi concordata riguardava la sola affidataria, ossia la società Focus (e non già il legale rappresentante di questa, ancorchè partecipante al negozio anche in proprio), non potendosi quindi intendere tale partecipazione, come invece preteso dalla ricorrente, in difetto di ulteriori esaurienti allegazioni ex art. 366 c.p.c., n. 6, per l’intero contratto, quale adesione e/o dichiarazione liberatoria favorevole alla parte, che temporaneamente cedeva il complesso aziendale;

a tutto ciò deve pure aggiungersi l’ulteriore considerazione in punto di diritto, derivante in primo luogo dalla surriferita unitarietà dell’intero rapporto giuridico, relativo al contratto di lavoro subordinato, iniziato nell’ottobre 1992 e cessato per intervenuto licenziamento il 22 settembre 2008, quindi in epoca posteriore alla scadenza del 26 giugno 2008, prevista dal contratto di gennaio 2001, donde, evidentemente, la naturale prosecuzione, almeno de jure, del rapporto in parola fino al successivo 22 settembre, per cui obbligata al pagamento del t.f.r., fino a tale momento, risultava palesemente in via principale e per intero la datrice di lavoro, da identificarsi pacificamente in TELEFOGGIA S.r.l., ancorchè in ipotesi coobbligata in via solidale con altri limitatamente alle retribuzioni corrisposte tra gennaio 2001 e il 26 giugno 2008 (eventualmente pure ai sensi dell’art. 2112 c.c., una volta esaurito il contratto di affidamento allo spirare del termine prestabilito, anteriore appunto alla cessazione del rapporto di lavoro);

pertanto, quanto al primo motivo è palesemente infondata, se non addirittura inammissibile, la doglianza ivi formulata ex art. 360 c.p.c., n. 5, risultando evidente che la Corte di merito ha tenuto conto di ogni rilevante e decisiva circostanza fattuale, tra cui senz’altro anche la sottoscrizione del contratto pure in proprio da parte del D.M.;

analogamente – fermi, ad ogni modo, restando gli anzidetti rilevanti limiti in termini di autosufficienza del ricorso ex art. 366 c.p.c. – va detto per quanto riguarda la seconda censura, avendo comunque la Corte di merito con adeguate argomentazioni accertato l’inesistenza di una qualsiasi chiara e univoca adesione o dichiarazione liberatoria da parte del D.M. a favore di TELEFOGGIA. Ne deriva anche l’assorbimento del terzo motivo, connesso a quello precedente, di cui presupponeva la fondatezza, invece da escludersi, essendo stata appunto accertata, comunque, l’inesistenza di qualsiasi liberatoria da parte del D.M. in favore di TELEFOGGIA;

anche la quarta e la quinta censura, tra loro evidentemente connesse (la seconda peraltro, relativa ad error in procedendo per l’asserita violazione dell’art. 112 c.p.c., irritualmente denunciata ex art. 360 c.p.c., n. 3 e in ogni caso non univocamente in termini di nullità in relazione ai vizi previsti dall’art. 360 c.p.c., n. 4) vanno anch’esse disattese, per difetto di autosufficienza, non essendo stato precisato come, dove e quando e soprattutto in quali specifici termini TELEFOGGIA avrebbe dedotto la sua posizione di debitrice in via subordinata e sussidiaria, con conseguente richiesta di chiamata in causa, però genericamente dedotta sul punto da parte ricorrente, in violazione dell’autosufficienza, per contro richiesta dall’art. 366 c.p.c., comma 1, secondo le varie ipotesi ivi contemplate (manca, soprattutto, esauriente trascrizione del ricorso in opposizione al d.i., non bastando in proposito le sole conclusioni indicate alle pagine 3 e 4 del ricorso per cassazione), tanto più che la sottesa questione sostanziale non risulta in alcun modo esaminata dalla sentenza d’appello. Peraltro, una volta comunque disattesa in primo grado la richiesta sul punto (per cui va fissata nuova udienza di discussione, secondo la disciplina appositamente prevista dall’art. 420 c.p.c.), senza quindi la partecipazione del terzo al giudizio di primo grado, non si vede come una tale richiesta potesse ammettersi in appello. Anche in proposito poi rileva quanto sopra osservato circa la pacifica prosecuzione del rapporto di lavoro del D.M. alle dipendenze di TELEFOGGIA (oltre l’anzidetta scadenza del contratto di gestione stipulato con termine finale al 26 giugno 2008), ossia fino al recesso intimatogli il 22 settembre 2008, di guisa che per il t.f.r. fino a tale momento maturato dal dipendente la legittimazione passiva competeva in via principale alla datrice di lavoro, obbligata quindi per intero verso il lavoratore interessato, salvo poi eventuale azione di regresso nei confronti di terzi coobbligati, in solido (per quanto di ragione in relazione all’arco temporale di riferimento);

ad ogni modo, l’opportunità dell’intervento in causa del terzo ad istanza di parte è rimessa alla valutazione esclusiva e discrezionale del giudice del merito, l’esercizio della quale, in senso positivo o negativo, non può formare oggetto d’impugnazione nè, tantomeno, è sindacabile in sede di legittimità (Cass. lav. n. 3759 del 20/03/1993. Parimenti, secondo Cass. II civ. n. 984 del 19/01/2006, che precisava la insindacabilità della suddetta valutazione discrezionale sia nel giudizio di appello che in quello di legittimità. Conformi Cass. II civ. n. 12506 del 29/05/2007 e sez. lav. n. 15693 del 3/7/2009);

infine, con il rigetto del ricorso la parte rimasta soccombente va condannata al rimborso delle relative spese (per la cui liquidazione, tuttavia, si tiene conto esclusivamente dell’anzidetta memoria illustrativa, depositata per il sig. D.M. in vista dell’adunanza fissata al 27.11.2019), sussistendo, quindi, anche i presupposti di legge per il versamento dell’ulteriore contributo unificato, stante l’esito interamente negativo dell’impugnazione qui proposta.

PQM

la Corte RIGETTA il ricorso.

Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore dell’intimato D.M. in Euro 1000,00 (mille/00) per compensi professionali ed in Euro 100,00 (cento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e

c.p.a. come per legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 27 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 ottobre 2020

 

 

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