Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21861 del 30/08/2019

Cassazione civile sez. III, 30/08/2019, (ud. 11/04/2019, dep. 30/08/2019), n.21861

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 22047-2017 proposto da:

PUBBLIEFFE ITALIA DI F.F. & C SAS, in persona del suo

legale rappresentante pro tempore, domiciliata ex lege in ROMA,

presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato VIRGILIO PASQUALE;

– ricorrente –

contro

COMUNE TREVISO, in persona del Sindaco e legale rappresentante pro

tempore, domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA

CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati

CONIGLIONE ANTONELLO, DE PIAZZI GIAMPAOLO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 363/2017 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 14/02/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/04/2019 dal Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA MARIO, che ha concluso per l’inammissibilità in subordine

rigetto;

udito l’Avvocato LOFOCO FABRIZIO per delega;

udito l’Avvocato PIROCCHI GABRIELE per delega;

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Nel 2009 il Comune di Treviso chiese ed ottenne dal Tribunale di Treviso due decreti ingiuntivi nei confronti della società Pubblieffe Italia di F.F. & c. s.a.s. (d’ora innanzi, “la Pubblieffe”).

A fondamento dei due ricorsi monitori dedusse:

-) di avere stipulato con la Pubblieffe un contratto avente ad oggetto la concessione di vari spazi, di proprietà comunale, per l’installazione di manifesti pubblicitari, dietro pagamento di un canone trimestrale;

-) la Pubblieffe non aveva adempiuto le proprie obbligazioni, omettendo di pagare i canoni da febbraio a novembre del 2009, nonchè le penali dovute per la ritardata riconsegna.

2. La Pubblieffe propose opposizione ai due decreti, chiedendo che il contratto stipulato col Comune fosse dichiarato risolto per eccessiva onerosità sopravvenuta, ex art. 1467 c.c..

A fondamento della domanda sostanzialmente riconvenzionale dedusse che il canone contrattualmente previsto, a causa della crisi economica manifestatasi nel 2008 e del conseguente crollo del mercato della pubblicità, era divenuto sproporzionato.

Con la memoria di replica depositata nel corso del giudizio di primo grado l’opponente aggiunse di avere comunque effettuato vari pagamenti in favore del Comune, i quali avevano ridotto l’importo da questo preteso in via monitoria.

3. Con sentenza 21.1.2014 n. 126 il Tribunale di Treviso rigettò l’opposizione.

La Pubblieffe impugnò la decisione lamentando:

(a) che erroneamente il Tribunale aveva rigettato la domanda di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta;

(b) che erroneamente il Tribunale aveva omesso di defalcare dal credito del Comune gli acconti da essa pagati;

(c) che erroneamente il Tribunale aveva rigettato le richieste istruttorie da essa formulate per dimostrare come, nel caso di specie, la crisi economica aveva provocato una eccessiva onerosità sopravvenuta delle condizioni contrattuali.

4. Con sentenza 14.2.2017 n. 363 la Corte d’appello:

-) rigettò il motivo sub (a), reputando che la crisi economica rientrasse nella normale alea di ogni contratto;

-) dichiaro inammissibile il motivo sub (b), perchè avente ad oggetto una questione nuova;

-) quanto alle richieste istruttorie, la Corte d’appello le reputò generiche.

5. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione dalla Pubblieffe, con ricorso fondato su cinque motivi.

Ha resistito il Comune di Treviso con controricorso illustrato da memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso.

1.1. Col primo motivo la ricorrente lamenta, congiuntamente, la violazione dell’art. 1467 c.c. e art. 183 c.p.c., nonchè l’omesso esame d’un fatto decisivo.

Il motivo è così strutturato: dopo avere trascritto un ampio stralcio dell’atto d’appello e delle richieste istruttorie, la ricorrente conclude affermando che “è inequivoca e incontestabile la violazione dell’art. 1467 c.c.”, nonchè dell’art. 183 c.p.c., nonchè il “vizio di motivazione”, che il ricorrente ritiene censurabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

1.2. Nella parte in cui prospetta l’omesso esame del fatto decisivo il motivo è inammissibile, in quanto tale censura viene soltanto annunciata, ma non viene illustrata con i criteri stabiliti dalle Sezioni Unite di questa Corte: e cioè con la chiara indicazione di quale fatto sia stato omesso, quando ed in quale atto sia stato introdotto nel giudizio, come sia stato provato, perchè sia decisivo (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).

Nella parte in cui prospetta il “vizio di motivazione” il motivo è del pari inammissibile, dal momento che l’unico vizio di motivazione ancora censurabile in sede di legittimità, dopo la riforma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, è soltanto quello consistente nella totale mancanza di motivazione sinanche come segno grafico; nella motivazione insanabilmente contraddittoria; nella motivazione totalmente incomprensibile. E nessuna di queste tre evenienze ricorre nel caso di specie.

1.3. Nella parte in cui lamenta la violazione dell’art. 1467 c.p.c. e art. 183 c.p.c. il motivo è, del pari, inammissibile per totale mancanza d’una intelligibile illustrazione.

Gioverà ricordare, al riguardo, che un ricorso per cassazione è un atto nel quale si richiede al ricorrente di articolare un ragionamento sillogistico così scandito:

(a) quale sia stata la decisione di merito;

(b) quale sarebbe dovuta essere la decisione di merito;

(c) quale regola o principio sia stato violato, per effetto dello scarto tra decisione pronunciata e decisione attesa.

Nel nostro caso, a parte qualsiasi rilievo sulla consequenzialità e sulla coerenza logica della tecnica scrittoria adottata dalla difesa del ricorrente, resta il fatto che nelle deduzioni svolte alle pp. 8-17 del ricorso per cassazione proposto dalla Pubblieffe non è ravvisabile alcuna chiara censura.

Sul piano contenutistico, la ricorrente si è limitata a trascrivere ad litteram il proprio atto d’appello (pp. 8-16 del ricorso), per poi giustapporvi generiche doglianze sul fatto che la Corte avrebbe “macroscopicamente violato l’art. 1467 c.c.”, senza nemmeno riassumere l’iter logico della sentenza impugnata.

Sul piano dell’analisi del periodo, in buona sostanza la ricorrente ha riproposto a questa Corte le censure proposte con l’atto d’appello avverso la sentenza di primo grado. Il che propriamente non può dirsi una censura alla sentenza d’appello.

Sul piano della logica formale, poi, la società ricorrente non spiega in alcun punto del suo primo motivo in cosa sia consistito l’errore, e quale la diversa regola da applicare.

Un ricorso così concepito non può che dirsi inammissibile per totale aspecificità.

Questa Corte, infatti, può conoscere solo degli errori (vb correttamente censurati, ma non può rilevarne d’ufficio, nè può pretendersi che essa intuisca quale tipo di censura abbia inteso proporre il ricorrente, quando questi esponga le sue doglianze con tecnica scrittoria oscura, come già ripetutamente affermato da questa Corte (da ultimo, in tal senso, Sez. 3, Ordinanza n. 11255 del 10.5.2018; Sez. 3, Ordinanza n. 10586 del 4.5.2018; Sez. 3, Sentenza 28.2.2017 n. 5036).

2. Il secondo motivo di ricorso.

2.1. Col secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 183 c.p.c., nonchè il vizio di omesso esame d’un fatto decisivo.

Sostiene che erroneamente la Corte d’appello avrebbe rigettato le sue richieste istruttorie, e cioè:

-) l’interrogatorio formale del sindaco di Treviso;

-) la prova testimoniale.

Deduce che quelle prove erano ammissibili e rilevanti, e che, se ammesse, avrebbero determinato un esito diverso del giudizio.

2.2. Il motivo è inammissibile.

Anche, infatti, a prescindere dal rilievo che i riferimenti normativi dedotti dalla ricorrente sono inesatti (il rigetto di prove ammissibili non costituisce violazione dell’art. 183 c.p.c.), la censura appare estranea alla ratio decidendi.

La Pubblieffe chiese in primo grado varie prove: per interpello, per testimoni, per consulenza tecnica.

Il Tribunale le rigettò, e le relative istanze vennero riproposte in grado di appello.

La Corte d’appello, tuttavia, non esaminò nel merito le istanze istruttorie reiterate dalla Pubblieffe. Ritenne, invece, che in appello la società Pubblieffe si fosse limitata, sul punto, ad un “semplice richiamo alle memorie istruttorie di primo grado”, il che ad avviso della Corte d’appello non poteva che comportare “l’inammissibilità della richiesta di riapertura della fase istruttoria, atteso il tenore del tutto generico della medesima”.

Il senso della decisione è dunque chiaro: la Corte d’appello non ha affatto ritenuto inammissibili le richieste istruttorie (per difetto di rilevanza od altro); ma ha ritenuto che quelle richieste non fossero state correttamente riproposte in appello.

Tale ratio decidendi, tuttavia, non viene nemmeno sfiorata dal secondo motivo di ricorso: questo, infatti, si duole non già del giudizio di inadeguata riproposizione delle richieste istruttorie in sede di gravame, ma di “mancata ammissione” tout court di quelle richieste (così, testualmente, il ricorso, p. 20, primo capoverso).

Una censura, dunque, non pertinente rispetto al tenore della sentenza d’appello.

2.3. Solo ad abundantiam, non sarà superfluo aggiungere che il ricorrente censurò in appello il giudizio di irrilevanza, con cui il giudice di merito aveva rigettato le sue richieste istruttorie.

Ma il giudizio di rilevanza d’una richiesta istruttoria rientra tra quelle scelte discrezionali del giudice di merito che, pur non essendo libere nel fine, gli lasciano tuttavia un ampio margine di valutazione. E tale valutazione, secondo le Sezioni Unite di questa Corte, “è intrinsecamente ed inscindibilmente intrecciata con una valutazione complessiva dei dati già acquisiti in causa ed, in definitiva, della sostanza stessa della lite. Il che spiega perchè siffatte scelte siano riservate in via esclusiva al giudice di merito e perchè, quindi, pur traducendosi anch’esse in un’attività processuale, esse siano suscettibili di essere portate all’attenzione della Corte di cassazione solo per eventuali vizi della motivazione che le ha giustificate, senza che a detta corte sia consentito sostituirsi al giudice di merito nel compierle” (sono parole di Sez. U, Sentenza n. 8077 del 22/05/2012, p. 4.1 dei “Motivi della decisione”).

Resta solo da aggiungere, per la migliore intelligenza del testo trascritto, che nel regime processuale vigente all’epoca in cui le Sezioni Unite adottarono la decisione appena ricordata era ancora consentito censurare in sede di legittimità il vizio di illogica, insufficiente o contraddittorio motivazione, e solo con riferimento a tale oggi estinta possibilità deve intendersi riferimento alla censura abilità, in sede di legittimità, del “vizio della motivazione” adottata dal giudice di merito a giustificazione del rigetto delle istanze istruttorie.

3. Il terzo motivo di ricorso.

3.1. Anche col terzo motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 183 c.p.c., e l’omesso esame d’un fatto decisivo.

Al di là di tali richiami formali, nella illustrazione della censura lamenta che erroneamente la Corte d’appello avrebbe rigettato la sua richiesta di c.t.u..

Sostiene che tale richiesta sarebbe stata rigettata dalla Corte d’appello con motivazione “insufficiente ed illogica”; e che una consulenza tecnica d’ufficio era “giuridicamente e processualmente ineludibile e necessaria per una giusta decisione e sentenza”.

3.2. Nella parte in cui lamenta l’omesso esame d’un fatto decisivo il motivo è inammissibile per le medesime ragioni già indicate supra, al p. 1.2.

Nella parte restante il motivo è inammissibile: disporre una c.t.u. è infatti una facoltà discrezionale riservata al giudice di merito, e non sindacabile in sede di legittimità, come stabilito dalla sentenza delle Sezioni Unite già ricordata supra, al p. 2.3.

A tale regola è consentito derogare solo in un caso: quando con gli ordinari mezzi di prova sia impossibile per la parte dimostrare il fatto costitutivo della sua domanda o della sua eccezione.

Nel caso di specie, tuttavia, la ricorrente non ha nemmeno adombrato tale eventualità, nè è consentito ritenere che l’andamento degli indicatori economici, in un dato contesto locoregionale ed in un determinato momento storico, non possano provarsi altrimenti che con una consulenza tecnica d’ufficio.

4. Il quarto motivo di ricorso.

4.1. Il quarto motivo di ricorso a una intitolazione non coerente con la sua illustrazione.

Nell’epigrafe del motivo, infatti, la società ricorrente lamenta il vizio di “omesso esame d’un fatto decisivo” (così il ricorso, pagina 23).

Nella illustrazione del motivo, tuttavia, la ricorrente si duole del fatto che la Corte d’appello avrebbe trascurato di pronunciarsi su un motivo di impugnazione.

Espone che il Comune di Treviso chiese ed ottenne nei confronti della Pubblieffe due decreti ingiuntivi: uno (il n. 3891/09) per l’importo di circa 200.000 Euro, dovuti a titolo di canoni non pagati; l’altro (n. 307/10), per l’importo di 18.000 Euro circa, dovuti a titolo di penale per ritardata consegna degli impianti pubblicitari.

Soggiunge di avere proposto opposizione avverso tutti e due i decreti; e di avere dedotto, con riferimento al decreto ingiuntivo n. 307/10 di non dovere pagare alcuna penale per il periodo compreso tra il 14.11.2009 e il 13.12.2009, perchè a quella data aveva “di fatto riconsegnato” gli impianti pubblicitari al Comune.

Deduce che tale motivo di opposizione non venne preso in esame dal Tribunale, e in appello aveva proposto un motivo di gravame, col quale sosteneva non essere stata adeguatamente considerata dal Tribunale la circostanza che essa ricorrente sin dal 13 novembre 2009 aveva “di fatto” riconsegnato gli impianti pubblicitari oggetto del contratto, e si era dichiarata a disposizione anche per la “riconsegna formale degli stessi”.

Conclude sostenendo che su questo motivo di gravame la Corte d’appello non si è pronunciata.

4.2. Come già rilevato, il contenuto del motivo in esame non è coerente con la sua intitolazione.

La ricorrente infatti, pur prospettando formalmente un vizio di omesso esame del fatto, di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, nella sostanza lamenta la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, così prospettando il differente vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4.

Questo errore nell’inquadramento della censura, tuttavia, non sarebbe di ostacolo all’esame del quarto motivo di ricorso.

Infatti, nel caso in cui il ricorrente incorra nel c.d. “vizio di sussunzione” (e cioè erri nell’inquadrare l’errore commesso dal giudice di merito in una delle cinque categorie previste dall’art. 360 c.p.c.), il ricorso non può per ciò solo dirsi inammissibile, quando dal complesso della motivazione adottata dal ricorrente sia chiaramente individuabile l’errore di cui si duole, come stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 17931 del 24/07/2013).

Nel caso di specie, come accennato, non è dubitabile che la ricorrente lamenti un vizio di omessa pronuncia, e dunque il suddetto errore di intitolazione non rende il motivo inammissibile per questa ragione.

4.3. Il quarto motivo di ricorso è tuttavia inammissibile per altra e più grave ragione, ovvero il difetto di specificità, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., nn. 4 e 6.

E’ pacifico nella giurisprudenza di questa Corte, che colui il quale lamenti la violazione, da parte del giudice d’appello, dell’art. 112 c.p.c., ed il conseguente vizio di omessa pronuncia, ha l’onere quanto meno di prospettare per quali ragioni la sua domanda od eccezione, se fosse stata esaminata, sarebbe stata accolta, ed avrebbe condotto ad una decisione diversa da quella effettivamente adottata.

Il rispetto delle regole processuali, infatti, non è fine a se stesso, ma è preordinato a garantire una decisione giusta: con la conseguenza che colui il quale denuncia in sede di legittimità un error in procedendo in cui fosse incorso il giudice di merito, ha l’onere di indicare il concreto pregiudizio derivatone: chè, se questo mancasse, nessun tipo di errore potrebbe mai condurre all’annullamento della sentenza impugnata, dal momento che l’impugnazione non tutela l’astratta regolarità dell’attività giudiziaria ma mira ad eliminare il concreto pregiudizio subito dalla parte (ex multis, Sez. 1 -, Sentenza n. 19759 del 09/08/2017, Rv. 645194 – 01).

4.4. Nel caso di specie, la ricorrente non ha affatto indicato nel ricorso per quale ragione il motivo di appello che assume non esaminato si sarebbe dovuto ritenere fondato.

Nè tale fondatezza emerge ictu oculi dalla vicenda narrata dalla Pubblieffe.

Quest’ultima, infatti, con il motivo d’appello che assume non esaminato si era doluta di essere stata condannata a pagare una penale, nonostante avesse “di fatto” messo a disposizione del Comune gli spazi pubblicitari da questo concessile.

Ma a parte il fatto che colui il quale abbia preso un impegno contrattuale non può recedere ad libitum, restituendo “di fatto” la prestazione non goduta, quel che più rileva è che qualsiasi restituzione, per produrre giuridici effetti, sarebbe dovuta avvenire nelle forme dell’offerta reale o quanto meno secondo gli usi: modalità tuttavia che la stessa ricorrente non assume mai di avere osservato.

5. Il quinto motivo di ricorso.

5.1. Col quinto motivo la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 233 e 345 c.p.c..

Il motivo, formalmente unitario, contiene in realtà due censure.

Con una prima censura la ricorrente lamenta che la Corte d’appello ha errato nel ritenere “nuova”, e quindi inammissibile, la questione concernente l’avvenuto adempimento parziale delle proprie obbligazioni, e il conseguente defalco dal credito del Comune degli acconti già versati.

Sostiene che:

a) tale questione era stata sollevata nella memoria di replica depositata in primo grado;

b) sull’avvenuto adempimento parziale il Comune nulla aveva osservato;

c) la memoria di replica contenente la deduzione della questione dell’adempimento parziale era stata inviata a mezzo posta elettronica al magistrato (personalmente) ed a mezzo PEC alla controparte, perchè così aveva chiesto il magistrato giudicante.

Con una seconda censura, contenuta nel medesimo motivo di ricorso, la Pubblieffe lamenta che erroneamente la Corte d’appello ha rigettato la sua richiesta di giuramento decisorio.

5.2. La prima censura è infondata: è la stessa ricorrente ad ammettere che la deduzione in giudizio dell’adempimento parziale avvenne solo con la memoria di replica in primo grado. Irrilevante è dunque il silenzio del Comune, posto che:

a) in primo grado il Comune non aveva la possibilità di replicare;

b) in appello non s’applica il principio di non contestazione, che l’art. 115 c.p.c. ancora al solo contenuto della comparsa di costituzione e risposta in primo grado.

In appello, infatti, se vengono sollevate nuove eccezioni, la loro inammissibilità è rilevabile d’ufficio, a prescindere da qualsiasi atteggiamento della parte appellata.

5.3. La seconda censura è infondata, sia pure per ragioni diverse da quelle ritenute dal Tribunale: e cioè la tardività della richiesta di giuramento decisorio.

Questa Corte, infatti, ha già ritenuto inammissibile, per tardività, la dichiarazione di deferimento del giuramento decisorio formulata per la prima volta con atto allegato alla comparsa conclusionale, poichè gli scritti difensivi successivi alla rimessione della causa al collegio possono contenere solo le conclusioni già fissate davanti al giudice istruttore (Sez. 2, Sentenza n. 18833 del 26/09/2016, Rv. 641341 – 01)

6. Le spese.

6.1. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno a poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, e sono liquidate nel dispositivo.

6.2. L’inammissibilità del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

P.Q.M.

La Corte di cassazione:

-) dichiara inammissibile il ricorso;

-) condanna Pubblieffe Italia di F.F. & c. s.a.s. alla rifusione in favore di Comune di Treviso delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di Euro 10.200, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie ex D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2, comma 2;

-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di Pubblieffe Italia di F.F. & c. s.a.s. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione civile della Corte di cassazione, il 11 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 30 agosto 2019

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