Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21850 del 09/10/2020

Cassazione civile sez. II, 09/10/2020, (ud. 15/10/2019, dep. 09/10/2020), n.21850

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORICCHIO Antonio – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18831/2015 proposto da:

C.P., GESTION P.C. SARL, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, P.ZA

SS. APOSTOLI 81, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO AMEDEO

IWAN MAINI, rappresentati e difesi dall’avvocato MAURO AMBROGIO

PIROVANO;

– ricorrenti –

contro

MULTIPARTNER SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA GIUSEPPE MAZZINI 27,

presso lo studio dell’avvocato FABIO PENNISI, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato ANSELMO CARLEVARO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2184/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 20/05/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

15/10/2019 dal Consigliere Dott. CHIARA BESSO MARCHESI.

 

Fatto

PREMESSO

Che:

1. Nel 2009 la società italiana Multipartner s.p.a. depositava domanda di arbitrato nei confronti di C.P. (in arte P.C.) e della società francese Gestion P.C. s.a.r.l., deducendo di avere ricevuto mandato a vendere la “Griffe P.C.” con incarico poi prorogato sino al 31 dicembre 2004, che il 30 settembre 2004 C. aveva comunicato il recesso anticipato dal contratto e dimostrato con il suo comportamento di non avere in realtà avuto intenzione di vendere e che nel 2006 la Gestion P.C. aveva illecitamente acquistato una banca dati creata da Multipartner per la presentazione della Griffe; chiedeva quindi all’arbitro di accertare che la condotta di P.C. e della società Gestion P.C. “costituisce violazione dei principi di buona fede e correttezza contrattuale di cui agli artt. 1175,1337 e 1375 c.c., nonchè inadempimento contrattuale e comunque fatto illecito ai sensi dell’art. 2043 c.c.” e di condannare le controparti al pagamento di Euro 750.000, quale risarcimento del danno cagionato per l’illecito acquisto e disposizione della banca dati, e di Euro 250.000 a titolo di risarcimento del danno cagionato per la “violazione dei principi di buona fede e correttezza contrattuale (..), nonchè inadempimento contrattuale e comunque fatto illecito”.

Con lodo del 10 dicembre 2007 l’arbitro unico, preliminarmente dichiarata la propria incompetenza ratione materiae in ordine all’accertamento della violazione, da parte di P.C. e della Gestion P.C., della L. n. 633 del 1941, sulla protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi e affermato che quello intercorrente tra le parti “è qualificabile come un contratto di mediazione ai sensi degli artt. 1754 c.c. e segg.”, condannava P.C. e la Gestion P.C. al pagamento di Euro 250.000 in favore della Multipartner s.p.a., “quale risarcimento del danno subito per la violazione del principio di buona fede contrattuale”.

2. Avverso il lodo P.C. e la Gestion P.C. proponevano impugnazione per nullità ai sensi dell’art. 829 c.p.c., comma 3, avendo l’arbitro dichiarato dovuto un risarcimento traente la propria fonte in un contratto nullo ex art. 1418 c.c., comma 1, perchè contrario a una norma imperativa diretta a tutelare interessi generali della collettività. Costituitasi in giudizio, la Multipartner s.p.a. proponeva a sua volta appello incidentale condizionato, chiedendo di riqualificare il rapporto inter partes in termini di mandato.

La Corte d’appello di Milano, con sentenza 20 maggio 2015, n. 2184, ha rigettato l’impugnazione.

3. Contro la sentenza ricorrono per cassazione P.C. e la società Gestion P.C. s.a.r.l..

Resiste con controricorso la società Multipartner s.p.a..

Sia i ricorrenti che la controricorrente hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis 1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. Il ricorso è articolato in due motivi, tra loro strettamente connessi:

a) Il primo motivo denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 1418, comma 1 c.c., L. n. 39 del 1989, art. 8 e della L. n. 452 del 1990, art. 11”. Secondo la Corte d’appello la mancata iscrizione al ruolo del mediatore non rientra tra i mala in se, contrari alle regole fondamentali dell’ordinamento, in quanto attiene a profili organizzativi della professione di mediatore: in tal modo il giudice non ha considerato che per la giurisprudenza di questa Corte è nullo per contrarietà a norma imperativa il contratto di mediazione stipulato come nel caso in esame – con il legale rappresentante di una società non iscritto al ruolo dei mediatori.

b) Il secondo motivo lamenta “violazione e falsa applicazione del considerando 41 della direttiva 2006/123/CE”. La Corte d’appello ha erroneamente sovrapposto il concetto di ordine pubblico comunitario di cui al predetto considerando, ove si individua un nucleo centrale irrinunciabile che deve essere tenuto presente da tutti gli Stati nelle proprie normative nazionali, al concetto di ordine pubblico nazionale, inteso quale principio generale del nostro ordinamento.

2. Preliminare all’esame dei motivi è l’indagine sulla ammissibilità dei medesimi, contestata dalla controricorrente, ad avviso della quale la sentenza impugnata si fonda su tre distinte e autonome rationes decidendi, così che, avendo i ricorrenti impugnato una sola ratio, ne deriverebbe l’inammissibilità dei due motivi e di conseguenza del ricorso.

Il Collegio ritiene, invece, che la sentenza impugnata sia fondata su un’unica ratio decidendi:

– la Corte d’appello, premesso che l’impugnativa (trovando applicazione il disposto di cui dell’art. 829, comma 3, così come novellato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 24) non poteva riguardare pretesi errori di diritto compiuti dall’arbitro nella qualificazione del rapporto, così che era preclusa la verifica della correttezza o meno della qualificazione del contratto inter partes da parte dell’arbitro, si è chiesta se il lodo potesse configurarsi lesivo dell’ordine pubblico;

– al riguardo, specificato che è solo il contenuto concreto del lodo che può determinare la contrarietà dello stesso all’ordine pubblico e non già la violazione della normativa applicata dagli arbitri, il giudice della nullità ha evidenziato che la contrarietà alla norma imperativa discende dall’avvenuta qualificazione del rapporto – qualificazione che, aggiunge il Collegio, spetta al giudice e quindi era compito dell’arbitro – che è distinta dall’accertata violazione del principio di buona fede e correttezza nella conduzione delle trattative e nella esecuzione del contratto (che di per sè non si pone certo in contrasto con l’ordine pubblico);

– tale qualificazione non comporta che il lodo in questione sia contrario all’ordine pubblico; la previsione di legge – la L. n. 39 del 1989, art. 2 – che imponeva l’iscrizione al ruolo del mediatore è infatti secondo la Corte d’appello una previsione che inerisce a profili organizzativi della professione di mediatore, così che si è fuori dalla portata della nozione di ordine pubblico, nozione che il diritto Europeo identifica con “gli interessi fondamentali della collettività e può includere, in particolare, questioni legate alla dignità umana, alla tutela dei minori e degli adulti vulnerabili e al benessere degli animali” (direttiva 2006/123/CE), diritto Europeo per il quale la libera prestazione dei servizi è uno dei principi cardine (al riguardo va precisato che è da considerare mero obiter dictum l’affermazione della Corte d’appello del contrasto tra la regola imperativa della necessaria iscrizione al ruolo del mediatore e i principi del Trattato istitutivo dell’Unione, contrasto che ne giustificherebbe la disapplicazione; sulla questione della compatibilità tra la suddetta regola e il diritto Europeo v. Cass. 22859/2007 e Cass. 10205/2011).

3. I due motivi di ricorso sono pertanto ammissibili. Essi sono però infondati.

Anzitutto, la Corte d’appello non ha negato che la mancata iscrizione all’albo del mediatore (imposta dalla L. 3 febbraio 1989, n. 39, art. 6 e applicabile anche all’esercizio dell’attività c.d. atipica di mediazione, v. Cass. 15473/2011 e Cass., sez. un., n. 19161/2017) determini la violazione di una norma imperativa (per l’affermazione della nullità del contratto per contrarietà a norma imperativa cfr. Cass. 11247/2003; v. anche Cass. 9380/2002, secondo cui la necessità della iscrizione nel ruolo professionale è “finalizzata a porre in risalto la natura professionale dell’attività del mediatore”, per la quale però “la violazione di una norma imperativa, ancorchè sanzionata penalmente, non dà luogo necessariamente alla nullità del contratto”, nonchè Cass. 15473/2011; per l’affermazione che “l’eccezione di nullità del contratto di mediazione per mancanza di iscrizione del mediatore nel ruolo previsto dalla L. 2 febbraio 1989, n. 39, costituisce un’eccezione in senso lato, afferendo a questione rilevabile d’ufficio dal giudice, che pertanto non è soggetta in grado di appello alle preclusioni di cui all’art. 345 c.p.c. e al divieto dello ius novorum sancito dalla stessa norma” v. Cass. 8581/2013, nonchè Cass. 21243/2019 e, in precedenza, Cass. 14076/2002).

Quello che il giudice d’appello ha negato è che ci sia coincidenza tra violazione di norma imperativa e contrarietà all’ordine pubblico e in particolare che la violazione della regola della necessaria iscrizione al ruolo dei mediatori, imperativa in quanto sanzionata in via amministrativa e, in caso di recidiva, in via penale, comporti violazione dell’ordine pubblico ai sensi dell’art. 829 c.p.c., comma 3.

4. Il Collegio condivide tale conclusione.

Il legislatore, con la novella del 2006, ha disposto che il lodo, salvo che sia espressamente disposto dalle parti, non sia impugnabile “per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia”; in tal modo il legislatore ha seguito quanto in precedenza dettato per l’arbitrato internazionale dall’art. 838 c.p.c. (l’intero capo, il VI, dedicato a tale tipo di arbitrato è stato abrogato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, che ha tendenzialmente esteso le disposizioni dell’arbitrato internazionale all’arbitrato tout court).

L’impugnazione è però “in ogni caso” ammessa “per contrarietà all’ordine pubblico”.

Prima della riforma del 2006, la clausola dell’ordine pubblico non era certo sconosciuta in materia. E’ infatti motivo tradizionale di rifiuto del riconoscimento e dell’esecuzione del lodo straniero (cfr. l’art. V 2 b della Convenzione di New York per il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali straniere e, nel nostro ordinamento, l’art. 840 c.p.c., comma 5), così come lo è delle norme e delle sentenze di origine straniera (cfr. della L. n. 218 del 1995, artt. 16 e 64), ambito quest’ultimo nel quale negli ultimi due decenni si è avviato un fenomeno in forza del quale “l’ordine pubblico da strumento di tutela dei valori nazionali, da opporre alla circolazione della giurisprudenza, diviene progressivamente veicolo di promozione della ricerca di principi comuni agli Stati membri, in relazione ai diritti fondamentali” (Cass., sez. un., 16601/2017). Al fenomeno, c.d. di comunitarizzazione o Europeizzazione della nozione, si richiama la sentenza impugnata ricordando la definizione di ordine pubblico della direttiva Europea 2006/123/CE (ricordata supra).

La clausola, inoltre, in materia arbitrale è stata più volte invocata da questa Corte in relazione alle pronunzie secondo equità dell’arbitro e circa il procedimento. Così si è affermato che l’arbitro autorizzato a pronunciare secondo equità è svincolato dalla rigorosa osservanza delle norme di diritto sostanziale “che non si traducano nell’inosservanza di norme fondamentali e cogenti di ordine pubblico” (Cass. 16755/2013, che segue quanto affermato da Cass. 1183/2006; v. pure Cass. 1724/1982, che si riferisce alle disposizioni inderogabili di ordine pubblico). Quanto al procedimento arbitrale, si è statuito che deve “essere condotto nel rispetto delle norme di ordine pubblico, che fissano i principi cardine del processo, di rango costituzionale, come il principio del contraddittorio” (Cass. 17099/2013).

Occorre stabilire se il richiamo alla clausola dell’ordine pubblico operato in sede di impugnazione del lodo vada interpretato come rinvio alle norme fondamentali e cogenti dell’ordinamento ovvero come sostengono i ricorrenti – se la clausola di cui all’art. 829 c.p.c., sottenda una nozione “attenuata” di ordine pubblico, che coincide con l’insieme delle norme imperative dell’ordinamento (il c.d. ordine pubblico interno, nozione utilizzata nella dimensione internazionalprivatistica per indicare le norme di applicazione necessaria che imponendo l’applicazione del diritto nazionale operano come limite al riconoscimento del diritto straniero, v. al riguardo Cass. 27592/2006).

Il Collegio ritiene che la prima impostazione, con la quale il richiamo alla clausola di ordine pubblico viene ad avere in materia arbitrale un significato univoco, sia quella da seguire. D’altro canto il legislatore del 2006, nell’invertire il rapporto tra regola ed eccezione per l’impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia, ha voluto rafforzare la stabilità del lodo estendendo all’arbitrato interno una regola prevista in campo transnazionale, ove l’ordine pubblico è da sempre identificato con le norme e i principi fondamentali dell’ordinamento. Che l’imperatività della norma non coincida con l’ordine pubblico trova poi una conferma nella distinzione – asserita da questa Corte – tra indisponibilità del diritto, che costituisce il limite al ricorso alla clausola compromissoria, e inderogabilità della normativa applicabile al rapporto giuridico, la quale non impedisce la compromissione in arbitrato, rimanendo viceversa tenuti gli arbitri ad applicare la normativa cogente in materia prevista (così, da ultimo Cass. 9344/2018, che riprende il principio di diritto di Cass. 3975/2004).

L’ordine pubblico cui fa riferimento l’art. 829 c.p.c., comma 3, coincide pertanto con le norme e i principi fondamentali dell’ordinamento, tra i quali non rientra la norma organizzativa di cui alla L. n. 39 del 1989, art. 6, che si “obbedisce al soddisfacimento dell’interesse pubblico affinchè l’attività del mediatore sia svolta esclusivamente da persone in possesso di particolare cognizioni tecniche” (v. Cass. 19066/2006), ma non è norma fondamentale dell’ordinamento.

II. Il ricorso va quindi rigettato.

Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio in favore della controricorrente che liquida in Euro 7.500, di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali (15%) e accessori di legge.

Sussistono, del D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale della Sezione Seconda Civile, il 15 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 ottobre 2020

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