Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21863 del 30/07/2021

Cassazione civile sez. trib., 30/07/2021, (ud. 10/06/2021, dep. 30/07/2021), n.21863

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. SUCCI Roberto – Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 24074/2017 R.G. proposto da:

MARINE CONSULTING Srl in liquidazione, in persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avv.

Graziano Siringo in virtù di procura speciale in calce alla

comparsa di costituzione in data 19 aprile 2021, elettivamente

domiciliato in Siracusa, nel viale Tunisi n. 53 presso lo studio

dell’Avv. Graziano Siringo;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI n. 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2038/4/2017 della Commissione Tributaria

Regionale della Sicilia, sezione staccata di Siracusa, depositata in

data 5 giugno 2017;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10 giugno

2021 dal Consigliere Dott.ssa Corradini Grazia.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Srl Marine Consulting propose ricorso, in data 16.7.2011, contro la cartella di pagamento emessa nei suoi confronti, a seguito di controllo automatizzato e di avviso bonario in data 15.10.2010, per omesso pagamento del saldo IRAP 2008, pari ad Euro 48.451,00 oltre accessori, per un totale di Euro 71.550,94, sostenendo di avere assolto il debito tributario mediante il versamento, in data 18.4.2011, della somma di Euro 52.531,12 – erroneamente imputata, in sede di versamento, con modello F 24, al diverso codice tributato 6013 e utilizzazione in compensazione di un saldo IVA anno 2010 e del credito di imposta relativo ad aree svantaggiante codice tributo 6817 – per la quale, in data 21.4.2011, aveva presentato istanza di correzione chiedendo che venisse imputata al codice tributo 3800 (IRAP).

La Agenzia delle Entrate oppose che l’operato dell’ente impositore era legittimo poiché la contribuente nulla aveva opposto, in sede di comunicazione dell’avviso bonario da cui era scaturita la iscrizione a ruolo a seguito di controllo del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 bis, che aveva verificato il mancato versamento di IRAP 2008 e conseguenti accessori, mentre solo in data 18.4.2011 aveva versato una somma imputata ad IVA e confluita nel “sistema” a tale titolo, per cui non poteva essere attribuita a pagamento dell’IRAP 2008 e non si poteva procedere alla rettifica della imputazione di pagamento tardivamente richiesta, potendo comunque la contribuente utilizzare la somma versata in data 18.4.2011 come credito IVA.

Con sentenza n. 269/4/2013 la Commissione Tributaria Provinciale di Siracusa accolse il ricorso, limitatamente al carico di imposta, mentre ritenne dovuti le sanzioni e gli interessi, rilevando che la società ricorrente aveva depositato in segreteria una istanza con cui aveva chiesto che venisse dichiarata l’estinzione del processo per cessazione della materia del contendere per avvenuta regolazione della pretesa fiscale, restando dovuti sanzioni ed interessi e l’Ufficio, con dichiarazione resa dal funzionario difensore all’udienza di discussione, aveva confermato l’avvenuta definizione della pretesa.

Investita dall’appello dell’Agenzia delle Entrate – che dedusse erronea motivazione della sentenza di primo grado poiché non vi era prova dell’avvenuto versamento dell’imposta – la Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, sezione distaccata di Siracusa, con sentenza n. 2038/4/2017, lo accolse, così confermando integralmente l’atto impugnato, rilevando che alla dichiarazione resa dal rappresentante dell’Ufficio in udienza, secondo cui “l’Ufficio insiste nella debenza delle sanzioni, riconoscendo l’avvenuta definizione della pretesa” non poteva attribuirsi valore confessorio, prevalendo la eccezione dedotta dall’Ufficio in sede di costituzione in primo grado e confermata in appello, secondo cui la richiesta di correzione dell’imputazione del versamento era inefficace perché eseguita tardivamente, molti mesi dopo rispetto alla comunicazione di irregolarità, per cui la società contribuente avrebbe potuto utilizzare la somma erroneamente imputata come credito IVA, come peraltro l’Ufficio aveva allegato essere già avvenuto per gli anni successivi.

Contro la sentenza, depositata in data 5.6.2017, non notificata ha presentato ricorso per cassazione la contribuente con atto notificato in data 2/3 ottobre 2017, affidato a quattro motivi, al quale resiste con controricorso la Agenzia delle Entrate.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 322 del 1988, art. 2, commi 8 e 8 bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la sentenza impugnata violato il principio di emendabilità della dichiarazione dei redditi affetta da errore, anche in corso di giudizio o in precedenza mediante dichiarazione integrativa.

1.1. Il motivo è infondato poiché con esso si invoca la applicazione di principi non pertinenti rispetto al caso in esame in cui non vi è stata alcuna dichiarazione integrativa di reddito e tanto meno una correzione della dichiarazione nel corso del giudizio, bensì soltanto una richiesta, rivolta all’Ufficio, di potere rettificare la imputazione di pagamento di una somma, peraltro diversa per importo e versata molti mesi dopo la comunicazione dell’avviso bonario con un codice diverso, quando l’Ufficio aveva già emesso il ruolo e la diversa somma, versata per altro titolo, era stata acquisita dal sistema tributario in base alla diversa imputazione. I principi in materia di rettifica della dichiarazione rispondono infatti a diverse finalità e sono inseriti in un ambito che non ha alcuna attinenza con le imputazioni di pagamento.

2.Con il secondo motivo lamenta nullità della sentenza per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, n. 4 e art. 61 e art. 118 disp. att. c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, poiché la sentenza conteneva una motivazione meramente apparente ed illogica ed in contrasto con gli atti di causa in quanto l’accoglimento dell’appello dell’Ufficio era avvenuto per motivi diversi dal motivo di appello avanzato dall’Ufficio, essendo basata sulla tardività della correzione della imputazione del versamento, mentre l’appello era stato proposto per presunta mancanza di prova del versamento.

3. Con il terzo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 violazione dell’art. 112 c.p.c. per avere la CTR pronunciato oltre i limiti della domanda avanzata con l’atto di appello alla Agenzia delle Entrate, sulla base di un motivo nuovo dedotto per la prima volta in appello, in ordine alla presunta prova dell’avvenuto versamento, in violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57.

4. I due motivi possono essere esaminati congiuntamente perché con essi si deduce sotto diversi profili (violazione di legge e motivazione apparente) che il giudice di appello avrebbe deciso su una questione non rimessa al suo esame con l’appello, con conseguente vizio di ultrapetizione e anche di nullità della sentenza per motivazione apparente, essendo la motivazione riferita ad un vizio non dedotto né in primo grado né in appello.

4.1. I motivi sono infondati.

4.2. In primo luogo non è condivisibile la tesi della ricorrente per cui l’Ufficio avrebbe proposto in appello una domanda nuova come tale inammissibile, ai sensi dell’art. 57 del D.Lgs. n. 546 del 1992, poiché nel giudizio di appello la Agenzia ha dedotto la correttezza del ruolo in quanto non era provato il versamento della imposta iscritta a ruolo, in conformità alla difesa di primo grado (trascritta dalla contribuente a pagina 4 e 5 del ricorso per la parte di suo interesse) che era nel senso che l’IRAP era dovuta in quanto mai versata, essendo nel contempo infondata la pretesa della contribuente di correggere a distanza di tempo le imputazioni di altri versamenti rimettendo in discussione l’imputazione di somme già diversamente attribuite dal “sistema tributario”; il che è esattamente lo stesso e cioè che l’IRAP era dovuta.

4.3. In ogni caso, nel giudizio tributario, il divieto di proporre nuove eccezioni in sede di gravame, previsto al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, comma 2, concerne tutte le eccezioni in senso stretto, consistenti nei vizi d’invalidità dell’atto tributario o nei fatti modificativi, estintivi o impeditivi della pretesa fiscale, mentre non si estende alle eccezioni improprie o alle mere difese e, cioè, alla contestazione dei fatti costitutivi del credito tributario o delle censure del contribuente, che restano sempre deducibili (v. Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 21889 del 20/09/2017 rv. 645676 -02; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 31224 del 29/12/2017 Rv. 646995 – 01), il che consente all’Ufficio di difendere l’atto impugnato anche nel giudizio di appello senza limiti, se non quelli derivanti dall’eventuale giudicato interno.

4.4. Quanto sopra è una diretta conseguenza del funzionamento del principio di non contestazione, che opera anche nel processo tributario, nell’ambito del quale, tuttavia, deve essere coordinato con quello, correlato alla specialità del contenzioso, secondo cui la mancata specifica presa di posizione dell’Ufficio sui motivi di opposizione alla pretesa impositiva svolti dal contribuente non equivale ad ammissione dei fatti posti a fondamento di essi, né determina il restringimento del “thema decidendum” ai soli motivi contestati, posto che la richiesta di rigetto dell’intera domanda del contribuente consente all’Ente impositore, qualora le questioni da questo dedotte in via principale siano state rigettate, di scegliere, nel prosieguo del giudizio, tra tutte le possibili argomentazioni difensive rispetto ai motivi di opposizione (Sez. 5 -, Sentenza n. 7127 del 13/03/2019 (Rv. 653319 – 01) Nel processo tributario il principio di non contestazione non implica infatti a carico dell’Amministrazione finanziaria, a fronte dei motivi di impugnazione proposti dal contribuente, un onere di allegazione ulteriore rispetto a quanto contestato mediante l’atto impositivo, in quanto detto atto costituisce nel suo complesso, nei limiti delle censure del ricorrente, l’oggetto del giudizio (v. Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 19806 del 23/07/2019 (Rv. 654953 – 01).

4.5. Non vi è stata quindi, nel caso in esame, alcuna violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57 poiché, nel processo tributario, la parte resistente la quale, in primo grado, si sia limitata, in ipotesi, ad una contestazione generica del ricorso può rendere specifica la stessa in sede di gravame posto che il divieto di proporre nuove eccezioni in appello, posto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, comma 2, riguarda solo le eccezioni in senso stretto e non anche le mere difese, che non introducono nuovi temi di indagine (v. Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 12651 del 23/05/2018 (Rv. 648522 – 01).

4.6. Non sussiste poi neppure il caso di motivazione apparente per avere la sentenza appellata deciso su una questione non introdotta con l’atto di appello poiché la sentenza ha ritenuto che non vi fosse la prova del versamento dell’imposta e si è fatta poi carico della difesa della contribuente escludendo che la prova del versamento potesse derivare dalla tardiva richiesta di correzione di altro versamento a suo tempo imputato per altro importo a diversa imposta e che restava acquisito come credito IVA, che, fra l’altro, la contribuente aveva già utilizzato per altre annualità, come sostenuto dall’Ufficio.

4.7. Anche il secondo ed il terzo motivo sono quindi infondati.

5. Con il quarto motivo la contribuente deduce, infine, violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 2730 cc., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1 n. 3, per avere la sentenza impugnata disconosciuto valore di prova confessoria, proveniente dalla parte e non dal difensore, perché derivante da dichiarazione resa dal funzionario dell’Ufficio in sede di discussione della causa in primo grado, al fatto non contestato che la parte contribuente aveva regolato la sua pretesa.

5.1. Si tratta della deduzione svolta all’udienza di discussione in primo grado dal funzionario che difendeva l’Agenzia, che è trascritta nella sentenza d’appello “L’Ufficio insiste nella debenza delle sanzioni, riconoscendo l’avvenuta definizione della pretesa”, che, secondo la ricorrente, avrebbe valore di confessione del pagamento perché proveniente dalla stessa Agenzia, che invece secondo il giudice di appello resterebbe irrilevante e non avrebbe comunque valore di confessione.

5.2. La questione, dedotta sotto il profilo del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3 per violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., pone in primo luogo un problema di ammissibilità alla luce della recente pronuncia delle Sezioni Unite Sez. U -, Sentenza n. 20867 del 30/09/2020, alla quale questa Corte ritiene di dovere fare riferimento, secondo cui “In tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione” e ancora “In tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c.”. Infatti, nel caso in esame, la sentenza impugnata ha escluso il valore confessorio delle dichiarazioni del funzionario in merito alla definizione della pretesa richiamando la giurisprudenza di questa Corte (Cass. sez 2 n. 7015 del 2012 rv. 622155) secondo cui le dichiarazioni rese in giudizio dal difensore, contenenti affermazioni relative a fatti sfavorevoli al proprio rappresentato e favorevoli all’altra parte, non hanno efficacia di confessione, ma possono essere utilizzate dal giudice come elementi indiziari, valutabili agli effetti dell’art. 2729 c.c. e quindi nell’ambito del suo potere valutativo eventualmente censurabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e non anche ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3.

5.3. In ogni caso, nella specie non si è trattato di una rinuncia espressa alla pretesa o all’appello, formulata in sede di udienza dal funzionario nella cui persona sta in giudizio l’ufficio finanziario, la quale è stata ritenuta dalla giurisprudenza di questa Corte, dopo diverse decisioni difformi (N. 10215 del 2003 Rv. 564621 – 01, N. 10427 del 2003 Rv. 564726 – 01), valida ed efficace in quanto atto direttamente riferibile all’ufficio stesso, non essendo configurabile in materia l’istituto della rappresentanza volontaria e dovendosi altresì ritenere, nei rapporti esterni, e quindi nei confronti del giudice e della parte privata, che il funzionario agisca in base a legittima investitura del potere esercitato (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 305 del 11/01/2006 Rv. 586259 – 01; conformi Sez. 5, Sentenza n. 5762 del 10/03/2010 Rv. 611619 – 01; N. 5270 del 2004 Rv. 571180 – 01; N. 7082 del 2004 Rv. 572066 – 01), bensì di una dichiarazione priva di valore confessorio ed in effetti di per sé ambigua perché non accompagnata dalla espressa rinuncia alla pretesa.

5.4. Anche la sentenza impugnata ha sottolineato il carattere ambiguo delle dichiarazioni orali rese in udienza di discussione dal funzionario che difendeva l’Agenzia, che sono state trascritte con “virgolettato” in sentenza, ma che erano state contrastate con la chiara presa di posizione della stessa Agenzia in tutti gli scritti difensivi, sia precedenti che successivi alle dichiarazioni rese in udienza dal funzionario (scritti difensivi con i quali l’Agenzia aveva negato che fosse intervenuta una cessazione della materia del contendere, poiché la somma versata dalla contribuente successivamente alla comunicazione dell’avviso bonario era stata già attribuita dal “sistema tributario” al tributo indicato in base alla delega di pagamento e la imputazione del pagamento già acquisito non poteva essere modificata mediante una mera dichiarazione successiva del contribuente), per cui si deve escludere che si trattasse di una rinuncia dell’Ufficio alla pretesa ovvero di una confessione in merito alla avvenuta soddisfazione delle pretesa dell’Ufficio, stante il carattere quanto meno equivoco delle dichiarazioni orali del funzionario.

5.5. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato e la ricorrente – fermo restando il carico delle spese già disposto dal giudice di merito – deve essere condannata, per effetto della soccombenza, alla rifusione delle spese del presente giudizio liquidate come in dispositivo. Si deve, infine, dare atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte: Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio in favore della controricorrente, che liquida in Euro 2.300,00, oltre spese prenotate a debito. Da atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 30 luglio 2021

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