Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2185 del 25/01/2022

Cassazione civile sez. lav., 25/01/2022, (ud. 12/10/2021, dep. 25/01/2022), n.2185

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DI PAOLOANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6620-2016 proposto da:

D.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE

114, presso lo studio dell’avvocato PARENTI LUIGI, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO AFFARI ESTERI E DELLA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE, in

persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis

dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO pressoi cui Uffici domicilia in

ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 8629/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata l’11/12/2015 R.G.N. 6851/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/10/2021 dal Consigliere Dott. DI PAOLANTONIO ANNALISA.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. la Corte d’Appello di Roma ha respinto l’appello di D.A. avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato il ricorso, proposto nei confronti del Ministero degli Affari Esteri, volto ad ottenere il pagamento, in via principale, della somma di Euro 145.740,27 e, in subordine, di Euro 102.453,85, a titolo di differenze retributive asseritamente maturate nel periodo luglio 1998/29 novembre 2001 nel quale il ricorrente aveva prestato attività lavorativa presso l’Istituto Italiano di Cultura di Belgrado sulla;

2. la Corte territoriale, riassunti i termini della controversia e respinta l’eccezione di inammissibilità dell’appello, ha rilevato che l’appellante aveva posto a fondamento della pretesa l’asserita disparità di trattamento con altro personale che svolgeva le medesime mansioni nella stessa sede e, richiamata giurisprudenza di questa Corte, ha escluso che la retribuzione concordata nel contratto individuale potesse essere ritenuta per ciò solo inadeguata, non avendo il ricorrente neppure allegato che il trattamento retributivo concordato violasse i parametri indicati dal legislatore;

3. ha aggiunto che la posizione del D. non era comparabile con quella degli altri dipendenti dallo stesso indicati, perché questi ultimi erano stati assunti nella vigenza dell’originaria disciplina dettata dal D.P.R. n. 18 del 1967, modificata dalla L. n. 662 del 1996 che, con decorrenza dalla sua entrata in vigore, aveva attribuito rilievo ai fini della quantificazione della retribuzione ai soli criteri e parametri indicati dallo stesso D.P.R., art. 157;

4. ha precisato, infine, che il principio della parità di trattamento, fissato dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45, non può essere invocato allorquando, come nella fattispecie, la diversità abbia una causa giustificatrice, sempre che sia rispettata la proporzionalità della retribuzione alla qualità e quantità del lavoro prestato;

5. per la cassazione della sentenza D.A. ha proposto ricorso sulla base di un unico motivo, illustrato da memoria, al quale ha opposto difese il Ministero degli Affari Esteri.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. il ricorso denuncia, con un unico motivo formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 18 del 1967, art. 162, comma 3 nel testo anteriore alla sua sostituzione ad opera della L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 132, violazione del combinato disposto del del D.P.R. n. 18 del 1967, art. 157 con la L. n. 401 del 1990, art. 17, comma 1 e con la L. n. 604 del 1982, art. 28 e art. 27, comma 3, nel testo prima della loro sostituzione e abrogazione ad opera rispettivamente del D.L. n. 103 del 2000, artt. 1 e 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 del c.c.”;

1.1. sostiene, in sintesi, il ricorrente che ha errato la Corte territoriale nel richiamare il D.P.R. n. 18 del 1967, art. 162 perché la domanda subordinata, sulla cui fondatezza si insiste in questa sede, era fondata unicamente sul D.P.R. n. 18 del 1967, art. 157 e la documentazione versata in atti dimostrava inequivocabilmente che, a parità di mansioni, egli era stato discriminato rispetto ai colleghi in servizio presso il medesimo Istituto Italiano di Cultura;

1.2. richiama la tabella retributiva n. 120/7570 dell’11 novembre 1986, il D.M. 26 luglio 1994, n. 120/4591, la proposta retributiva del 17 luglio 1997, il D.M. 17 maggio 1999, n. 3556, le sentenze rese in altri giudizi aventi ad oggetto la quantificazione del trattamento retributivo, ed insiste nel sostenere che la -mmandata equiparazione doveva essere riconosciuta perché la retribuzione concordata con i colleghi assegnati alle medesime mansioni presso la stessa sede era stata determinata sempre ai sensi del D.P.R. n. 18 del 1967, art. 157, con la conseguenza che la disparità di trattamento non aveva fondamento alcuno;

1.3. invoca, infine, la sentenza n. 8462/2011 pronunciata da questa Corte e sostiene che sarebbe già stato affermato il principio secondo cui “ogni retribuzione superiore e inferiore al 68h dell’ISE dell’omologo di ruolo proviene dalla corretta applicazione dei criteri e del limite (95% dell’ISE) previsti dal cit. D.P.R. n. 18 del 1967, art. 157”;

2. il ricorso è inammissibile per plurime ragioni concorrenti, già evidenziate da questa Corte con l’ordinanza n. 11639/2021, pronunciata in fattispecie analoga;

2.1. nello storico di lite si è evidenziato che il giudice d’appello ha respinto il gravame proposto dal D. sulla base di una pluralità di argomenti, ciascuno sufficiente a sorreggere il decisum, ed ha innanzitutto evidenziato, anche attraverso il richiamo a precedenti di questa Corte, che il ricorrente non aveva neppure.:.i.egato che la retribuzione, indicata nel contratto, fosse stata quantificata in violazione dei criteri e dei parametri normativi indicati dal D.P.R. n. 18 del 1967, art. 157, nel testo applicabile ratione temporis;

2.2. così ragionando il giudice d’appello non si è discostato dal principio di diritto enunciato da Cass. n. 16755/2019 (negli stessi termini Cass. n. 2925/2020 Cass. n. 6715/2021, Cass. n. 11758/2021) secondo cui “il personale assunto a contratto dalle rappresentanze diplomatiche, dagli uffici consolari e dagli istituti di cultura, può pretendere una retribuzione diversa e superiore rispetto a quella pattuita nel contratto individuale solo qualora quest’ultima non sia conforme ai parametri indicati dal D.P.R. n. 18 del 1967, art. 157, attuativi del precetto di cui all’art. 36 Cost., o, per i rapporti assoggettati alla legge italiana, alla contrattazione collettiva, che in parte a detti parametri rinvia. Non può, invece, fondare la sua pretesa sulla circostanza che ad altro dipendente assegnato alla stessa sede con le medesime mansioni sia stato riconosciuto un trattamento di miglior favore, perché quest’ultima attribuzione potrebbe essere, in ipotesi, non giustificata, alla luce delle previsioni della legge e della contrattazione collettiva, ed in tal caso la stessa, in quanto priva di fondamento normativo, non potrebbe mai essere assunta a parametro ai fini della quantificazione della “giusta” retribuzione”;

2.3. il ricorso non censura in modo specifico l’autonoma ratio decidendi, fondata sulla necessità di allegare la violazione dei parametri normativi di determinazione della retribuzione contrattuale, e tutte le considerazioni svolte si incentrano sull’ulteriore argomento, sviluppato dalla Corte territoriale, relativo alla non comparabilità con altri dipendenti in servizio presso la stessa sede;

2.4. ne discende che trova applicazione l’orientamento, ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità e qui ribadito, secondo cui “la sentenza del giudice di merito, la quale, dopo aver aderito ad una prima ragione di decisione, esamini ed accolga anche una seconda ragione, al fine di sostenere la decisione anche nel caso in cui la prima possa risultare erronea, non incorre nel vizio di contraddittorietà della motivazione, il quale sussiste nel diverso caso di contrasto di argomenti confluenti nella stessa ratio decidendi, né contiene un mero obiter dictum, insuscettibile di trasformarsi nel giudicato. Detta sentenza, invece, configura una pronuncia basata su due distinte rationes decidendi, ciascuna di per sé sufficiente a sorreggere la soluzione adottata, con il conseguente onere del ricorrente di impugnarle entrambe, a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione.” (Cass. n. 17182/2020; Cass. n. 13880/2020; Cass. n. 10815/2019);

3. alle considerazioni che precedono, già assorbenti, si deve aggiungere che il motivo è incentrato su documenti rispetto ai quali non risulta assolto l’onere di specifica indicazione imposto dall’art. 366 c.p.c., n. 6, da intendere nei termini precisati da Cass. S.U. n. 34469/2019;

3.1. detto onere risponde ad un’esigenza che non è di mero formalismo perché è finalizzato alla comprensione del motivo di doglianza, alla individuazione degli indispensabili presupposti fattuali sui quali esso si basa e, soprattutto, a consentire alla Corte la valutazione della decisività della produzione documentale;

3.2. non è sufficiente, quindi, che il ricorrente assolva al distinto onere previsto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., n. 4, perché l’art. 366 c.p.c., come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 5, richiede che al giudice di legittimità vengano forniti tutti gli elementi necessari per avere la completa cognizione della controversia, senza necessità di accedere a fonti esterne, mentre la produzione è finalizzata a permettere l’agevole reperibilità del documento la cui rilevanza è invocata ai fini dell’accoglimento del ricorso (cfr. fra le tante Cass. n. 32759/2021; Cass. n. 30552/2021; Cass. n. 19048/2016);

4. alla pronuncia di inammissibilità consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo;

5. ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 12 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 25 gennaio 2022

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