Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21833 del 20/09/2017


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Cassazione civile, sez. I, 20/09/2017, (ud. 30/05/2017, dep.20/09/2017),  n. 21833

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Presidente –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16652/2012 proposto da:

S.A., M.G., S.G., elettivamente

domiciliati in Roma, Via G. Baglivi n.3, presso l’avvocato

Tramontano Francesco, rappresentati e difesi dall’avvocato Ganguzza

Francesco Antonio, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Società per la Gestione di Attività – S.G.A. s.p.a.,

originariamente costituita quale cessionaria dei crediti del Banco

di Napoli S.p.a., a mezzo della sua mandataria Intesa San Paolo

S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, Via Padre Semeria n.27, presso

l’avvocato Criscuolo Gaito Vincenzo, che la rappresenta e difende,

giusta procura speciale per Notaio dott.ssa Maria Rosaria Saccà di

Napoli – Rep.n. 454 del 15.11.2016;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1159/2012 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 03/04/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

30/05/2017 dal Cons. Dr. FALABELLA MASSIMO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Con atto di citazione notificato l’11 giugno 1998 N.T.F – Nuove Tecnologie Fotocomposizione s.r.l., quale debitrice principale, S.A., S.G. e M.G., quali fideiussori, proponevano opposizione al precetto di pagamento loro intimato per la somma di L. 464.840.781 da S.G.A. s.p.a. a mezzo della mandataria Banco di Napoli s.p.a.. Il precetto si basava su di un contratto di finanziamento e gli opponenti eccepivano l’omessa integrale notificazione del titolo, per la mancata indicazione, nella procura, della persona giuridica in nome e per conto della quale erano state apposte le firme e per l’assente identificazione del creditore, avendo il Banco di Napoli omesso di dimostrare la propria legittimazione ad agire nella qualità di società mandataria di S.G.A.. Negavano che il predetto contratto potesse valere come titolo esecutivo e contestavano la somma pretesa; aggiungevano che a garanzia del capitale mutuato erano stati conferiti in pegno titoli emessi dalla banca per il valore nominale di L. 400.000.000 e con scadenza al 7 luglio 1997, titoli di cui non avevano avuto più alcuna notizia, e ciò con particolare riguardo all’accredito degli interessi e all’imputazione del capitale a scomputo del presunto debito. Rilevavano che il finanziamento concesso ai sensi della L. n. 64 del 1986era stato effettivamente erogato in data 8 novembre 1985 nella misura di L. 963.360.000, ma era stato accreditato dal Banco di Napoli solo il 7 giugno 1996, con valuta 2 gennaio 1996, imputandolo alle rate di mutuo scadute e senza operare il programmato adeguamento del tasso di interesse al saggio agevolato del 5,10% effettivo annuo. Domandavano che fosse dichiarata la nullità del precetto e l’insussistenza della pretesa azionata, condannandosi la banca al pagamento delle somme illegittimamente trattenute e al risarcimento dei danni, salva, in subordine, la compensazione delle rispettive partite di debito e credito.

Si costituiva la banca, nella menzionata qualità di mandataria, la quale eccepiva preliminarmente l’inammissibilità dei motivi di opposizione agli atti esecutivi per l’inosservanza del termine perentorio di cui all’art. 617 c.p.c.. Nel merito, asseriva il buon fondamento delle ragioni creditorie, derivanti dal citato contratto di finanziamento. Chiedeva, pertanto, il rigetto dell’opposizione o, in subordine, la condanna degli opponenti al pagamento delle somme dovute, maggiorate degli interessi.

Il giudizio era istruito con l’interrogatorio formale, l’esibizione di documentazione contabile afferente i rapporti intercorsi tra le parti e l’esperimento di consulenza tecnica d’ufficio. Veniva interrotto per il fallimento di (OMISSIS) e quindi riassunto dai fideiussori.

Il Tribunale di Napoli, con sentenza del 18 febbraio 2005, dichiarava inammissibili l’opposizione agli atti esecutivi e accoglieva l’opposizione all’esecuzione, dichiarando l’inesistenza dell’obbligazione di pagamento fatta valere, in forza del contratto di finanziamento, nei confronti dei fideiussori; per l’effetto rigettava la domanda riconvenzionale proposta dal Banco di Napoli.

2. – La sentenza era impugnata da Sanpaolo Imi s.p.a., incorporante il Banco di Napoli, sempre nella qualità di mandataria di S.G.A. e, nella resistenza dei garanti, la Corte di appello di Napoli, con sentenza pubblicata il 3 aprile 2012, in parziale accoglimento della domanda riconvenzionale proposta in prime cure dalla banca, condannava i fideiussori al pagamento dell’importo di Euro 24.205,79 oltre interessi convenzionali di mora.

3. – La pronuncia è stata impugnata per cassazione da S.A., S.G. e M.G. con ricorso affidato a due motivi; resiste con controricorso S.G.A. attraverso la procuratrice Sanpaolo Imi.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e degli artt. 112 e 342 c.p.c. per non avere la Corte di appello ritenuto, in conseguenza di una scorretta lettura della sentenza di primo grado, la formazione del giudicato interno su di un punto essenziale e decisivo della controversia: ciò da cui sarebbe derivato, come error in procedendo, l’omesso rispetto dei principi relativi alla corrispondenza tra chiesto e pronunciato, di cui all’art. 112 c.p.c., e del tantum devolutum quantum appellatum, di cui all’art. 342 c.p.c.. Osservano i ricorrenti che il giudice di prime cure aveva dichiarato,estinta la fideiussione per due distinte ragioni: capienza del, debitore alla data di estinzione del rapporto e verificarsi della fattispecie di cui all’art. 1955 c.c.. Rispetto al primo profilo, relativo alla posizione della debitrice principale, il Banco di Napoli non aveva notificato l’appello a quest’ultima; nessuna impugnazione era stata poi proposta con riferimento alla statuizione relativa alla vicenda estintiva di cui al cit. art. 1955 c.c.. La Corte di merito aveva osservato come nella sentenza di primo grado l’estinzione della fideiussione ex art. 1955 c.c. era stata “presa in considerazione in via del tutto ipotetica, quale argomento ostativo alla possibile opponibilità ai fideiussori dell’imputazione ad altri rapporti delle somme riscosse alla scadenza dei titoli dati in pegno”, sicchè non costituiva “oggetto di un accertamento idoneo al passaggio in giudicato”. Tale affermazione, peraltro, non aveva riscontro e si doveva negare che la fattispecie estintiva in esame fosse stata presa in considerazione dal Tribunale in via solo ipotetica.

1.1. – Il motivo non ha fondamento.

La prima delle due ipotesi di giudicato interno prospettate dai ricorrenti poggia su di un dato – la mancata notificazione dell’appello alla debitrice principale – che non è concludente. Come è ben noto, l’obbligazione solidale determina la costituzione di tanti rapporti obbligatori, quanti sono i condebitori, e con l’evocazione in giudizio dei diversi coobbligati si realizza la coesistenza nel medesimo giudizio di più cause scindibili (per tutte: Cass. S.U. 18 giugno 2010, n. 14700). Ai fini del valido accertamento del diritto azionato nei confronti dei garanti non rileva, dunque, che il procedimento di impugnazione abbia mancato di svolgersi nei confronti di (OMISSIS) (società assoggettata, del resto, a procedura concorsuale, sicchè la banca desistette dal proseguire il giudizio ordinario di cognizione nei suoi confronti, insinuandosi al passivo del fallimento: evenienza, quest’ultima, che emerge dalla sentenza impugnata). Ciò che è dirimente, ai fini che qui interessano, è – piuttosto – la proposizione dell’appello con cui la banca contestò ai fideiussori la mancata estinzione del rapporto obbligatorio che i medesimi dovevano garantire. E infatti, il gravame era diretto all’accoglimento della domanda riconvenzionale della banca stessa per quella parte dell’obbligazione di rimborso che, secondo la stessa appellante, non era stata ancora onorata.

Quanto, invece, al dictum del Tribunale concernente la liberazione dei garanti per la condotta della banca che aveva vanificato la surrogazione dei medesimi nei diritti di pegno del creditore (art. 1955 c.c.), devono prendersi le mosse dalla decisione assunta, sul punto, dal giudice di prime cure.

Il Tribunale ebbe a rilevare che l’esposizione debitoria di (OMISSIS) era insussistente, dal momento che dall’importo maturato a credito della banca, per capitale e interessi, doveva essere scomputato il controvalore dei titoli dati in pegno a garanzia del mutuo: osservò, in particolare, che l’importo ricavato dallo smobilizzo dei titoli (L. 328.707.928) era stato indebitamente distratto per coprire l’esposizione debitoria di altra società del gruppo; nondimeno lo assunse tra gli importi che concorrevano a definire l’ammontare delle somme destinate all’ammortamento del finanziamento oggetto di causa e trasse la conclusione che (OMISSIS) aveva, alla data del 13 agosto 1996, una “complessiva disponibilità di L. 671.321.352, ampiamente superiore al residuo debito”. Una eccedenza delle somme poste a disposizione della banca rispetto all’entità del debito di (OMISSIS) venne poi evidenziata, dal Tribunale, anche con riguardo alla situazione contabile in essere in data successiva (1 giugno 1998).

Quanto alla distrazione delle somme ricavate dai titoli costituti in pegno, (e posti a garanzia del solo credito riveniente dal rapporto di mutuo di cui qui si dibatte), il Tribunale osservò, poi, che “in alcun caso una eventuale distrazione di quegli importi, almeno per la parte riguardante lo smobilizzo dei titoli, sarebbe utilmente opponibile ai fideiussori, essendo a ciò ostativo il disposto dell’art. 1955 c.c.”.

Ora, la norma dell’art. 1955 c.c. priva il creditore della garanzia fideiussoria in ragione dell’attuata alterazione del quadro delle garanzie esistenti al momento della prestazione della fideiussione: in dottrina si è sottolineato, infatti, come le condizioni sulla base delle quali l’obbligazione garantita possa essere realizzata, ed esistenti al momento della conclusione del contratto fideiussorio, debbano presumersi tenute in considerazione dal fideiussore ai fini del vaglio dell’opportunità della prestazione della sua garanzia (avendo riguardo, in particolare, alla possibilità, da parte del detto soggetto, di surrogarsi al creditore soddisfatto nell’esercizio dei diritti che a quest’ultimo spettavano).

Tale è, dunque, la ratio della norma secondo cui la fideiussione si estingue se, per fatto del creditore, non può avere effetto la surrogazione del fideiussore nei diritti di pegno, ipoteca e privilegio del creditore stesso.

Correlativamente, ciò che rileva, nel quadro applicativo del nominato art. 1955, è il pregiudizio giuridico, non solo economico, sofferto dal fideiussore, che deve concretizzarsi nella perdita del diritto di surrogazione ex art. 1949 c.c. – ma anche di regresso ex art. 1950 c.c. – spettante, in origine, al creditore (per tutte: Cass. 3 maggio 2011, n. 9695; Cass. 5 dicembre 2008, n. 28838; Cass. 23 aprile 2004, n. 7719).

Il Tribunale, nella propria sentenza, ha bensì richiamato l’art. 1955 c.c., ma solo per affermare che la distrazione degli importi conseguiti dallo smobilizzo dei titoli (e cioè la loro destinazione all’adempimento di obbligazioni diverse rispetto a quelle derivanti dal contratto di mutuo) non sarebbe stato “utilmente opponibile ai fideiussori”. La sentenza non assume nè che il contratto di fideiussione si era estinto ex art. 1955 c.c., nè che il creditore aveva posto in essere una condotta atta a determinare, in concreto, la perdita, da parte del garante, dei diritti di surrogazione e di regresso: tali affermazioni – decisive per ipotizzare il giudicato interno opposto dai ricorrenti – non compaiono affatto nella pronuncia di prime cure.

All’opposto, la sentenza in questione, nell’asserire – non interessa se a torto o a ragione, perchè il punto non è in discussione – che il ricavato dei titoli costituti in pegno dovesse essere conteggiato in detrazione del credito della banca, garantito dai ricorrenti, finisce per prospettare l’esatto contrario di quanto sostengono gli odierni istanti. Se, infatti, gli importi conseguiti dallo smobilizzo sono valsi a ripianare l’esposizione debitoria dell’obbligata principale, il pregiudizio giuridico derivante dalla perdita dei diritti di surrogazione e di regresso è insussistente, giacchè, insieme alla garanzia, è venuto meno il debito garantito: e, con esso, la stessa ipotizzabilità del futuro esercizio dei diritti di regresso e di surrogazione da parte del fideiussore (risultando costui definitivamente liberato proprio in ragione del soddisfacimento dell’obbligazione principale).

In conclusione, la sentenza resa dal giudice di prima istanza, sia per la portata testuale delle affermazioni in essa contenute, sia per la logica cui obbedisce, non contiene alcuna statuizione nel senso del perfezionarsi della vicenda estintiva programmata dall’art. 1955 c.c..

La pronuncia della Corte di appello, che ha negato la formazione del giudicato interno sul punto, non merita dunque censura.

2. – Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza d’appello su fatti controversi e decisivi del giudizio, anche in relazione alla violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., dolendosi della irrazionalità e deficienza del processo logico della sentenza gravata; censurano quest’ultima anche per una connessa violazione e falsa applicazione degli artt. 1945 e 1955 c.c.. Gli istanti richiamano i passaggi motivazionali della pronuncia di prime cure che avevano portato all’affermazione per cui “il conto era comunque coperto”. Rilevano che la Corte distrettuale aveva operato una diversa ricostruzione contabile, con riferimento alle movimentazioni operate a partire dal 30 giugno 1995 ed evidenziano che la sentenza impugnata presentava: una omessa o insufficiente motivazione con riferimento alle ragioni che avevano condotto il giudice del gravame a discostarsi dalla pronuncia di primo grado; una omessa o insufficiente motivazione, con violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., quanto alla individuazione dei punti delle consulenze tecniche e dei dati contabili che non consentivano di confermare il convincimento espresso dal Tribunale; una contraddittorietà della motivazione, giacchè la sentenza impugnata aveva prima affermato essere inopponibile ai fideiussori il parziale utilizzo delle somme accreditate in forza di titoli dati in garanzia per la copertura di esposizione debitoria diversa da quella derivante da finanziamento e poi negato, di fatto, tale proposizione. Era stato quindi violato l’art. 1945 c.c., essendosi escluso che i fideiussori potessero far valere, con le contestazioni sul conto, le eccezioni che avrebbe potuto sollevare l’obbligata principale, nonchè l’art. 1955 c.c.: infatti il giudice distrettuale non aveva validamente confutato le argomentazioni della sentenza di primo grado nella parte in cui richiamava l’estinzione dell’obbligazione prevista da detta norma.

2.1. – Anche tale motivo deve essere disatteso.

Anzitutto non ricorre la censurata violazione dell’art. 1945 c.c., posto che essa è affermata in ragione delle assunte carenze della sentenza nell’apprezzamento delle risultanze probatorie di causa.

E’ appena il caso di rammentare che il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura è possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione (tra le tante: Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26610).

Nemmeno la censura ex art. 360 c.p.c., n. 3 riferita all’art. 1955 c.c. coglie nel segno, giacchè i ricorrenti non prospettano altro che una errata lettura, da parte della Corte di appello, della sentenza di primo grado (nella parte in cui aveva ritenuto inopponibile ai fideiussori l’imputazione, ad altri rapporti, dei titoli dati in pegno). In tal senso, tale censura è sostanzialmente iterativa di quella posta a fondamento del primo motivo.

Per il resto, il motivo si risolve nella formulazione di riproposizioni in fatto, inammissibili in questa sede.

Come è noto, il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. 4 novembre 2013 n. 24679; Cass. 16 novembre 2011, n. 27197; Cass. 6 aprile 2011, n. 7921; Cass. 21 settembre 2006, n. 20455; Cass. 4 aprile 2006, n. 7846; Cass. 89 settembre 2004, n. 18134; Cass. 7 febbraio 2004, n. 2357).

Nè il giudice del merito, che attinga il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, è tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (ad es.: Cass. 7 gennaio 2009, n. 42; Cass. 17 luglio 2001, n. 9662).

Per altro verso, il motivo di ricorso con cui – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2 – si denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, deve specificamente indicare il “fatto” controverso o decisivo in relazione al quale la motivazione si assume carente, dovendosi intendere per “fatto” non una “questione” o un “punto” della sentenza, ma un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purchè controverso e decisivo (Cass. 5 febbraio 2011, n. 2805). In tal senso, la censura, per essere munita della necessaria specificità, non può risolversi nella denuncia circa l’inadeguata trattazione, nella sentenza, di un tema del decidere, ma deve rivolgersi a fatti puntualmente individuati. In conseguenza, i ricorrenti avrebbero dovuto precisare, nel corpo del motivo, i fatti, trascurati o erroneamente apprezzati dalla Corte di merito, che avrebbero dovuto orientare la decisione nel senso da loro auspicato.

3. – In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

4. – Le spese di giudizio seguono la soccombenza.

PQM

 

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre oneri accessori e rimborso delle spese generali in ragione del 15%.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 1^ Sezione Civile, il 30 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 20 settembre 2017

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